Rigoletto alla Scala, parte prima: l’impero di Carlo Galeffi.

RuffoPer l’ennesima volta e per l’ennesima con il medesimo protagonista in Scala viene proposto Rigoletto. Bandito durante l’epoca Abbado perché “operaccia” popolare venne, a teatro quasi blindato come per Traviata, riproposto da Muti. Ma del recente passato non è in questa sede nostro interesse parlare. Da una disamina delle cronologie scaligere emerge chiaro che il titolo verdiano non fu affatto fra il 1851 ed il 1922 opera di frequente proposizione nel massimo teatro milanese. Senza voler indagare la ragione credo vada cercata nel fatto che la Scala ospitò molti famosi tenori, parecchi soprani, ma fu avara di grandi baritoni. Basta verificare le assenze più chele presenze di Felice Varesi, Antonio Cotogni, Mattia Battistini, Giuseppe Kaschmann. La presenza baritonale più significativa fu quella di Victor Maurel, il quale brillava più per capacità di dicitore che di cantante (a sincerarsene basti il rifacimento del Boccanegra ancor più e prima di Jago di Otello e Falstaff) anche se altrove ed a fine carriera affrontò questo padre verdiano.
Anche dopo la creazione dell’ente autonomo e la presenza, oltre che di Toscanini, di altri grandi direttori come Mugnone, Vitale, Campanini ed il giovane Serafin la presenza del titolo verdiano fu parsimoniosa, nonostante la presenza nel massimo teatro milanese in quegli anni di quasi tutti i maggiori baritoni in carriera. Toccò quale protagonista nel 1904 a Titta Ruffo sotto la guida di Cleofonte Campanini. Titta Ruffo è passato alla storia quale esempio primo e pernicioso di baritono verista, indiscusso fondatore e modello della cosiddetta scuola del muggito, che, nei decenni successivi, offrì, applauditi nel teatro milanese, alcuni dei suoi migliori esemplari, quali Bechi, Gobbi, Bastianini e Cappuccilli sino all’odierno protagonista. Se si ascoltano le prime registrazioni del baritono pisano è chiaro che il modello del baritono, che canta “ore rotundo” come Battistini o come i giovani allora Stracciari e de Luca è lontano, ma più dei difetti ovvero i suoni morchiosi e marcatamente nasali della seconda fase della carriera (esemplare nel Rigoletto “la gioven che al mio tetton rapiste”) siamo davanti ad un cantante eccezionalmente dotato, in grado di supplire ad una tecnica più orecchiata che realmente appresa (e lo diceva Titta Ruffo medesimo) con uno strumento di eccezionale qualità. Basta sentire l’attacco di “no vecchio t’inganni” dove il baritono pisano rispetta il tradizionale attacco in pianissimo e il progressivo rinforzando per prorompere nella dichiarazione di vendetta. Certo l’impressione è che si tratti di una voce torrenziale con una facilità negli acuti tanto spontanea quanto impressionante e la tendenza al suono falsamente oscurato a fini interpretativi è evidentissima nel monologo, dove, pure, ci sono copiosi piani e pianissimi, galleggianti sul fiato “il retaggio di ogni uomo m’è tolto, il pianto” o la smorzatura “per cagion vostra è solo”, “Mi coglierà sventura”. Credo che i suoni falsamente oscurati, quelli accusati di birignao ed imitati per essere chiari, siano il portato del gusto dell’epoca, lo stesso di Caruso e quello che in campo femminile accettava di buon grado i suoni ostentatamente di petto della Burzio e della Carelli. Ogni tanto, poi, Ruffo si prendeva libertà sullo spartito come accade alla chiusa dell’aria “ridate a me la figlia” dove per tenere –troppo- la figlia ( o meglio per amplificare la forcella prevista in spartito) il cantante non rispetta i fiati previsti da Verdi ed il risultato non è musicalmente bello. Poi il contraltare è l’attacco di “piangi fanciulla” dolce, morbido e chiarissimo come si conviene secondo le regole dell’emissione per un fa e di vecchia ed alta scuola. Basta questo attacco per dire quale è la differenza fra il maestro ed i suoi sempre peggiori imitatori.
