Il periodo natalizio è tradizionalmente prodigo di prodotti discografici di largo consumo: antologie di grandi interpreti del passato, riedizioni in cofanetto di vecchi successi, recital nuovi fiammanti o raccolte a tema sacro dei divi del momento fanno tutti mostra di sé sugli scaffali dei negozi, pronti per essere impacchettati e messi sotto l’albero. Le novità “vere” – quelle che suscitano discussioni tra esperti e appassionati – si fermano dunque a ottobre: tra queste mi pare valga la pena commentare due recenti e importanti uscite discografiche (importanti perché rivelatrici, nel bene e nel male, di certe tendenze – o sbandate – attuali). Parlo de I Capuleti e i Montecchi edito da Glossa per le cure di Fabio Biondi e i suoi complessi, ed il probabilmente ultimo tassello del ciclo operistico mozartiano di René Jacobs: quel Die Entführung aus dem Serail che ne costituisce l’ottavo capitolo e di cui parlerò diffusamente tra qualche giorno. Oggi tratterò della nuova edizione dell’opera belliniana. I Capuleti e i Montecchi – sesta opera del compositore e punto di snodo della sua maturazione artistica (ad essa seguiranno infatti solo i massimi capolavori del suo catalogo) – vanta una frequentazione discografica non certo paragonabile a Norma o La Sonnambula, ma di tutto rispetto: ben 21 registrazioni più o meno ufficiali sono, infatti, disponibili all’ascolto! La triste storia di Giulietta e Romeo, trasformata con sapienza e mestiere in efficace melodramma recidendo ogni legame con la tragedia di Shakespeare, ha indubbiamente affascinato musicisti e interpreti, oltre ad un pubblico sempre più vasto che ha appreso ad apprezzarne l’apparente semplicità, la freschezza dell’inventiva melodica, la delicatezza della scrittura vocale e la perfezione della struttura drammatica (finalmente nella sua versione originale, senza indulgere nello scellerato accomodo ottocentesco che sostituiva, nel finale, la chiara ispirazione di Bellini alle più convenzionali forme del mediocre Vaccaj). Lunga e prestigiosa (spesso) la lista degli interpreti, a cui si devono aggiungere le tante incisioni dei singoli brani, come la cavatina di Romeo, spesso arricchita dalle variazioni scritte da Rossini (da sempre protettore e ammiratore del giovane compositore catanese): tra le tante incisioni voglio ricordare quella diretta da Patané con Beverly Sills, Janet Baker e un travolgente Gedda e quella diretta da Roberto Abbado che offre una ricca appendice di brani nelle revisioni rossiniani nonché il famigerato “finale Vaccaj”. Ce n’è per tutti i palati insomma e per tutti i gusti, a seconda di ciò che si cerca in un’incisione d’opera: poco o nulla, dunque, l’interesse per una nuova edizione dell’opera. Senonché , la lettura delle note introduttive all’elegante cofanetto (forse un po’ macabro nella scelta dell’illustrazione), ci informa che l’opera è eseguita – per la prima volta – secondo precisi criteri filologici e rispettosi della prassi d’epoca: tanto basta a dare un ipotetico significato ad un cast certamente di scarsissimo appeal, a cominciare dal direttore. Fabio Biondi, formatosi con la musica barocca e prebarocca, non è nuovo a certe “scorribande” in territori estranei ai suoi: tutti ricordano una sua Normadi quasi 15 anni fa che suscitò un mezzo scandalo nella sonnolente Parma. Anche allora si parlò di una Norma“filologica”, ma i tempi non ancora maturi, l’ostilità di un ambiente refrattario e certe oggettive carenze esecutive portarono ad un’archiviazione dell’esperimento, tanto frettolosa quanto ingiusta. Dal 2001 a oggi molta acqua è passata sotto i ponti, e Biondi ci riprova, ma con risultati – a mio parere – ancora più interlocutori. Il problema sta tutto nei presupposti ideologici (e non, si badi, filologici) che stanno alla base dell’operazione. Nella sacrosanta riflessione sulla prassi esecutiva, sullo stile, sul riequilibrio dell’impasto orchestrale (che sappiamo essere molto diverso oggi, con tutti gli archi in cui affogano letteralmente i colori dei fiati, rispetto alla prima