La Fenice ha inaugurato la nuova stagione con Idomeneo Re di Creta di Mozart, scelta interessante il cui esito è stato, però, nel complesso interlocutorio.Titolo impegnativo è Idomeneo, ricco di suggestioni, sperimentalismi e contaminazioni pur nell’apparenza formale dell’opera seria italiana di ascendenza metastasiana, nonostante un libretto dal testo invero brutto secondo l’opinione di chi scrive, è stato adeguatamente valorizzato sul versante musicale dalla bacchetta sicura ed esperta di Jeffrey Tate.
Il direttore ha garantito coesione all’opera, staccando tempi né isterici né letargici e privilegiando una lettura solenne, a tratti forse un poco autoreferenziale, che ha trovato i migliori momenti nelle scene corali e nelle parti in cui non erano previsti i cantanti. Nonostante gli sforzi, credo inumani, per non coprire sistematicamente il cast e tentare di agevolarlo piuttosto che affossarlo ulteriormente, si ha avuto la sensazione che la serata scorresse su due piani paralleli, quello sostanzialmente positivo dell’orchestra, sicura e coerente, pur senza trovare momenti brillanti o particolarmente fantasiosi, e quello negativo costituito dal resto. Sì, perché nonostante l’incredibile ricchezza e raffinatezza della parte orchestrale, Idomeneo resta un’opera e l’opera senza cantanti non ha senso.
Quanto emerso dalla compagine canora fa sorgere molti dubbi e molte domande sullo stato attuale dell’arte, sui cosiddetti specialisti e sulle voci che affrontano certi repertori. In un teatro piccolo e dall’ottima acustica qual è la Fenice ciò che ha colpito maggiormente è la piccolezza delle voci in campo, tutte udibili a tratti o a patto che l’orchestra non suonasse perché, anche suonando piano, tendeva a coprire la più parte dei cantanti. Un Mozart in formato minimo in cui non emerge praticamente nulla né vocalmente né interpretativamente: delle grandi passioni e dei tormenti dei coturnati protagonisti non vi era che l’ombra o una sorta di silenziosa pantomima. Emergeva impietosa, invece, la fatica nel solfeggiare le parti e nel farsi sentire. Il tutto con una dizione mediamente incomprensibile..
Il protagonista Brenden Gunnell è stato il più sonoro e il più convincente degli interpreti principali, nonostante la voce dura, spinta, a tratti rauca e in seria difficoltà nella maestosa e ardua “Fuor del mar”, si è sforzato di dare un senso a ciò che stava cantando. La dizione migliore, pur con l’accento straniero, si è sentita da lui.
L’Idamante di Monica Bacelli è stato manierato e monocorde, un assai parco campionario di espressioni e mosse valide un po’ per tutte le occasioni è stato dispiegato… sicuramente in modo “specialistico e attinente stilisticamente”. La voce è piccola, sopra va indietro o è spinta, nei centri invece è più gradevole. Delle donne era addirittura la più sonora.
L’Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani è semplicemente improponibile e nello scorrere i ruoli che ha già in repertorio vengono solo i brividi.
Ekaterina Sadovnikova è stata un’Ilia quasi inudibile e completamente priva di idee interpretative, totalmente passiva. La voce non sarebbe brutta ed era la più corretta nella fonazione, nonostante qualche problema nel controllare la voce nel salire, ma davvero si faticava a sentirla; dire di più sarebbe pura retorica.
La crudele Elettra aveva qui la voce piccola, aspra e scomposta di Michaela Kaune, in difficoltà su tutta la linea, ma almeno attenta a dare scenicamente l’idea di capire cosa stesse recitando, a differenza di Ilia. Mi domando come possa cantare Wagner in grandi teatri se la voce risulta piccolissima in Fenice, in Mozart e con un orchestra costretta a suonare sempre piano. I misteri del canto odierno!
Michail Leibundgut presta voce ingolatissima all’oracolo, qui amplificato, mentre Krystian Adam come sacerdote di Nettuno esibisce la voce più sonora e corretta uditasi in tutta la serata tanto che un cambio con Arbace sarebbe stato provvidenziale in questa circostanza.
Alessandro Talevi, regista, Justin Arienti, scenografo, e Manuel Pedretti, costumista, realizzano uno spettacolo non particolarmente intelligente, sensato o bello, ma neanche demente e brutto come oggi è frequente. Alcune trovate sciocche (brevi amplessi seppur non volgari in sottofondo all’inizio, inutili modellini di oggetti, banchetto con sfarzo di cibi nel primo atto, la scena coi panni appesi sulla spiaggia nell’ultimo) si affiancano a elementi neutri non sgradevoli (una sorta di studio-museo per le scene di interno, le scene sulla spiaggia col mare in movimento), in un ambiente non ben collocato nello spazio e nel tempo, vagamente grecizzato, vagamente “tritonesco”, vagamente cinematografico (richiami alle famose saghe dei Pirati dei Caraibi e del Trono di Spade per costumi e acconciature).
3 ore e 50 di spettacolo che sono parsi incredibilmente lunghe, applausi praticamente inesistenti durante l’opera anche alla fine dei numeri chiusi, al termine applausi “di cortesia” come oggi è prassi. A quanto pare, basta questo per considerare un’operazione un successo.