“Ma plus belle histoire d’amour, c’est vous”: Castello del duca Barbablù\Voix humaine (Opéra de Paris, 4 dicembre 2015)

Bartok2L’amore è un gioco di prestigio, un’illusione, un incubo a occhi spalancati/chiusi: questo il senso di massima della lettura che Krzysztof Warlikowski offre del dittico Barbablù/Voce umana, proposto al Palais Garnier in coproduzione con il Teatro Real di Madrid. Barbablù/Fantômas/Houdini attira dal pubblico la sua Judith, sovraccarica e sovreccitata, un po’ fatalona di paese, e la conduce nel suo regno di plexiglas, in cui le porte del mito di Balász sono teche di un museo o padiglioni di un’installazione in progress. Qualche sottolineatura pedante (il piccolo Barbablù preposto al lago di lacrime) non intacca la riuscita complessiva della proposta: Judith, dapprima sfacciata e provocante, è via via sempre più preda del gioco della gelosia retrospettiva e si scopre infine vittima della propria hybris. Non meno sconvolta la Donna protagonista della tragedia lirica di Cocteau e Poulenc, che qui ha (forse) assassinato il proprio uomo e cerca conforto in una telefonata tutta mentale (o recitata? e a beneficio di chi?), conclusa da quel (tentativo di) suicidio che il dramma originale poneva come devastante antefatto. Classico e di raggelata eleganza il Barbablù, dissacrante, ma di paradossale compattezza e coerenza nelle allusioni al testo (“Je ne saurais pas acheter un revolver”) la Voce: se il tutto funziona egregiamente, buona parte del merito va a Esa Pekka-Salonen, che trae dall’Orchestra dell’Opéra un suono sempre compatto e morbido, riuscendo nel contempo a non ridurre il tutto a una indistinta melassa. La solennità dell’incipit del Barbablù fissa il tono complessivo della serata: con le porte si spalancano le voci e i colori dell’orchestra, mai fragorosa (anche se talvolta i cantanti, per limiti intrinsechi, risultano coperti), sempre varia e precisa (valga per tutti l’assolo del violoncello alla frase “Tes lettres et les miennes”), capace di “cantare” anche laddove le voci si limitano a compitare. Il Castello, spogliato di ogni trascendenza in funzione della sottolineature del doppio dramma dei personaggi (la solitudine di lui, l’incapacità di comprendere e di accettare il passato da parte di lei), funge da prologo alla cupa “tragedia telefonica”, in cui si riverbera la violenza espressionista del dramma di Bartók (il rilievo, conferito fin dall’introduzione, alle percussioni e alle dissonanze). Merito di Salonen è l’aver individuato (e sottolineato), senza forzature e senza tentennamenti, una koiné tra due mondi drammatici e musicali a prima vista inconciliabili. Tra simbolo e realismo, la cronaca di due amori (che sono forse lo stesso – il Lui della Voce, qui presente come fantasma o forse non-morto, assomiglia molto a Barbablù…) trova gli accenti più appropriati in una lettura che guarda più al rigore di un Boulez che non all’edonismo sonoro di un Solti o di un Prêtre, senza per questo rinunciare al bel suono, ma valorizzandolo sempre a fini espressivi. John Relyea (che sostituiva l’inizialmente annunciato Johannes Martin Kränzle) è un Barbablù corretto ma di scarsa autorevolezza e insufficiente cavata, Ekaterina Gubanova (esecutrice tutt’altro che rifinita) funziona meglio in questa parte a mezza via tra il soprano lirico e il mezzo acuto che non nel repertorio verdiano e wagneriano, suo abituale “territorio di caccia” (del resto si deve pur mangiare…), mentre Barbara Hannigan recita con ammirevole verve e autentico atletismo (è quasi sempre in bilico su un divano e a un certo punto deve letteralmente scaraventarsi a terra), ma sfoggia un francese dal dubbio accento e, quel che è più grave, una voce tremula e dall’acuto regolarmente aleatorio. Trionfo conclusivo, meritato soprattutto per il direttore.

Bartok: Il Castello del Duca Barbablù

Prologo e Introduzione – John Relyea, Ekaterina Gubanova, dir. Esa Pekka-Salonen (2015)

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