Attila a Bologna: prima stazione, secondo cast.

Mariotti_MG_4200Ci ha provato in tutti i modi il teatro Comunale: prezzi stracciati per studenti universitari, convenzioni “familiari” (adulti a metà prezzo, ragazzi gratis o poco più), last minute che, una volta tanto, arrivavano a rendere davvero più conveniente l’acquisto di un posto in palco rispetto al refugium peccatorum della balconata (quest’ultima con una lista di aspiranti più ridotta del solito, quasi che l’opera fosse Deidamia o Amica di Mascagni e si rappresentasse nella cosiddetta rotonda Gluck, anziché nella sala principale). Niente da fare: anche questa pomeridiana fuori abbonamento si è svolta con la platea lungi dall’essere piena, parecchi palchi chiusi o parcamente occupati e il loggione prevedibilmente deserto. Compito degli organizzatori teatrali sarebbe chiedersi non come rendere più appetibile il prodotto (oggettivamente, da un punto di vista squisitamente economico non si sarebbe potuto fare di più), bensì che cosa, nel prodotto, non sia risultato sufficientemente attraente per il pubblico, sia pure un pubblico ormai assuefatto a prodotti di ogni genere e qualità. Non crediamo che la spiegazione possa ridursi al fatto che la recita in questione prevedesse il cosiddetto secondo cast, atteso che le differenze di valore tra i cast collegati ai vari turni di abbonamento sono diventati, da regola ferrea, più che altro una casualità. Lo conferma, in particolare, Riccardo Zanellato, che se non ha la cavata dell’autentico basso verdiano né l’estensione in alto richiesta da una parte che richiama in molti punti quella di un baritono (il che ha messo in difficoltà il cantante, specie nel duetto con Ezio), è però sufficientemente solido da arrivare alla fine della recita senza accusare significativi cedimenti, riuscendo a delineare un protagonista credibile sotto il profilo vocale, scenicamente composto e nobile, più tiranno tormentato che non guerriero sanguinario (quel che si dice, insomma, far di necessità virtù). Era questa l’unica, benché intermittente, luce della distribuzione, ché le altre tre prime parti facevano pensare a un cast da Elisir d’amore, o al massimo da Don Pasquale in provincia. E non per le affinità che questa scrittura verdiana indubbiamente presenta con quella donizettiana, peraltro qui declinata in salsa comica o al massimo semiseria. Stefanna Kybalova avrebbe anche la voce (specie in una sala di ridotte dimensioni come quella bolognese), ma sale e soprattutto scende in maniera assolutamente aleatoria: alla sortita se la cava con i proverbiali quattro “sbrai”, al “fuggente nuvolo” emergono l’incapacità di legare e la tendenza, soprattutto nelle frasi che insistono fra il do centrale e i primi acuti, a stonare. Al successivo duetto con Foresto pare di assistere, complici anche bacchetta e tenore, a un duetto alternativo tra Adina e Nemorino. Inesistente ai finali d’atto (con l’eccezione di sporadiche urla), si distingue nel terzetto, che precede l’imboscata ad Attila, per una linea di canto sgangherata, che testimonia non già la disperazione dell’amazzone, ma le esauste forze dell’improvvida esecutrice. Suo degno partner Giuseppe Gipali, che dell’amoroso (ma, per l’appunto, da opera di mezzo carattere) ha più che altro il timbro, facendo per il resto pensare a qualcuno che canti tenendo un cuscino sulla faccia, a tal punto il suono risulta ovattato, privo di armonici, sostanzialmente non sfogato: compita con difficoltà la sortita (che dovrebbe, specie nella chiusa, essere trascinante, e che qui al massimo si trascina, con tanto di da capo), sembra accennare al duetto con Odabella e negli ensemble, mentre