metà dell’800), sull’utilizzo di un diapason finalmente corretto, sull’organico orchestrale, Biondi fa un passo ulteriore che tramuta la freschezza di un approccio nuovo e rivelatore potenziale di molti aspetti sino ad oggi compromessi dalla forzata lettura del nostro melodramma alla luce del Verdi più pesante o, peggio, del verismo più ribaldo, nel suo esatto contrario: una lettura ideologica e dogmatica che sacrifica la realizzazione musicale al rispetto intransigente di alcuni principi presi a paradigma di verità. Il punto è questo: Biondi elabora un vero e proprio continuo affidato al fortepiano che interviene in tutto il corso dell’opera, non solo come “rinforzo” nei recitativi (comunque accompagnati), ma come sottofondo costante in tutti i numeri, sin dalla sinfonia, inserendosi nel tessuto belliniano con figure musicali autonome e invadenti che stridono spessissimo con la scrittura strumentale e vocale, risultando sempre inopportuno, spesso fastidioso e talvolta pure grottesco (certi incisi negli accompagnamenti delle strette richiamano la “musichetta” delle comiche del compianto Benny Hill mentre con faccia da sporcaccione inseguiva procaci giovinette e diversi intermezzi immergono il melodramma in un’atmosfera da café chantant decisamente fuori luogo). L’effetto è oggettivamente sgradevole, ma Biondi – che sordo non è di certo – pur rendendosene conto, non si pone neppure il problema e, anzi, afferma: “non discuto sul fatto che questo (il fortepiano) possa piacere o no al pubblico di oggi, e non so fino a che punto i compositori si piegassero con piacere a questa pratica, ma va accettata come fatto storico e compresa…” Quindi chissenefrega se l’invadenza del fortepiano è sgradevole e non l’avrebbe tollerata neppure lo stesso Bellini, ma è così e punto! Questa posizione – esclusivamente ideologica – deriva da un vero e proprio preconcetto che trova ben pochi supporti filologici. Biondi sostiene che poiché nei contratti di commissione veniva espressamente richiamato l’impegno del compositore come “maestro al cembalo” per le prime tre rappresentazioni dell’opera, allora, significa, che il compositore si trovava fisicamente di fronte alla tastiera, coadiuvando il primo violino nel compito di dirigere l’orchestra ed intervenendo con improvvisazioni nel corso dell’esecuzione. L’assunto di Biondi si presta a diverse contestazioni: lo stesso Gossett – la cui autorità in materia è indiscutibile – è molto critico. Innanzitutto la formula “maestro al cembalo” resta come clausola di stile almeno sino al 1850 e risulta difficile pensare che durante Rigoletto, Verdi – non certo pianista eccelso – strimpellasse accompagnamenti improvvisati. Probabilmente la clausola deriva dalla reiterazione di vecchie formule ormai cristallizzate nel mondo teatrale italiano (fatto di convenzioni, regole, forme) e lasciava semplicemente intendere che il compositore si impegnava a rimanere in teatro per le prime tre rappresentazioni per rifinire l’esecuzione: ed è logico che fosse così, se si pensa il poco tempo a disposizione dei musicisti (prima dell’opera) per prove adeguate e complete. La presenza dell’autore – garantita contrattualmente – permetteva, cioè, di aggiustare gli inevitabili problemi che nel frenetico mondo del melodramma, il poco tempo a disposizione necessariamente comportava. Si consideri poi il fatto che all’epoca de I Capuleti e i Montecchi, ben pochi teatri potevano permettersi un cembalo o un fortepiano: non vi era più l’esigenza di accompagnare i recitativi secchi, andati ormai scomparendo, e si sa per certo che laddove fosse stato necessario (nell’esecuzione di titoli più vecchi) il cembalo veniva sostituito dal violoncello. Ma poi come sarebbe possibile che le cronache dell’epoca non facessero mai riferimento all’uso dello strumento a tastiera? Nessun resoconto del tempo spende una parola sulla qualità del “cembalista”! Com’è possibile? E le esecuzioni di opere italiane in Francia e in Austria? C’era il cembalo pure nel Guillaume Tell? I presupposti esecutivi