Vorrei disporre della penna di Stephen King per raccontare e restituire ai lettori tutto l’orrore, profondo e misto a un imbarazzo altrettanto insostenibile, prodotto dal sedicente Recital pucciniano offerto (si fa per dire) venerdì 11 dicembre in quel di Forlì a opera del Ravenna Festival, alle prese negli stessi giorni con la sua Trilogia d’autunno, dedicata quest’anno al compositore toscano. La serata era stata annunciata come un autentico evento: protagonista la Diva dei nostri giorni, Anna Netrebko, al pianoforte Riccardo Muti, che tornava nella città romagnola vent’anni dopo avere accompagnato, nella medesima location, Luciano Pavarotti, oggi come allora in una serata di gala destinata a raccogliere fondi per beneficenza nel ricordo di don Dario Ciani, fondatore di una comunità destinata al recupero di soggetti interessati da disagi sociali. Con la lode alla generosità degli artisti, che si sono esibiti a titolo gratuito, terminano le note positive della serata. E inizia la cronaca di un evento che tale è stato solo sulla carta e sui manifesti giganti, tipo Circo Orfei, diffusi a Forlì e in tutta la Regione. Fin dall’apertura delle vendite era stata annunciata la presenza, accanto alla Diva, del tenore, nonché attuale principe consorte Yusif Eyvazov. Niente di strano: simili “zeppe” sono purtroppo abituali nell’ambiente, e la signora Netrebko non è certo estranea alla consuetudine, avendo già esibito il compagno in numerose occasioni concertistiche. A poche ore dal concerto è stato però formalizzato che il programma avrebbe previsto un secondo soprano, Eleonora Buratto. La circostanza, unita a un rapido controllo dell’agenda ambrosiana della Diva, ha indotto a supporre che la partecipazione della medesima al concerto non sarebbe stata, almeno sotto il profilo quantitativo, pari alle legittime aspettative. Scorrendo il programma di sala abbiamo avuto la conferma del ruolo assolutamente marginale destinato alla Netrebko: due romanze e un duetto, a fronte di tre romanze (e ovviamente un duetto) per Eyvazov (Tosca, Turandot e Bohème) e ben quattro romanze per la Buratto, cui erano destinati i brani più tesi e drammatici, da “Vissi d’arte” alle “Trine morbide”, al secondo monologo di Mimì fino alla morte di Liù. Alla Diva restavano, letteralmente, le briciole: Butterfly e finale primo di Bohème (romanza e duetto). Ricordiamo che, nel 1995, Pavarotti aveva eseguito, al netto dei bis, diciassette brani, spaziando dalle arie da camera a pagine d’opera di Gluck, Cilea e Massenet. Che la serata si annunciasse in tono minore è risultato poi evidente dall’introduzione discorsivo-didattico-(auto)celebrativa, affidata al giornalista televisivo Massimo Bernardini, al sindaco della città (con tanto di fascia tricolore) e ovviamente al maestro Muti, uomo notoriamente di poche parole e refrattario a trasformare il podio in un pulpito. Il tutto è durato, fra toccanti ricordi e fumanti incensi, un quarto d’ora abbondante, seguito da altri quindici minuti di proiezione su maxischermo di estratti del concerto del 1995, con tanto di dedica de “’A vucchella”, da parte di Pavarotti, alla signora Mazzavillani Muti, che commossa ringraziava. Il concerto vero e proprio, previsto in partenza alle ore 21, ha avuto di fatto inizio poco prima delle 22 ed è durato un’oretta scarsa, a fronte di prezzi al botteghino certamente “popolari”, se si pensa alla fama degli esecutori, ma non esattamente stracciati: 50 euro la platea, 25 la tribuna, 12 le gradinate, il tutto al netto dei diritti di prevendita. Non poco, per prendere posto (faticosamente, data la caotica gestione delle file per il ritiro dei biglietti e poi per l’accesso in sala) in un palazzetto dello sport e assistere a una performance microfonata, attesa