Pierre Boulez

boulezCon immensa tristezza apprendo della scomparsa di Pierre Boulez. Certo a 90 anni di età la notizia non può dirsi inaspettata, tuttavia non di meno lascia un vuoto difficilmente colmabile nel cuore di chi ama la musica. Con la morte di Boulez (e di Henze prima di lui) non solo perdiamo uno dei più importanti ed influenti musicisti del ‘900, ma anche percepiamo la fine di un ciclo, di un’epoca e di una civiltà. Perdiamo l’idea di musica come esperienza totalizzante, come concezione e come linguaggio in equilibrio tra rigore tecnico e libera ispirazione. Perdiamo l’idea di musica come rivoluzione, di strumento per cambiare il mondo. Perdiamo, anche, l’ultimo contatto con le grandi battaglie culturali del XX secolo. Boulez è stato tutto questo e anche di più: ha vissuto in prima prsona lo scardinamento del linguaggio tradizionale e ha combattuto in prima linea la sclerotizzazione (o il rischio di sclerotizzazione) dei nuovi linguaggi postweberniani, vivendone l’entusiasmo e la delusione, le speranze e i fallimenti. Attraversò l’ultimo secolo con la chiarezza e il rigore di una coerenza pronta a rimettersi in discussione, imparando dalle proprie esperienze senza cedere alle lusinghe e alla comodità di posizioni privilegiate. Boulez fu il protagonista dell’evoluzione del serialismo schoenberghiano (esteso anche agli elementi ritmici e alla durata delle note) denunciando, al contempo, il rischio d una deriva integralista. Le sue composizioni riflettono questo dissidio interiore, questa eterna ricerca di conciliare tecnica e ispirazione, scienza e arte. In Boulez (come in Henze) rivive il mestiere del compositore: anche nella continua revisione delle proprie opere. E così accanto al rigore formale e alla limpida razionalità del suo linguaggio musicale, convive la morbidezza e la delicatezza che trova le radici nell’opera di Debussy o di Ravel, come uno sguardo disincantato, malinconico e ironico alla caducità del tutto. Ma Boulez non fu solo un grande compositore, ma anche un grande, grandissimo direttore: l’ultimo grande direttore in senso novecentesco. E anche nell’arte di dirigere ritroviamo la stessa chiarezza e razionalità, la stessa coerenza del compositore, la stessa discrezione e la stessa morbidezza. In un percorso parallelo e opposto a quello di Bernstein (forse l’esempio più lontano da lui), direttore e compositore si fondono così che ogni interpretazione diviene una nuova creazione, un profondo ripensamento di un brano o di un intero repertorio, senza azzardi e senza forzature, poiché ogni scelta era sorretta da un’idea iscritta in un sistema di pensiero. Lo stesso repertorio affrontato è emblematico di una chiara visione musicale: e non solo nel ‘900 a lui più congeniale (Berg, Schoenberg, Webern, Messiaen, Stravinskij), ma soprattutto nell’indagine delle radici di quella grande rivoluzione musicale. Boulez ha gettato un nuovo sguardo su Debussy e Ravel ripulendoli da quella melassa con cui la tradizione li aveva “impiastricciati”, su Mahler asciugato dall’ipertrofia tardo romantica e gettato nel ‘900 con le sue asprezze e le sue violenze, su Wagner finalmente smitizzato e riportato ad una dimensione umana. Boulez ha segnato il punto di svolta nella comprensione di certi compositori e ne ha rivoluzionato la conoscenza in tappe fondamentali dalle quali non si può prescindere. Tra le più importanti non si può non citare la rivoluzione wagneriana proprio in quella Bayreuth che ne aveva sclerotizzato il mito, cominciando proprio dall’opera culto per eccellenza: Parsifal. L’ultima opera di Wagner era diventata, ormai, una sorta di goffo oratorio metafisico soffocato dalla lentezza estenuante di masse sonore pesanti come macigni in un’atmosfera mistica e caricata. Boulez scardina il mito e lo desacralizza ripulendolo dalle sovrastrutture religiose per riportarlo ad una dimensione più umana, più laica, più terrena, così da ritrovare nel puro folle l’inquietudine e il dubbio dell’uomo moderno di fronte al dramma della vita e della morte. E il Parsifal fu solo il preludio al Ring (dieci anni più tardi) che cambiò per sempre l’idea del mito nibelungico, grazie anche alla collaborazione geniale con Patrice Chereau. Tanto altro si potrebbe scrivere del suo Wagner, del suo Mahler, di un Berlioz allucinato, della sua Lulu completa per la prima volta, ma le parole non bastano e corrono il rischio di essere troppe. Lascio dunque spazio agli ascolti. Adieu Pierre…