GaleffiLa ripresa del 1915 sotto la guida di Ettore Panizza presentò Carlo Galeffi ovvero il Rigoletto della Scala per vent’anni. Rodolfo Celletti, che in teatro non aveva mai sentito Galeffi nei panni del buffone, ammetteva di non avere mai sentito un vero e completo Rigoletto. Il baritono veneziano, ma romano di formazione, ebbe il monopolio scaligero del ruolo per vent’anni, erroneamente fu definito il Rigoletto di Toscanini, ma quando nel 1922 partecipò al famoso Rigoletto diretto da Toscanini con Lauri Volpi, che litigò prontamente con il maestro, e la Toti (altra monopolista del ruolo di ben diversa stazza rispetto al baritono) era già un baritono famosissimo di grande carriera e, per la cronaca, costosissimo. La scelta non poteva essere migliore perché Carlo Galeffi rappresentava con Stracciari, Amato e Danise il punto più alto e completo del canto (sempre legato, morbido e squillante in acuto) e del gusto (castigato, solenne ed affettuoso alla bisogna) baritonale. Rimando per una disamina tecnica completa ed irripetibile a pag. 111 de “Il canto” di Celletti per il monologo “Pari siamo”. Ma tutto quanto inciso da Galeffi del ruolo verdiano è perfetto o almeno ineccepibile sotto il duplice profilo dell’esecuzione vocale e dell’interpretazione. Il cantante è, come scritto nella disamina cellettiana, un paradigma di correttezza del canto con esatta copertura del suono nella zona prescritta anche per voci di baritono estese e tenoreggianti (anzi tali proprio in grazia di questa fedeltà tecnica) ovvero fra il do ed il re, nessuna sgrammaticatura a fini espressivi, e quindi sotto il profilo interpretativo questo Rigoletto è il vindice padre, il padre affettuoso ed amoroso nel contempo. Gli esempi sono innumerevoli dallo squillo degli acuti di tradizione a partire dal la bem del duetto o al sol acuto della chiusa di “pari siamo” alla messa di voce prima del duo della vendetta alla perorazione “miei signori” dove la tessitura acuta e l’obbligo di legare rendono una “via dolorosa” l’esecuzione a molti baritoni. Quasi tutti quelli dell’ultimo cinquantennio. Spiace solo che a differenza di Ruffo e Danise, Galeffi non abbia lasciato testimonianza dei duetti con Gilda, soprattutto il primo dove la tessitura acutissima e la situazione drammatica avrebbero offerto a Galeffi ulteriore occasione per esemplificare il solo modo in cui cantare il buffone verdiano.
StracciariDurante il monopolio Galeffi si verificarono due sole “supplenze” ad opera di due altrettanto grandi baritoni, uno dei quali Rigoletto di levatura pari a quella del baritono veneziano. Si tratta di Riccardo Stracciari, che titolare di Barbiere, nel 1923 riprese in alcune recite Galeffi e Benvenuto Franci nel 1933. Stracciari nel 1923 non era forse più al massimo della forma (aveva debuttato nel 1899), ma era, ancor più di Galeffi, un cantante di stampo ottocentesco per quel misto di ampollosità, nobiltà e controllo del suono, che costituiscono gli imprescindibili ingredienti della realizzazione di qualsiasi personaggio verdiano. Stracciari ormai alla fine della carriera incise l’integrale di Rigoletto. Con riferimento a “quel che passa il convento oggi” è interessante confrontare cosa ottant’anni or sono ed oggi si intendesse rispetto ad oggi per cantante a fine carriera. Ma l’attacco di “deh non parlare al misero” del trentenne Stracciari dolcissimo, morbidissimo con la voce che galleggia sul fiato e che canta l’amore paterno, pur inciso con metodi assolutamente primitiva, fa parte (e se non lo fa deve farlo) della storia della esecuzione ed interpretazione melodrammatica.

Titta Ruffo:

Pari siamo:
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Deh, non parlare al misero (con Giuseppina Finzi Magrini):
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Veglia, o donna (con Maria Galvany):
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Cortigiani:
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Piangi, fanciulla (con M. Galvany):
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Sì, vendetta (con M. Galvany):
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Finale (con Graciela Pareto):
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Carlo Galeffi:

Quel vecchio maledivami (con Ernesto Dominici):
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Pari siamo:
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Cortigiani:
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Sì, vendetta (con Maria Gentile):
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Bella figlia dell’amore (con Maria Gentile, Ebe Stignani, Alessandro Granda):
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Riccardo Stracciari:

Pari siamo:
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Deh non parlare al misero:
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Cortigiani:
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Tutte le feste al tempo… Piangi, fanciulla… Sì, vendetta (con Maria Barrientos):
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Tutte le feste al tempo… Piangi, fanciulla… Sì, vendetta (con Mercedes Capsir):
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