alla romanza emette suoni non certo piacevoli a udirsi. Pari ai sopraccitati, più sopportabile solo in virtù della relativa brevità della parte, l’Ezio di Gezim Myshketa, messo prevedibilmente alla frusta dalla tessitura quasi tenorile, soprattutto al recitativo che precede l’aria (“la patria leverà”, sol acuto), mentre il tentativo di “inchiostrare” la voce, per simulare una più consistente cavata e sfoggiare un accento eroico, produce solo una maggiore difficoltà nel manovrare lo strumento. verdi_ricordi_smallerQuanto alla direzione d’orchestra, sulla quale ci riserviamo di tornare una volta udita, in teatro, anche la prima compagnia, va osservato che, come in altri cimenti verdiani (Ballo in maschera e Nabucco su tutti), la lettura di Michele Mariotti sembra rifuggire dalle atmosfere più cupe e tese a favore di una “distensione” che dovrebbe favorire, almeno nelle intenzioni e nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, la natura sofferta dei personaggi, il loro dramma interiore (nell’opera in questione ovviamente i tormenti del protagonista, ma anche, si suppone, l’ambivalenza dei sentimenti di Odabella e il doppiogiochismo di Ezio), in una parola tutto quanto si allontana dall’immagine tradizionale del primo Verdi. Posto che una simile lettura (applicata ormai indiscriminatamente a tutta la produzione verdiana pre trilogia popolare) risulta tutt’altro che convincente, la stessa richiederebbe tuttavia, per risultare almeno percorribile, un’altra coerenza nella gestione dei diversi aspetti del dramma e, più ancora, ben diversa mano a governare solisti, orchestra e coro (quest’ultimo in grande, e ormai permanente, difficoltà quando chiamato a misurarsi con le partiture del cigno di Busseto). A fronte di un finale del primo atto che, tutto sommato, funziona e convince in questo suo approccio “minimalista”, abbiamo un finale del prologo (tempesta e sortita di Foresto) che si caratterizza soprattutto per la sciatteria che predomina nel golfo mistico e il coro che letteralmente urla alla celebrazione della futura gloria di Venezia, un finale secondo in cui la premonizione del coro di ondine e silfidi del Macbeth (affidato, anche qui, alle voci femminili) evoca più che altro un picnic dell’oratorio (mentre la successiva irruzione dell’elemento sovrannaturale non suscita alcun fremito in orchestra), più in generale andamento meccanico ai passi “barricaderi” (sortita di Odabella, aria di Ezio, duetto del generale romano con Attila), passo languido, più consono al genere larmoyant che non a una tragedia di sapore risorgimentale, ai cantabili degli amorosi e, in quello che dovrebbe essere il punto di massima tensione drammatica (il terzetto “Te sol quest’anima” e susseguente finale), il famigerato e deprecato “battere la solfa”, ovvero un mero accompagnamento, per giunta claudicante, del canto, senza che l’orchestra riesca a cantare con, e in certa misura per, i solisti. Se l’intento era quello di valorizzare il Verdi degli “anni di galera”, conferendogli magari una patente di apripista o almeno di precursore nei confronti di successivi sviluppi, siamo di fronte all’ennesima occasione mancata. Come risulta mancato, o per meglio dire mancante, lo spettacolo di Daniele Abbado, la solita sfilata di cappotti, divise a metà via tra nazismo e Stasi, massi antropomorfi, comparse seminude a evocare ora piazzale Loreto, ora figure devozionali, vele e siparietti un po’ ovunque (sono tanto comodi!), ma non un movimento, non uno sguardo capace di uscire dagli stereotipi, quelli che avrebbero dovuto finire in soffitta assieme alle tele dipinte e ai costumi evocanti il medioevo di Hayez e Podesti.

