Rigoletto alla Scala: parte seconda, la discesa

Nel 1935 toccò vestire i panni di Rigoletto a Benvenuto Franci. Franci fu un grandissimo baritono e se Galeffi ebbe, quale baritono, il monopolio del teatro milanese a Franci toccò quello del reale dell’Opera di Roma, ma Franci non era un cantante aulico ed ampolloso come Stracciari o Galeffi, benché quasi coetaneo di quest’ultimo. In primo luogo la voce era una autentica forza della natura con un centro grande e sonoro e la cui ostentazione (ovvia atteso lo straordinario materiale di partenza) penalizzava e la zona acuta e la flessibilità. Questo non significa che Franci fosse un cantante con palesi limiti tecnici, ma davanti al gusto assolutamente ottocentesco dei precedenti c’era qualcosa di moderno o di verista, che se fece di Franci un famoso Scarpia o sceriffo Rance ed anche un Giannetto di Cena delle Beffe e Gianciotto lo limitava nel repertorio ottocentesco. Questo rapportato a Rigoletto ed alle pagine, che restano del ruolo affidate a Benvenuto Franci ne fa un esecutore sensazionale ed un interprete limitato rispetto ai colossi –interpretativi- che lo avevano preceduto non solo sul palcoscenico scaligero. All’ascoltatore attento non deve però sfuggire che quando Rigoletto è il padre che implora e supplica Franci segue il canone tecnico ed il gusto ottocentesco e la voce è tenuta leggera e chiara e in posizione altissima.
In realtà la Scala trovò in tempi rapidi due successori di Galeffi uno a tempo pieno, sino a che la “strozza” gli resse, visto che praticava la scuola del muggito ed alludo a Gino Bechi (protagonista di nel 1943) ed uno part time perché il cattivo gusto imperante storceva il naso davanti ad un cantante come Carlo Tagliabue, che per metodo di canto era un cantante del passato. Solo che Carlo Tagliabue era per gusto e accento un baritono lirico (il suo Verdi migliore fu papà Germont ed anche un tardivo Monforte) e in Rigoletto (eseguito in Scala nel 1943-1946 e 1947) lo portava ad essere splendido nei momenti in cui Rigoletto è un padre amoroso, ma lo scatto insurrezionale del vendicatore, supportato da un ben chiaro codice etico, erano affidati più alla grande facilità degli acuti che non all’accento autenticamente drammatico. Certo l’accatto della stretta del secondo atto (a Londra e non a Milano con una Pagliughi dall’ottava superiore privilegiata) è l’ultimo canto della vecchia scuola di canto ottocentesca quella cui Rigoletto appartiene di diritto.
Poi anche alla Scala ci si dovette accontentare dapprima con l’apparizione di un limitato Leonard Warren nel 1953. Warren è uno di quei cantanti il cui mito è americano e in Europa o più precisamente in Italia non attecchì. Poi stabilire se erano i limiti del cantante piuttosto ovattato ed ingolato negli acuti o del gusto del tempo ormai votato alla “scuola de muggito”, che alla Scala espose i suoi migliori articoli è questione piuttosto secondaria.
Ma che il teatro milanese si fosse convertito ai figliastri di Titta Ruffo lo testimoniano lo scarso successo o meglio la limitata presenza di Corneil Mac Neil ed Aldo Protti, ovvero degli unici due baritoni che senza essere né Galeffi né Tagliabue sapessero emettere acuti facili e timbrati e cantare legato. Aldo Protti, poi ce ne mise del proprio riconoscendosi in una parte politica che l’altro totalitarismo imperante nel mondo della cultura negli anni ’60 non ammetteva, ma il cantante cremonese, allievo del conterraneo Basiola (Rigoletto in Scala nel 1939 ed allievo di Cotogni) aveva in alto uno squillo una facilità e morbidezza che era sconosciuta a tutti i suoi coetanei anche se dotati dell’eccezionale strumento di Protti. Poi è vero che la raffinatezza, il gusto per la frase detta a mezza voce (di cui però disponeva) l’accento vario sia nel furore che nel dolore e nell’amore erano parziali rispetto al glorioso passato, ma l’esecuzione era sotto il profilo vocale sempre facile e pertinente.
E fu l’ultimo tanto l’ultimo che nel 1985 ben oltre i sessanta e di poco più giovane di Magda Olivero, Aldo Protti fece il proprio debutto al Met nel ruolo del buffone a riprova che la macchina si era rotta e che si era – dolorosamente – reso necessario il ricorso ad un sopravvissuto.
Poi alla Scala venne il diluvio ovvero l’assenza di un baritono autenticamente verdiano. Dopo Bechi venne proposto Bastianini, che vociava con mezzo alla Franci, ma che non sapeva emettere un acuto né tanto meno cantare a mezza voce. Il pubblico lo adorava anche quando muggiva in Donizetti, salvo, poi, riprovarlo o quasi in Rigoletto. Lo stimava molto anche la diva del momento anche se un vecchio loggionista mi ha raccontato che la più bella esecuzione dell’incontro Violetta-Germont la realizzarono un pomeriggio di domenica la Divina con Carlo Tagliabue (ormai alle soglie del ritiro), accorso a sostituire il malato Bastianini. Il Rigoletto di Bastianini per tornare al punto è solo una voce splendida, ma bitumata e falsamente oscurata, incapace di autentico squillo e di colori. La morte prematura implementò il mito di Bastianini e lasciò lo spazio che sino ad allora non aveva avuto a Piero Cappuccilli. Anche qui a parte l’estensione quasi tenorile del baritono verdiano non c’era molto. E dirlo par bestemmia perché i ruoli verdiani furono quelli in cui per vent’anni “il Piero” imperversò alla Scala. Ma Rigoletto per fortuna di Cappuccilli, di Verdi e pure di chi ha nelle orecchie certi reperti, venne praticato ben poco e con ragione perché il legato ad alta quota, le smorzature, la dinamica sfumata sono tutti attrezzi con i quali Cappuccilli aveva rapporti conflittuali. Brillò in Simone e Macbeth perché il declamato, la presenza drammatica consentono di nascondere i limiti di tecnica ( limiti naturali Cappuccilli non ne aveva). Con orecchie libere dal loggionismo becero basta ascoltare il Rodrigo ed il Renato di Capuccilli dove le frasi declamati, i maldestri tentativi di mezze voci limitano molto la realizzazione del personaggio per concludere che è un bene che il rapporto fra il baritono triestino ed il buffone sia stato limitato. Poi tutti se ne sono dimenticati e abbiamo dovuto sentire quel che da vent’anni sentiamo senza l’imponente strumento del Piero.