Gli ascolti:

Debussy: “La mer”

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Ravel: “Daphnis et Chloé”

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Stravinskij: “Ebony Concerto”

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Berlioz: “Les nuits d’été”

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Wagner: Gotterdammerung – Trauermarsch

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Wagner: Tristan und Isolde – Vorspiel

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Mahler: Sinfonia n. 10 – Adagio

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42 pensieri su “Pierre Boulez

    • Riflettevo questa estate passando in zona sacra collina che a boulez appartiene la concertazione del parsifal piu’ antitetica a quella di kna (anche se il parsifal piu’ lungo e’ quello di ‘Toscanini) e che da allora nessuno ha detto qualche cosa di nuovo affrontando l’ultimo titolo wagneriano e sono trascorsi quasi cinquant’anni

    • E’ vero: Boulez dirige il Parsifal più antitetico a quello di Kna (e non tanto per la lentezza – credo che più di Kna e Toscanini, il più lungo resti quello di Goodall – ma per la concezione). E davvero dopo Boulez nessuno ha detto cose nuove sull’estremo capolavoro wagneriano.

  1. Anche grazie a Boulez la musica colta contemporanea , nella società , ha peso nullo. L’incapacità ( o deliberata non volontà ) di creare suoni in grado di trovare un posto nell’immaginario collettivo ha favorito la colonizzazione della musica di consumo, che è proceduta senza ostacoli, inesorabile e perfettamente funzionale alla colonizzazione delle menti. Boulez ha tra l’altro sostenuto che, fosse dipeso da lui, avrebbe demolito tutti i teatri d’opera. (So che siete in parte d’accordo, ma credo per motivi differenti: a voi il melodramma piace, a lui faceva schifo ). Scusatemi ma non riesco a provare reverenza e ammirazione. Ritengo anzi che Boulez scomparso potrebbe essere l’occasione per fare il punto onde cominciare finalmente a voltare pagina.

  2. Premesso che mi pare di cattivo gusto, Gianmario, parlare ora in questo modo di Boulez (stile Isotta che in occasione della scomparsa di Pavarotti o della Schwarzkopf, non ebbe niente di meglio da dire che sputtanare i defunti a “cadavere ancora caldo”), mi pare per nulla condivisibile quanto scrivi. E, forse, non ti sei soffermato a sufficienza sul Boulez teorico e musicista. Innanzitutto non si può inchiodare ad una frase un’intera vita musicale: è vero, auspicò una “rivoluzione” nel mondo della musica teatrale, denunciando – e non a torto – una sclerotizzazione di quel mondo. Ovviamente la frase sulla bomba sotto tutti i teatri d’opera era una provocazione. Ma erano gli anni ’60 e se si dovessero elencare le prese di posizioni e le dichiarazioni di quegli anni, nessuno rimarrebbe indenne. Peraltro quelle stesse provocazioni sono state smentite dal Boulez direttore. L’idea di rigidità dogmatica è l’esatto contrario di quel che fu davvero Boulez: basterebbe conoscere l’evoluzione della sua scrittura e la curiosità intellettuale con cui si è aperto ad un vasto repertorio senza preconcetti e linee di condotta (a meno di “imputargli” con saccenza assurda di non aver mai diretto Lucia di Lammermoor…come se fosse un dovere dirigere per forza il melodramma!). Inutile anche chiedere alla musica colta di essere qualcosa che non è e non potrà mai diventare, ossia musica di consumo e “orecchiabile”… Quegli spazi sono stati occupati da altri generi musicali e la musica colta non può e non deve mettersi a rimorchio, magari rimasticando sino allo sfinimento Strauss e Puccini (come nella moderna opera americana spesso indistinguibile dalle colonne sonore cinematografiche, o nelle improbabili scorribande neomelodiche di certi “compositori” italici). La musica colta ha e deve avere un linguaggio diverso perché dopo Schoenberg non si può tornare indietro. Ma neppure ci si può fermare a lui (Boulez lo scrisse, provocatoriamente, “Schoenberg est mort”, nel senso che non si può trasformare il serialismo in una nuova tradizione dogmatica, da qui il tentativo di superamento). Boulez, come Henze, Messiaen o Zimmermann sperimentano, cercano, sorretti da una curiosità non dottrinaria. E’ profondamente ingiusto attribuire a Boulez chiusure che non gli appartengono (non si può accusare di rigidità un musicista che spazia da Bach a Frank Zappa). Poi certamente ciascuno ha i suoi gusti e non è obbligatorio amare la musica contemporanea (come non lo è amare Massenet o Rossini o Bach): e quindi ha poco senso che chi non la ama pretenda che suoni come piace a lui… E poi che pagina si dovrebbe voltare Gianmario? Boulez è un compositore che appartiene al XX secolo: ne è parte significativa, ma non lo esaurisce né lo colonizza. C’è Henze (scomparso di recente anche lui), il grandissimo Reimann, Rihm, Adés…e molti altri. Bisogna voltare la pagina su tutti loro? E per cosa? Per riprodurre melodie pucciniane o scopiazzare le colonne sonore di Morricone?