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26 pensieri su “Attila a Bologna: prima stazione, secondo cast.

  1. Ho sentito sabato sera in tv un pezzo dell’Attila felsineo (solo un pezzo, cioè dalla fine del prologo a quella del primo atto, di più non ho resistito). Anche a me, come ad Attila, l’alma in petto s’agghiacciava pel terrore.
    Non posso giudicare il baritono che non ho sentito, ma il soprano era terrificante, Sartori completamente cotto, inascoltabile, che non sapeva cosa voleva dire una anota ben appoggiata. Alla fine il più verdiano era ancora D’Arcangelo che del basso verdiano non ha proprio nulla, ma era quello che dei tre cantava un po’ meno male. Coro urlacchiante, regia banale.
    Per rifarmi a Rigoletto e Donzelli, vorrei notare come il buon Carroli, spesso inserito nella scuola del muggito (e in certi casi non proprio a torto), al confronto di quel che si sentiva a Bologna avrebbe fatto la figura del raffinato belcantista alla Battistini! E poi lui, almneo, una vera voce ce l’aveva!!
    Il giorno dopo mi sono un po’ rifatto a Torino con La piccola volpe astuta in un’edizione tutto sommato piacevole, con una piacevolissima messa in scena di Carsen una volta tanto abbastanza fedele al libretto, dei cantanti che mi parevano nel complesso decenti (conosco poco e niente l’opera e non ho termini di paragone), con alti e bassi (i migliori baritono e soprano), ma soprattutto ottimi interpreti, anche dal punto di vista scenico, delle rispettive parti. Niente di eccezionaole, ma tutto funzionva. Soprattutto un’ottima orchestra che eseguiva bene la difficile partitura di Janacek, ben diretta.
    Infatti alla fine vi sono stati tanti applausi, per una partitura poco eseguita (mai a Torino) e poco conosciuta da parte del pubblico che se non era quello delle opere più conosciute (in platea si vedevano posti vuoti), era abbastanza folto per un titolo raro. Forse, per rispondere alle domande retoriche di Tamburini, la ricetta per far venire la gente all’opera è sempre la stessa, vecchia, banale: buona orchestra, buon coro, buoni cantanti, buoni direttori, buoni responsbaili della messa in scena che facciano un buon lavoro complesivo. Ma quanto di ciò si riesce a trovare oggi?

    • Scusa Carlo se ti contraddico, ma Carroli era terrificante e basta. una vergogna da dimenticare per sempre.
      Brutto allestimento, trito e senza regia per giunta, e male Mariotti che ha reso il tutto una via crucis di monotonia, marcette, accompagnamenti pesanti….un gas!

      • Io volevo essere volutamente provocatore. Sono però sempre convinto che Carrolii era meglio di tante pseudovoci da cui oggi siamo afflitti perchè lui avrà avuto dei difetti ma almeno aveva la voce. Certi cani che ci tocca udire hanno solo difetti e non hanno manco la voce, manco una voce bruta, ma solo, al massimo, una voce brutta.

    • Ero anche io a Torino domenica pomeriggio e concordo sulla recensione: buona la direzione e cantanti (soprano su tutti), orchestra molto precisa e finalmente una regia che non violenta il testo: semplicissima, molto giocata sulle luci, senza masturbazioni intellettualistiche fuori luogo. Ci vuole tanto?

