Beethoven: Overture da “Egmont” op. 84
Orchestre National de France – Daniele Gatti (2014)
Staatskapelle Dresden – Georg Szell (1965)
Gli ascolti comparati cambiano, almeno per qualche settimana, il loro tema designato e spaziano al di fuori dei confini della musica vocale. Il criterio è quello di sempre: scegliere e comparare esecuzioni che possano essere, in qualche modo, alla pari. In questo caso, due esecuzioni dal vivo, affidate a rinomate orchestre e a non meno celebrati direttori.
Confrontando le due esecuzioni proposte di un brano ultra celebre come l’Overture dalle musiche di scena per “Egmont” si può cogliere, anche al primo ascolto, in che cosa consista la differenza tra una lettura, neppure troppo rifinita, e un’interpretazione degna di questo nome. L’orchestra francese sfoggia un suono di buona qualità (con la parziale eccezione degli archi alle battute 110-114 e di fagotti e corni alle battute 259-277), ma l’esecuzione si dipana, fin dagli accordi di apertura, in modo farraginoso, accostando in maniera monocorde i diversi episodi, incapaci di fondersi in un tutto coerente e coeso. L’effetto di scarso nerbo drammatico si nota, ad esempio, nella pesantezza e farraginosità dell’inciso esposto dagli archi (battute 2-5), cui risponde il lamento dei legni, più languido che patetico, mentre la chiusa affidata di nuovo agli archi rispetta in maniera solo approssimativa le forcelle previste dall’autore. Si confronti, nel medesimo passo, come Szell, adottando un tempo più solenne, riesca al tempo stesso ad esasperare il contrasto fra i materiali tematici, passando con violenza quasi insostenibile dal “piano” degli archi al “fortissimo” della battuta 9. Di nuovo, Gatti non trova per il canto degli archi (battute 14-21) la morbidezza, l’impalpabilità del suono e, al tempo stesso, la qualità del legato che sfoggia il collega ungherese, capace anche di passare dal 3/2 del “Sostenuto ma non troppo” iniziale al 3/4 dell’”Allegro” senza che si possa notare alcuna frattura del discorso musicale: la frase avviata dall’incipit prosegue, con la massima fluidità, pur nel cambiamento della misura e dell’indicazione di movimento. Ancora, alle battute 47-59, il crescendo vede l’italiano arrivare quasi subito dal “p” al “ff”, mentre Szell dispiega una progressione lenta e implacabile, che letteralmente esplode alle battute 59-62, senza che venga meno il controllo del suono e della coesione orchestrale. La sezione centrale del brano rafforza, nell’esecuzione francese, l’impressione di una lettura piatta e poco meditata, forse anche non sufficientemente rodata, come sembra indicare la scarsa levigatezza di alcuni passaggi (battute 217-224, con i faticosi incisi degli archi), laddove il concerto salisburghese evidenzia, accanto al perfetto controllo degli interventi solistici, un’elettricità che non risulta diminuita, semmai potenziata dal tempo ampio. Ancora, arrivati alla transizione al conclusivo “Allegro con brio”, si confronti la leggerezza e quasi l’imprevedibilità con cui Szell passa dal “ppp” dei fiati alla prima frase degli archi e poi al crescendo, che coinvolge progressivamente tutta l’orchestra fino all’esplosione dell’arpeggio di fa maggiore alla battuta 295, con la realizzazione di Gatti, non solo meno eroica, ma più povera di colori e di autentica energia. Nell’ungherese si ammira l’interprete beethoveniano di lungo e onorato corso, nell’italiano, al massimo, il tentativo di compitare una pagina, che risulta però infinitamente al di sopra delle possibilità, tecniche e di conseguenza espressive, del direttore (glielo fece notare, con vernacolare perfidia, persino il solitamente compassato pubblico bolognese, in occasione di una ormai remota “Leonore”).
Bellissimo post, ma a confronto di un mostro come Szell (uno dei quattro-cinque direttori indispensabili del secolo scorso, a mio avviso), sarebbero in pochi a non sfigurare. In questa pagina giusto Karajan, Bernstein e, fra i moderni, l’ottimo Zinman.