l’acustica del luogo, ovviamente poco propensa alla musica dal vivo. Al netto di tutto questo, la serata è risultata quasi improvvisata e decisamente abborracciata anche sotto il profilo esecutivo: lo provano, ad esempio, le riprese di fiato, del tutto incongrue rispetto al testo poetico e alla frase musicale, della Netrebko nell’assolo di Cio-cio-san (un autentico concertatore avrebbe potuto e dovuto suggerire all’esecutrice una maggiore attenzione in questo senso) e lo “sbandamento” di soprano e tenore nell’unico brano in cui le voci erano chiamate a cantare assieme. Sul pianismo del maestro Muti meglio non soffermarsi, se non per osservare come uno studente di Conservatorio mediamente dotato avrebbe potuto sostituirlo più che degnamente. Alle prese con pagine che ben si adattano a una voce di autentico soprano lirico (ché la signora non è, a dispetto dei suoi aedi, un drammatico di agilità o asinerie consimili), la Netrebko è risultata più appropriata che in altre occasioni, confermandosi però esecutrice poco fantasiosa, impacciata nella dizione e impostata su un perenne “forte” che è nei fatti, al netto dell’ausilio della tecnologia, un “mezzoforte” (lo si percepiva soprattutto quando, nella romanza di Butterfly, si è allontanata dal microfono per eseguire l’acuto finale). Un poco più vivace l’esecuzione del primo assolo di Mimì, anche se una frase come “mi piaccion quelle cose” non possedeva, per limiti non già naturali ma squisitamente tecnici, lo slancio e la tenerezza che persino un’esecutrice notoriamente poco varia come Mirella Freni riusciva a infondervi. Tralasciamo il pencolante do acuto che chiude il finale primo di Bohème, peraltro assecondato da quello di Eyvazov, che con voce malferma, artificiosamente scurita in basso e belante in acuto, ha offerto uno spettacolo che si può solo desiderare di dimenticare alla svelta. Su Eleonora Buratto, già doviziosamente descritta nei pregi e soprattutto nei limiti da donna Giulia nella recensione della recentissima Carmen partenopea, non mi soffermo se non per osservare come l’autentico onere della serata sia toccato a lei, chiamata a gestire passaggi “scomodi” come “perché, perché Signore” della preghiera di Tosca o il “gaia, isolata, bianca” di Manon senza che la voce disponga di autentica solidità in zona medio-alta. Occorre forse aggiungere che la serata si è conclusa con un successo trionfale, e senza uno straccio di bis?
http://www.dailymotion.com/video/xxoebh12 pensieri su ““Pacco” natalizio alla romagnola.”
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Una cosa veramente stupenda, una vera bellezza, divertente, geniale.
Sto ovviamente parlando del video di Mai dire goal….
Sulla pagina Facebook di Madame si possono ammirare le foto di quello che, secondo quanto afferma la Diva o molto più probabilmente il management che le gestisce l’ account, sarebbe stato un evento da tramandarsi ai posteri.
La Signora è dieci volte più abile di Dulcamara come smerciatrice di materiale farlocco!
Le stonature e le sbavature musicali dell’una e l’idea di Tosca e Manon Lescaut interpretate dall’altra, per non parlare del contributo ‘tenorile’ della serata, regalano un senso di deprimente tristezza… Meno male che non si sono fatti venir in mente bis natalizi!
Ma dai dopo le farloccate dei tre tenori, stiamo ancora a cincischiare sui concertini, concertoni e lasciatemi dire,
concertazzi!
Se si vuole fare una serata breve, ci sono sempre le tre
opere di Puccini, ovviamente una per volta, sennò poi occorre una unità di rianimazione.
ciao
Da quanto ho sentito pacco ben peggiore è stata l’Epifania del divo Jonas all’inutile festival Puccini. Almeno Annona ha cantato qualcosa, quell’altro non ha neppure firmato gli autografi.