    • Totalmente d’accordo con Duprez (e l’evento è più unico che raro :) ) . Del resto, anche Berlioz scrisse a suo tempo che si sarebbe dovuta piazzare una bomba al Teatro degli Italiani con tutta la sua popolazione di rossinisti (ok, qui più che di conservazione vs. innovazione musicale, era forse solo questione di sciovinismo).

  3. Che la musica colta composta da autori viventi sia ascoltata da nessuno o quasi è un fatto ( la scomparsa di Boulez è stata per me l’occasione per fare un’osservazione su di un tema più generale ). Tra l’altro – credo di non sbagliarmi – CO2 di Battistelli , prima assoluta 2015 della Scala, non è stata nemmeno recensita dalla Grisi, nessuno ha trovato interessante parlarne o chiederne notizia tranne il sottoscritto : conferma di una situazione di indifferenza che trovo drammatica. Da anni non smetto di pormi il problema di come mai la letteratura, il cinema, l’arte prodotta da autori viventi abbiano un pubblico e la musica colta (contemporanea) no. Lo ritengo un problema rilevantissimo e cerco di darmi risposte. Una delle ragioni è per me la sopravvivenza – nella cultura musicale – di quel determinismo storicista che altrove ha fatto il proprio tempo ed è ben rappresentato dalla frase: “dopo Schoenberg non si può tornare indietro”. Sono certo che il bello dell’arte è che si possa fare tutto, ma proprio tutto: andare avanti, dietro, di fianco, sopra, sotto, ovunque si voglia. ( Stravinski lo ha del resto dimostrato ad abundantiam ). A pochissimi, in letteratura, è venuto in mente di dire : dopo Ulisse e il Finnegans Wake non si può tornare indietro. Il che avrebbe avuto la conseguenza di trovarsi per la stragrande maggioranza con romanzi in finneganiano e indirizzati per il futuro unicamente sulla strada dei testi ad alto tasso di sperimentazione (con emarginazione e condanna filosofica, ideologica, politica e morale di quelli scritti in modo legato alla tradizione, come succede in musica). Berio è arrivato a scrivere che considerare Puccini un precursore del Novecento comporterebbe di avere “qualcosa di losco nell’inconscio” ( egli evidentemente ignorava che l’inconscio è un universo premorale, e dunque nulla vi può essere di “losco” ). In letteratura si scrive ancora oggi in mille modi ( e la maggior parte di essi presenta fortissimi legami con la tradizione settecentesca e ottocentesca: quasi nessuno se ne scandalizza né lo trova strano ) e lo stesso Borges fece l’elogio di quei generi letterari che hanno consentito – per necessità interne – di mantenere l’impianto narrativo tradizionale. Bergman o Fellini riuscirono a creare film campioni di incassi cioè a coinvolgere milioni di persone ( a nessuno dei due sfuggiva che l’arte deve avere anche un carattere istrionico, coinvolgente ). Un tempo si credeva ancora che alla fin fine quanto non compreso nell’immediato lo sarebbe stato dopo qualche anno: non sta succedendo. Va bene così? Io, che trovo nessuna soddisfazione nel sentirmi appartenente all’élite di coloro che capiscono, penso che vada malissimo e che procedendo di questa lena si rischia di arrivare all’esaurimento definitivo di una vicenda, quella della musica d’arte occidentale, ormai priva di radicamento nel mondo reale. Può darsi che mi sbagli, ne sarei felice.