  2. Leggendo i primi commenti e le prime recensioni a questo Attila bolognese, insieme ai consueti parossismi elogiativi come se si fosse trattato della migliore delle esecuzioni possibili, mi ha molto colpito la definizione della lettura (ovviamente “mirabile”) di Mariotti come “intimista”, “ripulita da eccessi patriottardi”, “raffinata”, volta quindi a sottolineare le “finezze” della partitura e il suo carattere “anticipatore” dei grandi capolavori della maturità verdiana. Non è la prima volta che queste definizioni di virtù interpretativa (vere o presunte) vengono offerte a margine di ogni esecuzione verdiana: qualunque sia il titolo. La recente Giovanna d’Arco scaligera ne è esempio recentissimo: quante volte abbiamo letto elogi alla presunta innovatività del titolo, alla raffinatezza di molte soluzioni, alla dimensione “sinfonica” (addirittura!) dell’ouverture, sino all’apprezzamento della bacchetta che esalta la dimensione intima e notturna dell’opera, ripulita dallo spirito ruspante “di tradizione”? E quante volte abbiamo sentito – a margine di ogni esecuzione di Aida, da Roccacannuccia ai teatri maggiori – direttori e interpreti che spiegano la loro lettura “rivoluzionaria”, ripulita da ogni eccesso spettacolare e “liberata” dal suo trionfalismo per essere “finalmente” ricondotta alla “vera” sua natura ossia quella di opera intimista e quasi da camera? Noseda e Bignamini (solo per citare i più recenti) hanno più o meno ripetuto questa solfa… Ma, mi chiedo, possibile che ogni titolo – per essere apprezzato – debba anticipare qualcosa di più grande? Possibile che si debba sempre ricercare una giustificazione alla fisiologica rozzezza dovuta all’inesperienza di un autore che – come tutti – ha costruito negli anni la sua maturazione artistica? Possibile che si debba ancora guardare con sospetto all’effetto grandioso – che tale è voluto dall’autore – per inventarsi una pretesa riduzione o liricizzazione? Possibile che non si riesca ad avere l’umiltà, il coraggio o l’onestà di apprezzare Attila per quello che è e non per quello che si immagina dovrebbe essere? Possibile che si debba sempre eliminare da Aida il carattere spettacolare e grandioso che lo stesso soggetto suggerisce e non si riesca a vedere che il dramma dei singoli è inserito in una cornice storica e politica preminente? Possibile che non si possa parlare apertamente di debolezza musicale e drammatica di un’opera minima (neppure minore) come la Giovanna d’Arco: oggettivamente mal riuscita? Eppure Attila – che non è un capolavoro – vive della forza della sua rozzezza, della sua urgenza drammatica, degli accompagnamenti incalzanti e degli effetti “quarantotteschi”, delle cabalette e dell’enfasi melodrammatica…e pure – perché no? – di quella “vanga” che, secondo Rovani, tradiva le orgogliose origini contadine del “cigno di Bussetto” prima di divenire l’icona che “pianse e amò per tutti”. Se si toglie ad Attila il carattere ruspante e l’ingenuità del melodramma alla fantomatica ricerca di raffinatezze inesistenti o di tracce di Don Carlo e Falstaff, cosa resta? Quando ascolto Attila voglio immergermi in quell’800 da cartolina, nei personaggi tracciati con l’accetta, duri e sicuri come pietre: voglio sentire il ritmo delle cabalette, lo zum-pa-pa, l’emozione ingenua del “Santo di Patria” o del duetto Ezio/Attila che è un compendio perfetto della retorica ottocentesca e che – nel contesto dell’opera e negli anni in cui venne composta – “vale” più di qualsiasi immaginario riferimento al futuro. Così da apprezzare il bozzettismo della descrizione musicale dell’alba per quel che è, ossia il ricorso ad uno dei più scontati e banali topoi melodrammatici (l’uso di legni e flauti) e non chissà quale mirabolante espediente musicale. Ed è bello per questo (così come mi piace sentire la grandezza di Aida nelle grandi scene di massa come nei vecchi peplum hollywoodiani e non sorbirmi un’introspezione immaginaria come se si trattasse di un dramma di Strindberg). Che poi si parla di Attila non del Pelleas et Melisande… Trovo che sempre più spesso vi sia una fondamentale incapacità di apprezzare le cose per quel che sono, presi dall’ansia di trovare agganci a qualcosa di diverso e – presumibilmente – di più alto. Forse sarebbe bello fermarsi e apprezzare la semplicità e l’esattezza di ogni singolo passo di una lunga carriera, senza l’arroganza di voler leggere tutto guardando solo la fine.