L’attuale principe consorte della diva è ad un livello indecente ed è vergognoso faccia quel che faccia solo per spinta della compagna. Ci dovrebbe essere un limite a tutto… Rimpiangerò Schrott.
Noto che la Buratto è onnipresente in questo periodo. Chissà in virtù di cosa. Temo ce la ritroveremo in tutte le salse more Agresta oggi, e prima Cedolins, Frittoli e co.
mi permetto di postarvi una voce baritonale cento volte piu’ interessante di quella rifilataci al sant’ambrogio scaligero. E’ forse meno raccomandata, ma con un ottimo direttore potrebbe regger bene.
https://www.youtube.com/watch?v=5gg3OFGrR7M&list=PLD652EF45C680D39E
mi sia permesso un appunto alla recensione di Tamburini che parla del ” secondo monologo di Mimì”; bene il monologo nel teatro è un’espressione del cantante(o attore) che parla a se stesso , che riflette a voce alta(vedi Filippo II° “ella giammai m’amò); altrimenti l’opera è fatta tutta di monologhi quando non si canta a due;
nelle recensioni e spesso nelle interviste a cantanti si sente spesso “debuttare un ruolo”,altro errore grave in quanto il verbo è intransitivo e quindi si debutta in un ruolo; grazie e auguri a tutti otello
vero e ti ringrazio per il primo con un ma ossia spesso più personaggi sono sulla scena e in realità siamo davanti ad un monologo ad esempio le imprecazioni di tosca contro il buon Dio nel “vissi d’arte”; il secondo è così sulla crusca, ma nella lingua corrente ormai lo si usa transitivamente ed alcuni vocabolari lo segnalano come verbo sia transitivo che intransitivo. Siccome non è un errore grave come il “vadi”, il “a me mi” il ” se vorrebbe” credo che la lezione possa essere accettata.
ciao domenico
Buonasera, una domanda per Otello. Non sarebbe più corretto parlare di soliloquio per Filippo II (che parla a se stesso ed è solo in scena)? Ho sempre creduto che ci fosse una differenza sostanziale tra monologo (espressione di un attore/cantante alla presenza di altri in scena) e soliloquio (riflessione personale dell’attore/cantante quando è solo sulla scena). Grazie.
soliloquio o monologo il concetto non cambia;anche chi non è solo in scena può parlare a se stesso e non dialogare(Tosca in “vissi d’arte” non parla a Scarpia) monologo è il contrario di dialogo:non parli ad altri ma rifletti con te stesso, che nell’opera si manifesta con il canto;altrimenti tutte le arie sono monologhi perchè il personaggio canta da solo non in duetto; un conto è l’assòlo un conto il monologo o soliloquio (encicl.Treccani).Monologo è”Dio mi potevi scagliar” ma non la”calunnia” in cui Basilio parla con Bartolo
Un saluto a tutti otello
Non ho partecipato all’evento ma non stento a credere che si sia trattato di episodio assolutamente trascurabile e non poco irritante, almeno sotto il profilo artistico. La Netrebko era del resto altrimenti impegnata alla Scala in un ruolo irto di difficoltà e nel quale, a mio parere, ha dato apprezzabile prova e colto un successo di serata in serata più caloroso. Apprendo non senza qualche perplessità che Muti sia un cattivo concertatore e la Freni un’esecutrice notoriamente poco varia ( se c’era dell’ironia non l’ho colta ). Quanto al pianismo di Muti non ho idea di come sia messo oggi, certo è che il suo maestro Vitale vedeva in lui doti tali da poter affrontare la carriera solistica. Se poi – com’è stato fatto – vogliamo spostarci sul versante dello stile e della scrittura, direi che trovo imperdonabile l’uso dell’orrendo e inutile termine “location”, espressione quintessenziata dell’eterno provincialismo italiota.
Se è così, mi dispiace non averlo messo anche nel titolo, perché rende alla perfezione lo spirito e il risultato dell’evento (anzi, dell’happening).