    • rendo omaggio al direttore d’orchestra quanto al compositore ed alle sue idee sono ignorante per pronunciarmi, ma il ragionamento proposto dal defunto verso i teatri italiani lo “volterei” contro i compositori moderni. Meglio il maestro Barzizza o Lucio Battisti!

    • Ma il defunto non ce l’aveva contro i teatri italiani, ma contro l’idea tradizionale di teatro: e lo diceva nel ’68! Poi nei teatri tradizionali ci è sempre andato con rispetto e, soprattutto, dedizione verso la grande musica che interpretava, lì, in modo ineguagliato. Con molto più rispetto, direi, di molti che invece si definiscono suoi pubblici difensori ed esegeti. Poi è chiaro che la cantabilità e la melodia oggi va ricercata in un altro genere musicale perché – e credo siam tutti d’accordo – non ha senso imitare oggi lo stile di Rossini o di Handel…per cosa? Ci sono già gli originali!

  4. Cito quanto scrive Luca Ciammarughi, pianista e critico musicale, sul suo profilo FB.

    “Credo che sia passato il tempo dell’ asilo, in cui ciò che non ci piace è automaticamente cacca. La musica di Boulez ha avuto e ha molti estimatori. Certo, meno di quella di Mozart. Ma forse oggi Mozart ha meno estimatori di Rihanna. Sembra un discorso assurdo? Non so. Gran parte del mondo (basterebbe guardare le visualizzazioni su youtube) non prende minimamente in considerazione quella che chiamiamo, a torto o a ragione, “musica classica”: la vede spesso come un unico ammasso soporifero. Se Boulez, dunque, rappresenta la minoranza della minoranza, è anche vero che Schubert o Debussy non rappresentano molto di più per le orecchie degli abitanti attuali di questo pianeta. Prima di fare guerricciole del tipo “orto contro orto”, meglio contare fino a dieci.”

  5. Non è determinismo storicista, Gianmario. L’arte è libera, certo, ma contro la storia e contro il tempo che passa non si può far nulla. Il tempo è un fatto. Un dato senza connotazioni di valore e così sarebbe artificioso o ridicolo uno scrittore d’oggi che utlilizzasse l’italiano del ‘300, o un pittore che dipingesse le madonne come Raffaello, allo stesso modo lo è un musicista che scrive imitando Puccini: sarebbe un falso storico, perché il linguaggio va avanti, inesorabilmente. L’esempio di Finnegan’s Wake è mal posto (quell’opera, anche nella scrittura di Joyce, resta un esperimento senza seguito): il serialismo, nonostante le mille sue varianti, resta il linguaggio comune della musica colta di oggi, o comunque ne è una componente imprescindibile. Certo si può far finta di nulla, si può scrivere come Vivaldi (mi risulta che il Maestro Sardelli – che ammiro molto come direttore – ha recentemente pubblicvato un cd di sue musiche sacre nello stile del Prete Rosso), si può fare come Battistelli (appunto) che confeziona una colonna sonora ammiccando a Puccini, Strauss e Morricone (con qualche dissonanza per farsi vedere “moderno”), ma che senso avrebbe? Henze, Reimann, Rihm, Messiaen, Boulez…vengono regolarmente compresi nei programmi di tutto il mondo. Certo non è così per Tutino o per Battistelli. Questo dimostra che la storia non è una variabile disponibile, ma un dato di fatto indiscutibile. Nessuno è mai riuscito a tornare indietro: neppure il Congresso di Vienna o il Concilio di Trento.