Benvenuto Franci

Pari siamo:
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Cortigiani:
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Sì vendetta (con Ena Surinach):
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Leonard Warren

Pari siamo:
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Figlia! Mio padre (con Bidu Sayao):
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Cortigiani:
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Solo per me l’infamia… Sì, vendetta (con B. Sayao):
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Finale (con B. Sayao):
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Carlo Tagliabue

Pari siamo:
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Cortigiani:
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Solo per me l’infamia (con Margherita Carosio):
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Sì, vendetta (con Lina Pagliughi):
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Gino Bechi
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Piero Cappuccilli:

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Figlia! Mio padre (con Katia Ricciarelli):
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Cortigiani:
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Tutte le feste al tempio… Solo per me l’infamia… Sì, vendetta (con Ileana Cotrubas):
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Finale (con I. Cotrubas):
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4 pensieri su “Rigoletto alla Scala: parte seconda, la discesa

  1. questo articolo e il precedente possono esser presi come storia non solo dell’interpretazione di un ruolo specifico a Milano, ma quasi come storia tout court della vocalità baritonale negli ultimi 100 anni e più. Non ho commentato nulla della precedente puntata perchè tutto condividevo; gli ascolti scelti sono più che esemplificativi e i commenti precisi. Mi permetto solo di aggiungere per chi avesse l’intenzione di aprofondire la statura gigantesca del cantante e dell’interprete Galeffi, di ascoltare con attenzione l’attacco del “pura siccome un angelo” della Traviata dall’edizione completa dell’opera. Per pulizia morbidezza e timbratura, un vertice assoluto, come esempi straordinari sono Tagliabue e Stracciari (il giovane Stracciati è strabiliante!).

  2. Donzelli fa sempre disamine enciclopediche e che condivido in toto 😀

    Una sola domanda: e del buon Giorgio Zancanaro? Ha mai cantato Rigoletto alla Scala (magari con Muti)? Che ne pensi? Io, tra i recenti, lo pongo tra i primi e lo preferisco di gran lunga a Bruson (di Nucci va da sé). Non una natura eccezionale, ma una gran tecnica e sempre elegante.

  3. Sono un nuovo entrato,perdonatemi se non sono tecnico ma vorrei fare delle osservazioni.
    Zancanaro , secondo me, superiore a quasi tutti i baritoni degli anni 70-90 per linea di canto morbidezza espressività e squillo negli acuti.Lo squillo di una voce,sempre secondo me, è importante.La voce di Bastianini, sempre a mio parere non fu così male e neppure la dizione e la compostezza esecutiva mai realmente truce.

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