compromettono ogni giudizio sui rimanenti aspetti dell’esecuzione che, comunque, è carente sotto tutti i punti di vista. A partire dalla direzione che a parte l’interessante utilizzo di tempi fa ben poco per creare quell’atmosfera pre romantica che è cifra stilistica indispensabile al melodramma: così da lasciar la sensazione di una specie di versione barocca di un’opera dell’800 (trovo piuttosto incoerente che chi sostiene, giustamente, la specializzazione in un certo repertorio, poi non ci pensi due volte ad invadere un repertorio di cui si conosce poco o nulla). Anche l’Europa Galante non si copre di gloria e spesso inciampa in scrocchi e stonature (il corno è semplicemente terribile): e non si dica che la “colpa” è degli strumenti antichi…Mackerras incise tempo fa una Lucia di Lammermoor filologica, con diapason a 430 Hz e strumenti d’epoca, e non si sentiva alcuna stonatura in violini e corni. Come sempre il problema è come si suona. Sui cantanti non c’è davvero nulla da dire, se non che nessuno di essi pare adatto al ruolo (anche senza scomodare i grandi interpreti): il cast si barcamena come può nel sottofondo strimpellato dal fortepiano e dalla linea vocale sempre sporcata da variazioni e cadenze di rara bruttezza e costantemente fuori stile: a parte che l’inserimento di elementi decorativi nei “da capo” dovrebbe essere oggetto di maggior riflessione quando si ha a che fare col melodramma, ma se si vuole a tutti i costi fiorire la melodia, almeno si tenga in considerazione lo stile. La pietra di paragone sono le solite variazioni rossiniane per la cavatina di Romeo – che la Genaux, ovviamente, non si esime dal propinarci – ormai un obbligo per tutte le interpreti del ruolo, anche le più improbabili: quelle di Rossini, infatti, ci danno chiaramente l’idea di un modo di abbellire immediatamente precedente all’opera di Bellini e, pur nella loro intrinseca bellezza, stridono col mondo belliniano (e per questo trovo sia molto più saggio lasciarle alla sala da concerto). Un direttore consapevole delle problematiche stilistiche dovrebbe affrontare la materia in ben altro modo (limitando il più possibile il ricorso a formule passate), invece Biondi infarcisce l’opera con fioriture ancor più elaborate e barocche, con effetto di straniante sgradevolezza. Poco o nulla rimane da dire su questo sfortunato esperimento se non che la giusta esigenza di trovare formule espressive rinnovate, nell’esecuzione di capolavori conosciuti, spesso viene mortificata da mode ed ideologie che sacrificano la resa musicale ad illusorie idee di ripristinare modalità esecutive come se si potesse davvero tornare indietro nel tempo. Ammesso, infatti, che fosse tutto giusto quel che sostiene Biondi col suo cembalo, le variazioni barocche e i corni stonati, davvero è possibile eseguire oggi un repertorio con la stessa verginità che poteva avere l’uomo del 1830? Oggi non si può concepire il “prima” senza considerare il “poi”: è nella natura delle cose. E la forza dell’interprete sta proprio nel riuscire a comunicare al presente con il linguaggio del passato: la musica non può ridursi ad archeologia, né ad una serie di regole ferree a cui sacrificare tutto (che si chiamino tradizione o filologia poco cambia). Ogni esecuzione è figlia del momento storico in cui avviene e va compresa nelle sue circostanze e nella sua capacità di farsi interprete attuale del passato: lo era la pur scorretta versione di Abbado (con un Romeo tenore, ma capace di rievocare atmosfere e luoghi); lo era anche la cosiddetta “versione Vaccaj”, che certo è imparagonabile all’originale belliniano, ma che resta un tassello importante nella storia dell’opera, rispondendo a precise esigenze estetiche. Questa di Biondi invece cos’è? Un monstrum, un esperimento di laboratorio concepito esclusivamente in via teorica ed esplicitamente contrario a quello che può essere un buon esito musicale: lo dice lo stesso Biondi. Questa è la cosa più grave: la trasformazione della musica in archeologia museale, sottraendola alla storia e al tempo.