  6. Duprez, che la storia non sia una variabile disponibile dovresti spiegarlo agli amici grisini che ogni giorno ci decantano la necessità di un sano ritorno ai bei tempi che furono, che è un po’ la ragion d’essere di questo blog. Sbaglio o è qui che ho sentito spesso usare con orgoglio il termine “passatista”? Si parla d’interpretazione, certo, ma anche lì – per usare parole tue – nessuno è mai riuscito a tornare indietro ( o ci sono ambiti dove si può mettere tra parentesi tale convinzione? ). Rimane un dato di fatto: la tragedia dell’ascolto che caratterizza la musica contemporanea non trova corrispondenza in altre arti. A qualcuno tale dato di fatto può risultare indifferente, a me no. Ed è sbagliatissimo – hai certamente ragione – pensare che il problema si possa risolvere rifacendo banalmente il passato. Si tratta di porsi il problema di costruire un linguaggio contemporaneo che abbia la capacità di comunicare e coinvolgere, di lasciare una traccia anche al di fuori dell’accademia. Da Monteverdi a Verdi, Wagner, Puccini, Strauss fino a Menotti questo è successo. A Mozart 2006 , dal momento che per mia fortuna ho la possibilità e il tempo di girare nei teatri di ogni dove (per seguire soprattutto titoli del ‘900) , vorrei rimetter l’accusa di provincialismo. In Inghilterra Germania e Francia ( e non solo ) le sorti della musica contemporanea non sono così rosee: i più se ne infischiano bellamente come da noi. Del resto ormai anche in Italia l’esecuzione di musiche contemporanee viene suggellata dagli immancabili applausi finali, un rito ormai inevitabile e che – a mio parere – è alla fin fine sintomo d’indifferenza. E non mi sembra che all’estero si sia creato un repertorio di titoli contemporanei molto differente rispetto che dalle nostre parti.

    • Gianmario, la storia non torna indietro. Mai. Diverso è il discorso di pretendere, legittimamente, esecuzioni corrette. Quanto al tuo assunto credo sia errato il fondamento: non si può ricercare nella musica contemporanea la stessa funzione svolta da altri generi. Anche Wagner si pose contro la musica di consumo (e per l’ascoltatore dell’800 credo che il Tristan facesse lo stesso effetto di Nono oggi). Poi parliamo di fruizione: alla Carnegie Hall l’anno scorso un brano non certo facile di Magnus Lindberg ha riscosso applausi entusiastici da parte del pubblico americano (non certo progressista). Suonava la LPO con Jurowski e l’esecuzione fu splendida. Forse il problema è lì: ripartire dall’esecuzione .