    • Il punto è il continuo depauperamento di ciò che l’800 di Verdi fu in tutte quelle componenti che oggi giudichiamo retoriche, moraliste, borghesi etc etc… Premesso che la liricizzazione è un alibi farlocco che si usa per mascherare l’inadeguatezza degli esecutori alla varietà di ciò che si esegue e all’incapacità di distinguere e dar senso a tutte le componenti dell’opera verdiana (ma non solo di verdi), mi pare sia ormai passato un modo di guardare al passato fondato su pregiudizi e luoghi comuni. E’ un portato di certa cultura di sinistra anni ’70-’80 che nell’opera ci porta a criticare e a commentare certe componenti religiose, moraliste, quarantottesche etc etc che non incontrano la nostra mentalità odierna. il punto è che non sta all’interprete rimodulare il sistema di valori di un compositore, ma riconoscerli e renderli secondo il senso che essi avevano per la cultura del tempo in cui l’opera fu scritta. invece noi oggi passiamo il tempo ad adeguare al presente qualcosa che al nostro tempo non appartiene, snaturando lo o alterandolo. manipolazioni comode poi per i mediocri esecutori e per le operazioni commerciali che con la “cultura” fanno cassetta. peccato che la cultura sia comprensione delle specificità, anamnesi e valorizzazione dei contenuti, conoscenza dell’uomo di ieri, non alterazione, snaturamento, adeguamento o riscrittura. dunque non siamo più in un ambito culturale, e nemmeno in quello di quel sano “mestiere” di ieri che garantiva il rapporto col passato dal tramandarsi delle prassi esecutive. siamo nella deriva turistica più bieca, quella dei gadgets e dei souvenir, cui assisitiamo oggi, dove il turista vede immagini inflazionate di cui non capisce nulla, che non associa a nulla, perche dietro non c’è nulla per comprendere il valore di ciò cui assiste. Il povero Mariotti che parla di Attila come di un’opera di amore , di un Attila umano stringe il cuore perchè evidentemente non ha molti mezzi intellettuali per cogliere oltre la banalità della formula consumata e buona per ogni cosa ciò che dirige. Nè “il manico” dei Gardelli o dei Patanè senza tante filastrocche, come abbiamo ben udito.

      • Secondo me non è tanto il ricreare le condizioni di allora: è ovvio che il passato deve parlare alla modernità con un linguaggio diverso, perché nonostante gli sforzi non possiamo dimenticarci di ciò che è venuto dopo. Parlo invece di incapacità di osservare le cose per ciò che sono: l’ansia di trovare sottotesti anticipazioni riferimenti colti… Attila vale per la sua forza che è certamente più rozza di Falstaff ma ben può essere apprezzata per ciò che è. La cosiddetta liricizzazione è ormai una moda buona per tutto…a breve mi aspetto un Macbeth cameristico. Poi è roba vecchia saranno almeno 40 anni che parlano di Aida intimista come fosse la novità del secolo.

        • Direi persino di più. Aide liricizzate c’erano già negli anni ’50 (cfr. Karajan, per fare un solo nome, che pure negli stessi anni, se non prima, liricizzava pure Wagner), solo che allora c’erano anche vere voci, per cui la liricizzazione non era un alibi per anemici esangui fuscelli debolucci, a cui applicare in pratica, con qualche adattamento, i versi di Carducci:
          “Vero è, santa natura, che il mio [cantante]
          È un po’ delicatuzzo:
          Ma io lo tiro su, povero amore,
          A olio di merluzzo”.

          • Ma poi liricizzazione non significa miniaturizzazione. Il Ring di Karajan o il suo Trovatore o le sue Aide non sono mica opere da camera.
            Oggi si abusa del termine, così come si abusa dei termini “tradizione” o “filologia”. È solo moda e presunzione

        • Non ho mai parlato di ricreare la condizione del passato, cosa notoriamente impossibile oltre che illogica. Ho parlato di comprensione dei contenuti del passato da parte nostra, cioè di cultura storico musicale.

          • Su questo sono completamente d’accordo. Oggi invece vogliamo non capire, o meglio crediamo di capire quel che non c’è, vittime di presunti sensi di colpa per quello che certa musica non è. E quindi non si può dire che Attila non è un capolavoro e si inventano improbabili finezze o anticipazioni.