Gli ascolti:
I Capuleti e i Montecchi – opera completa (Claudio Abbado, 1966):
“Se Romeo t’uccise un figlio…La tremenda ultrice spada” (Marilyn Horne):
“Oh! quante volte, oh quante!” (Bela Rudenko):
“Tace il fragor… Se ogni speme è a noi rapita” (Martine Dupuy, Lella Cuberli, Vincenzo La Scola):
Finale ultimo (Mariella Devia, Martine Dupuy):
Finale Vaccaj (Marilyn Horne, Linda Zoghby):
e’ ben chiaro che andrò avanti ad ascoltare i capuleti e montecchi del 1981 cuberli dupuy, che sono un must e non solo per le cantanti ma per la “regia e concertazione vocale” di zedda (poi tralascio le sue armida attuali), ma l’impressione è che ci troviamo davanti ad una sublime impostura filologica ed a una monnezza di realizzazione. O sbaglio?
A parte la più che infelice copertina, per nulla natalizia, anzi in stile ” Bones” ,è il contenuto di questo CD- patacca a farmi infuriare. Sono infatti convinta che i sedicenti filologi musicali- non solo simil baroccari, purtroppo- abbiano reso un pessimo servizio non solo alla musica ma anche alla povera filologia.
Cazzologia….mi pare la parola giusta
Tra le 21 edizioni, che io posseggo, nella maggior parte dal vivo, ciò che posso giudicare, è quel clima protoromantico che solo pochi interpreti son riusciti ad infondere; cominciando dai direttori, al cui vertice devo posizionare il buon Bruno Campanella, seguito da John Pritchard, Janos Acs, e Muti.Forse si potrebbe inserire Giuseppe Patanè e Piero Bellugi.
Per gli interpreti, al vertice un trio inossidabile: Lella Cuberly, Martine Dupuy e Dano Raffanti, seguiti dalla Mariella Devia e Beverly Sills, in coda Dolores Ziegler
e Giorgio Surjan, Scarto la Cecilia Gasdia, e la katia Ricciarelli, anche la Gruberova (troppo ridondante)
Con questo fardello addosso, ben poco, mi aspetto da Fabio Biondi, per il quale ho una certa repulsione per la sua orchestra baroccara. Personalmente ho una mia
preferenza sul barocco così come è presentato: posso dire una bestemmia: preferisco il barocco di Claudio Scimone, e di Vittorio Negri ai suoni secchi di chi vuol farci credere che costì si abbeveravan i principi settecenteschi. Non credo possibile, che i signorotti del
settecento attentissimi ad adornarsi di oggetti: pitture sculture fortemente caratterizzate da una minuziosa resa visiva, poi si immergessero in una accozzaglia di suoni spigolosi ed aggressivi.
sarei molto curioso di ascoltare questa versione di Biondi. Credo che il punto focale sia quanto scrive Duprez nel suo ottimo articolo. Quando la filologia (benemerita e benaccetta) diventa pratica ideologica, finisce con il servire male la musica e quello che ne esce è un ibrido da laboratorio, interessante solo di per se in quanto esperimento, tanto quanto poteva esserlo la creatura del dott. Frankenstein, anzi, forse senza neanche quei tratti umani che il mostro inventato da Mary Shelley aveva.
Ma questi no sono filologia. ..sono altro…
Non sono riusciti a parlare bene di questa operazione illuminante neppure i siti più “all’avanguardia”, persino quelli stranieri tipo quelli francesi. Credo ciò sia sufficiente.
La concorrenza passata in quest’opera non lascia che poco spazio, per fortuna!, a cose simili. Basta una frase di una Scotto, di una Cuberli, di una Gruberova, della Horne e della Dupuy per chiudere ogni questione. Bastano persino la Gasdia, la Ricciarelli, la Baltsa, la Ziegler,..!
La Genaux è un qualcosa di così unico in fatto di impostazione vocale (tutta in bocca, effetto patatina, agilità fatte col mento, timbro inesistente, voce corta, vibrato strano, suono da capretta, appoggio inesistente, volume minimo) che mi auguro resti un unicum e venga presto dimenticata. Invece incide più che mai. Il suo Arsace di un mese fa con la Pratt è imbarazzante, intrinsecamente ridicolo. Ma non è che qualche anno fa le cose andassero meglio, basti sentire una delle sue prime cose tipo l’Alahor in Granata di Donizetti, o anche cimenti posteriori come il cd sui castrati o l’Emma di Resburgo di Meyerbeer (persino la Kermes ci fa una bella figura rispetto a lei).
Ciao a tutte/i! Complimenti per il sito. Bellissima opera, non la conoscevo. Grazie!