  7. Buona sera a tutti.
    Per prima cosa, vorrei ringraziare Duprez per il suo articolo; avrei solo avuto piacere che fra i bellissimi ascolti proposti ve ne fosse anche uno della musica di Boulez. D’altra parte posso capire la scelta di privilegiarne, in questa sede, la personalissima, profonda, sorprendente, a volte sconcertante e sempre stimolante arte direttoriale.
    Poi vorrei fare alcune considerazioni fatalmente sparse sul compositore.
    Intanto ritengo, ma non solo io, che collocare alcuni compositori nell’ambito del serialismo non sia corretto. Primo fra tutti Olivier Messiaen – da me amatissimo – il cui utilizzo dei “modi a permutazione limitata” egli stesso ribadiva sempre non aver nulla a che fare con il serialismo di derivazione schoenberghiana. Più in generale, penso che se la scuola di Vienna e le sue discendenze hanno costituito il movimento più influnente – a volte mi viene da pensare: ingombrante – della musica novecentesca, non si possono passare sotto silenzio personalità come Schnitke, Lutowlaski, Ginastera, Britten, Carter, Ligeti, che, io almeno, esiterei a mettere sotto lo stesso cappello.
    Ultima cosiderazione: il primo commento di Gianmario mi ha spiazzata e ho pensato che fosse una boutade un po’ superficiale. Poi sono seguiti gli altri suoi commenti e allora, intanto mi scuso per il giudizio affrettato; quindi mi associo a una certa preoccupazione che mi sembra sia sottesa ai suoi interventi. Non penso, come lui, che il problema della musica contemporanea sia insito nel linguaggio; d’altra parte, non penso come Duprez che non si possa cercare la melodia nella musica del ventesimo e ventunesimo secolo: la musica di Messiaen è traboccante di melodia, è straordinariamente immediata nonostante o forse proprio in virtù della sua elevatissima qualità compositiva; la musica di Lutowlaski è una scarica di energia irrefrenabile; e, solo per citare un altro a mio avviso granissimo compositore /direttore, le composizioni di Salonen sono di altissima qualità, perfettamente inserite in quella linea alternativa a Vienna che è quella Debussy – Messiaen, godibilissime e, sicuramente, niente affatto “piacione”.
    D’altra parte condivido, se non ho frainteso, la preoccupazione di Gianmario riguardo a una sostanziale indifferenza alla musica classica contemporanea; e, se possibile, sono ancora più apocalittica: nel XX secolo convivono almeno due generazioni che sanno poco o nulla della pittura, dell’architettura, della poesia, del teatro, della danza, della musica contemporanea. E siamo già pronti per la terza.
    Cosa ancora più tragica: questo non è solo un problema del pubblico. Nella sua bellissima prolusione introduttiva al suo ciclo di lezioni al Collège de France, il mai troppo lodato Pierre Laurent Aimard definisce senza mezzi termini inacettabile che un pianista diplomato in un conservatorio francese (ovviamente parla della realtà che meglio conosce) ignori sostanzialmente cento anni di musica. Il che non vuol dire che tutti devono eseguire Eliot Carter o Boulez; vuol dire che le scelte di repertorio andrebbero fatte quando il repertorio lo si conosce; vuol dire che se, forse, il pubblico ha il diritto di ignorare, l’addetto ai lavori questo diritto non ce l’ha. Poi, giustamente, non si può pretendere che un musicista suoni o diriga tutto; ma è anche triste pensare, come ricorda Michele Campanella, che grandi direttori conoscano di Liszt la Sonata in Si minore e forse un paio di poemi sinfonici. E parliamo di Liszt, non di Xenakis.
    Ricordo un concerto alla Scala nel corso del quale “Paganiniana” di Casella (Casella! non Boulez) fu inserita fra il quarto concerto per pianoforte di Beethoven (magnificamente suonato da un sempre incantevole Blechaz, che poi regalò come bis tre mazurke di Chopin suonate come solo lui di questi tempi sa fare) e un altro brano che ora non ricordo ma in ogni caso di larghissima esecuzione.
    E allora, un po’ capisco le preoccupazioni di Gianmario: insomma, se per far passare Casella, Casella, dobbiamo obbligatoriamente accostarlo a Beethoven sennò magari il pubblico si spazientisce … beh, la situazione è triste e preoccupante.

    • La situazione è triste e preoccupante quando in Italia (dove pare il tempo scorra più lentamente che altrove), alla Scala il pubblico – mia esperienza personale – ritiene essere snobismo esterofilo o pegno pagato a certo intellettualismo, allestire Rosrnkavalier! Oggi il pubblico è sempre più becero e ignorante (se penso alle stagioni RAI anni ’60 c’è da vergognarsi: viviamo una decadenza culturale mai vista!). Poi non voglio certo ricondurre Ligeti, Messiaen, Britten etc…al serialismo. Ma con esso si sono confrontati. Pure Bernstein l’ha fatto. Non facciamo i soliti italiani.

      • D’accordo sul fatto che ritenere atto di snobismo e esterofilia la messa in scena delle opere di Strauss o Debussy o altri coevi sia desolante.
        Poi, mi sono limitata a dire che, seppure sia dubbio la corrente compositiva dominante nel secolo ventesimo, la serialità non è l’unica e per analogia ma soprattutto per contrasto se ne sono sviluppate altre. Senza polemica.
        Personalmente non so proprio cosa facciano “i soliti italiani”.

  8. Io inviterei a dare un’ occhiata ai programmi delle stagioni sinfoniche tedesche. Scoprirete che autori come Messiaen, Lutoslawski, Schnittke, Ligeti, Penderecki, Henze, Rihm e Detlev Glanert sono parte integrante nelle programmazioni. Il pubblico viene ad ascoltare questa musica e spesso la apprezza.