    • Parole sante, concordo pienamente, 110 e lode ( ometto per evitare equivoci il bacio accademico ). Per ammirare le opere giovanili di qualsiasi vero artista non è sensato cercarvi l’ anticipazione di quello che poi ha fatto nella maturità : pensiamo a Picasso… Piuttosto, Mariotti a cosa deve la sua irresistibile ascesa ?

  3. Bravo Duprez, giustissimo, condivido anche le virgole. Attila è una opera bella e di piacevolissimo ascolto perchè autentica, ispirata, concisa, drammaturgicamente stringata e che fa delle propria coerenza un punto di forza. Con tutta la retorica del “resti l’Italia a me”, con il “santo di Patria”, con la cantabilità danzante di “ella in poter del barbaro”, caballettistico e a ritmi puntati, senza intelletualismi che non ci sono. Il provincialismo della critica miope che cerca un darwiniano evoluzionismo nella musica fa sorridere; come se Verdi si dovesse far perdonare i cavalli in Aida, o la prolissità di “forza del destino”, come se aldilà del mero valore musicare si dovesse giudicare se è più “moderno” Gounod o Wagner, e via così…è proprio vero, oramai la memoria è appiattita in un eterno presente. Questo è Attila, niente di più e niente di meno e se si può, con le puntature e con tanto di Bis https://www.youtube.com/watch?v=ufDR3A5dsQE

  4. Non posso che sottoscrivere pure io al 100% quanto ha scritto Duprez. Ho trovato emozionante l’ascolto di Cappuccilli, un vero toccasana sopo ciò che ho dovuto sentire sabato sera da Bologna: una vera voce. Il brano era tratto dalle recite dirette da Sinopoli?

  5. Senza andare lontani con la memoria, basti ricordare l Attila di muti e pizzi a Roma di tre anni fa. Bell allestimento, bella direzione e un superbo abdrazakov nel role titre. Credo che Attila sia ancora un titolo per il quale si possa mettere insieme un cast ben al di sopra della mera sufficienza. Basta avere volontà, mezzi e gusto. Saluti.

    • Credo, e l’ascolto teatrale di ieri sera (primo cast) me ne ha fatto ulteriormente persuaso, che il vero “membro acido” sotto il profilo vocale sia la primadonna. Oggi come oggi non saprei a chi affidare ruoli come Odabella, ma anche Elvira dell’Ernani e Giselda. Le possibili alternative mi sembrano tutte, per vari motivi, sconfortanti.

      • Forse la netrebko. E come giselda credo pure la damrau. Nessuna delle due sarebbe perfetta, ma avrebbero da dire qualcosa. Purtroppo oggi non ci sono voci perfette e alcuni ruoli restano per così dire scoperti.

        • La Damrau mi sembra cantante seria e conscia dei propri limiti (… quasi sempre!), non penso che cederebbe alle lusinghe di parti del genere. La Netrebko mi pare già più plausibile, atteso che pare voglia debuttare come Norma. Credo comunque che griderebbero entrambe come delle disperate.

          • Figuriamoci, io la damrau la reputo una soubrette, con tutti quei sospiri e smorfiette insopportabili. Diverso il discorso netrebko che una artista maiuscola. Dico solo che soprattutto nel panorama musicale che ci ritroviamo entrambe potrebbero fare bene. Poi bisogna sempre giudicare in teatro. Le nostre congetture lasciano un po’ il tempo che trovano. Saluti.

          • Entrambe cigolerebbero maldestramente sul Fuggente nuvolo…..per verdi occorre il dominio del fiato che entrambe non hanno oltre a difettarw di ampiezza e fraseggio. a presto

      • In ogni caso, la Siri è scritturata come Norma allo Sferisterio di Macerata quest’estate… Come farà a cantare un ruolo così, per giunta in un teatro all’aperto? La ricordo in un’Aida alla Scala qualche anno fa (in sostituzione della Fantini) e la voce non era male in sé, ma era molto molto piccola.

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