    • Vero: l’Italia non può essere presa a paragone! Da noi pure Strauss e Berg sono visti con sospetto. Ricordo poi chi si scagliò contro l’apertura scaligera con Fidelio (e si merita quella merda di Giovanna d’Arco).

    • Caro Mozart, il fatto che in altre sale da concerto la musica contemporanea sia eseguita con regolarità e felicemente accolta dal pubblico mi rende solo felice (e magari un po’ invidiosa di non poter beneficiare della stessa programmazione :-)

  9. Mi sembra interessante notare come gli autori indicati da mozart2006 siano tutti piuttosto lontani dalle esperienze della serialità , poco radicali, parecchio ecclettici e piuttosto accessibili ( la via giusta, a mio parere ). Il più giovane poi, Glanert, dichiara quali suoi punti di riferimento ( leggo dal web ) Ravel e Mahler, roba di un secolo fa. Egli è un operista ma – da un controllo appena fatto – nessuna sua opera è in programma quest’anno in Germania, Francia, Usa. Da quel poco che conosco mi sembra molto interessante e un suo titolo varrebbe il viaggio. Parlo per quel che meglio conosco, cioè il teatro d’opera: non mi sembra che i cartelloni dei principali teatri di tutto il mondo, a partire dal Met, al Covent Garden, a Berlino, Parigi, Barcellona etc. si discosti dai nostri per quanto riguarda la proposta di titoli contemporanei. Basti consultare Operabase. In Germania non faranno Glanert ma Smareglia e “I Gioielli della Madonna” di Wolf-Ferrari ( “musica proibita”, questa si, questi in Italia ).

  10. Io credo che qui nessuno abbia messo il serialismo sul banco degli imputati , anche perché sarebbe processare un cadavere dal momento che un linguaggio morto da decenni. E’ una brutta storia quella di leggere tutto in termini di imputazioni, divieti, processi. Prospettiva in cui si inquadra perfettamente l’affermazione: non si può più scrivere musica così e colà… Ma esiste un’autorità superiore che stabilisce cosa si possa e non possa comporre? E se qualcuno trasgredisce? Interviene la Stasi, la Securitate, la Cia, l’Inquisizione o magari il giudice Guariniello? E poi diciamola tutta: anche volendo è impossibile comporre o scrivere oggi come un secolo o due fa. Ontologicamente impossibile. Il Cappello di Paglia di Firenze è opera – splendida – che adotta un linguaggio volutamente tradizionale, libretto compreso. Eppure si sente che è stata scritta nel ‘900. E funziona benissimo. Personalmente non la cambierei con l’intero barbosissimo ed enfatico ciclo stockhauseniano della luce. Ma ho gusti esteticamente scorretti, lo so bene.

    • Non c’è nessuno che stabilisce quel che si può o non si può fare, ovviamente…ma il tempo passa nonostante tutto. Piaccia o meno la dodecafonia è stato il linguaggio della modernità e resta un termine di paragone per chi oggi fa musica, così come Darmstadt, la seconda scuola di Vienna etc. Poi si può comporre mescolando Britten, Strauss e Puccini: magari è divertente, ma inutile. Sardelli scrive nello stile di Vivsldi e esegue pezzi suoi come bis nei concerti e il pubblico crede siano inediti vivaldiani: divertente? Forse. Ma a cosa serve? L’evoluzione è inarrestabile e portarne indietro le lancette è illusorio. Parli di Rota, ma Rota è un classico. Oggi scrivere come Rota sarebbe solo un deja vu

  11. L’ aspetto che per me è il più interessante nella musica del Novecento è proprio quello della varietá di mezzi stilistici e linguaggi. Nino Rota sotto questo profilo ha un suo legittimo ruolo come lo hanno Shostakovich, Lutoskawski, Xenakis, Aribert Reimann, Henze, Maderna e Wolfgang Rihm. Tornando al discorso di Boulez, io credo che uno dei suoi meriti principali sia stato proprio quello di essersi battuto contro il dogmatismo serialista in favore della sperimentazione di altri linguaggi

  12. Mi sembra piuttosto puerile disquisire di musica classica e/o sinfonica e contrapporla a quella lirica. In Italia per anni è stata la “lirica” prediletta sul “sinfonismo”, tanto è vero che a fine ‘800 si contavano ben 900 teatri. Diverso il discorso europeo ed extra, dove primeggiava il gusto “sinfonico”. Ora che si voglia privileggiare il secondo sul primo, è stato un errore (comprensibile) di direttori quali Abbado, in quanto allestire un opera vuol dire possedere capacità, non solo musicali, ma anche registiche.
    La rai negli anni anteguerra, quando si chiamava ancora Eiar, aveva fatto un grande progetto
    nel campo musicale: creare ben quattro sedi musicali
    Torino-Milano-Firenze-Roma, a cui si aggiunse poi Napoli (Teatro di Corte) per esplicare ad un pubblico vastissimo: l’intero mondo musicale fin allora conosciuto: Puccini, Giordano, Castelnuovo tedesco, Mulè,Bellini, Pick Mangiagalli, Pedrollo,Verdi,Malipiero,
    Stravinsky, De Falla,R. Bianchi, Massenet, Gomes,
    Delibes, P. Riccitelli, Wolf Ferrari, Lattuada, Montemezzi, Wagner, I. Pizzetti,Respighi, Boito, Strauss, Rossini, Mancinelli, Flotow, Leoncavallo, D. Monleone, Mozart, L.& F.Ricci, La Rosa Parodi,Suppè
    Zandonai,Smetana,F.Alfano,Donizetti.A.Seppilli,S.Allegra,M.Persico,L.Ferrari Trecate,F.Vittadini,L.Landi. etc.etc.
    Purtroppo l’esito della guerra, ha fatto cacciare dalla Rai
    con la scusa del collaborazionismo, molti dirigenti che avrebbero potuto proseguire in questo compito educativo e conoscitivo musicale, e virare verso musica leggera (tipo festival di Sanremo)
    e i risultati oggi possiamo goderceli tutti.

  13. Povero Rigoletto, come osi parlare di musica, quella delle folle ignoranti…. come un dì in Scala un tal Pollini ripropose
    le sofferte onde serene, come bis, dopo averle fatte appena ascoltare : risposta quasi corale del pubblico:
    nooooooo!
    Si, son zoticone e me ne vanto.
    perciò dico: divertitevi!

  14. Da ignorante dico la mia. La musica di boulez era come la corazzata potemkin….la capivano in pochi. Henze invece lo capisce chiunque e questo è un pregio. Quanto al boulez direttore, abbiamo perso un gigante. Sul podio era immenso. Forse il più grande che io abbia avuto l onore di ascoltare. Riposi in pace pure lui.

      • Sono d accordo. Io l ho sentito in una sola memorabile occasione nella messa glagolitica di janacek al festival di Saint Denis coll ensamble intercontemporain. E mi e’ bastato a saggiarne la stoffa. Quando nel precedente commento scrivevo”forse il più grande” pensavo proprio al sommo Claudio. Che dire del compositore? Per una volta concordo con Rigoletto: Le notations eseguite da pollini le ricordo come uno dei supplizi più grandi della mia carriera di ascoltatore. Saluti e buon anno.

        • Pli selon pli e Le marteau sans maitre sono lavori più complessi e vari (e – aggiungo – di grande comunicativa). E comunque c’è molta più vicinanza tra la Nachtmusik II nella VII di Mahler (ad esempio) e Boulez di quanto si possa credere.

      • Le variazioni per pianoforte opera 13 di Henze sono molto belle, per me, e non mi sembrano affatto un ascolto “difficile” come certo Boulez. Io credo che Boulez sia importantissimo da un punto di vista formale, basta guardare gli spartiti per coglierne la perfezione formale, appunto, che, però, non mi sembra abbia avuto molto riscontro in termini di “orecchiabilità” della musica. Naturalmente, resta ferma la premessa circa la mia ignoranza in materia.
        Però, secondo me non ha tutti i torti chi afferma che la musica di Boulez abbia creato una certa distanza col pubblico. Un po’ di snobismo era percepibile nel personaggio.
        Saluti.

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