Tamburini a Vienna, prima puntata: Anna Bolena.

Anna_Bolena_GruberovaL’Opera di Stato ripropone l’allestimento di Bolena, presentato nel 2011 in occasione del debutto del titolo sulle scene viennesi (nonché di Anna Netrebko nei panni dell’infelice regina d’Inghilterra) e successivamente ripreso con Krassimira Stoyanova, quindi con la stessa Netrebko e, in occasione di una tournée giapponese, con Edita Gruberova, che nell’ottobre del 2015, prossima ai settant’anni di età e ai cinquanta di palcoscenico, porta per la prima volta il ruolo (debuttato la bellezza di ventitré anni fa) in quello che è incontestabilmente il “suo” teatro, lo stesso che nello scorso febbraio l’ha calorosamente festeggiata per i quarantacinque anni di onorato servizio. Questa alluvione di cifre e dati per spiegare almeno in parte l’aspettativa dei fan (alcuni dei quali si direbbero risalenti agli ultimi splendori dell’Impero asburgico…) e l’esito trionfale della recita del 23 ottobre (ultima delle quattro programmate), con quindici minuti di applausi a fine serata. Poi c’è la sostanza del canto e più in generale del fare musica, l’unica che interessi in questa sede, ché lo spettacolo di Eric Génovèse, archiviate le pratiche scenografie (décor unico e modulabile, che con pochi accorgimenti evoca tutti gli ambienti previsti dal libretto) e i costumi genericamente piacevoli, è davvero poca cosa e soprattutto nulla aggiunge a una proposizione del titolo in forma di concerto. La direzione di Evelino Pidò si caratterizza soprattutto per gli abbondanti tagli (che interessano tutti i solisti, meno la primadonna, e toccano il loro culmine nella soppressione dell’intera prima sezione del terzetto Enrico-Anna-Percy, “Ambo morrete o perfidi”, che obbligherebbe il basso a vocalizzare di forza) e per una generica brillantezza nello stacco dei tempi (con alcune eccezioni di cui si dirà più avanti), che sommata alla secchezza e scarsa levigatezza del suono orchestrale (è evidente come da questo repertorio i veterani dell’orchestra, quelli che per intenderci costituiscono il fulcro dei Wiener Philharmoniker, stiano bene alla larga…) riduce brani come la sinfonia e parecchi concertati a ridicole marcette da opera buffa, ministrate a colpi di mazza ferrata. Buono il coro maschile, mentre la sezione femminile evidenzia più di un problema, soprattutto all’inizio del secondo atto. Tra i comprimari si apprezza la materia grezza (ma solo quella) di Ryan Speedo Green quale Rochefort, mentre l’urletto (un la bemolle acuto) che corona l’elementare assolo di Smeton prima del finale primo permette di apprezzare sino in fondo l’arte dell’emergente stellina dell’ensemble locale, Margarita Gritskova. Il peggiore tra le prime parti Marco Vinco nei sovradimensionati panni di Enrico: nonostante gli sforzi generosamente profusi, la voce passa solo sporadicamente l’orchestra, e quello che giunge in sala è tutt’altro che una meraviglia: suoni morchiosi, agilità (quelle superstiti, almeno) approssimative, nessuna ampiezza, accento genericamente accigliato, da don Pasquale in provincia. Celso Albelo ha, se non altro, un po’ di “punta” nella gamma acuta della voce, ma l’emissione è costantemente nasale (tipo fotocopia sbiadita dell’anziano Kraus), il legato faticoso e i cali d’intonazione frequenti, arrivando a risultare sistematici nella cabaletta della seconda aria. La reazione entusiastica suscitata dall’acuto conclusivo (un re) della stessa indica con sufficiente chiarezza quello che la maggioranza del pubblico (si) aspetta, oggi come oggi, da un esecutore: non la struggente malinconia di una cantilena come “Fin dall’età più tenera”, non la tenerezza del duetto d’amore o l’impeto dello scontro con il sovrano e rivale in amore, bensì un suono bianchiccio e strillato, tenuto per un tempo sufficiente a far scattare l’applauso (bastano, in realtà, pochi secondi, anche perché la benzina era ormai da tempo finita). Come sempre musicale e preparata, Sonia Ganassi sconta, al solito, un’emissione assai poco stilizzata, con gravi ora inesistenti, ora artatamente pompati (comunque poco sonori), agilità cempennate e acuti fischianti. Al duetto con Enrico abbondano piani in difetto di appoggio, e quando, come alla chiusa del duetto con la regina e nella sezione finale del rondò, Seymour è chiamata a esprimere concitazione e angoscia, assistiamo, come già tre anni fa a Firenze, all’imitazione in salsa padana dei più quotati modelli di canto odierni, in primis quelli proposti dalle esecuzioni pseudofilologiche di musica barocca e assimiliate. Kaisergruft-Wien-14Quanto a Edita Gruberova, la vera sfida per lei (dichiarata, con lucidità pari almeno alla scriteriata ambizione, in molte interviste) è quella di arrivare viva in fondo alla parte, di lunghezza e complessità semplicemente mostruose, centellinando le forze e piegando giocoforza l’interpretazione ai propri limiti, dettati tanto dall’età non più verde, quanto da una consuetudine lunga, ma a conti fatti ben poco fruttuosa, con il melodramma italiano del primo Ottocento: i brani patetici (sortita, congedo da Seymour, cantabile del terzetto, praticamente tutta la scena conclusiva) vengono centellinati a suon di piani e pianissimi, amministrati con un controllo del fiato sempre ammirevole (salvo che in “Al dolce guidami”, il cui tempo lentissimo – una richiesta della primadonna? – determina occasionali défaillance anche sotto il profilo dell’intonazione). Ciò detto, e premesso che la voce è, anche e soprattutto dal pianissimo al mezzopiano, più sonora di quella dei colleghi, sarebbe improprio parlare di legato, di accento, di scansione del testo musicale e poetico: al tempo d’attacco del duetto con Percy si assiste alla parodia involontaria dell’agilità di forza, mentre l’incipit del duetto con Giovanna e la sdegnata apostrofe al marito sono risolti con bamboleggiamenti contrabbandati per interpretazione (e tacciamo delle discese al grave, che ricordano da vicino quelle della Ganassi). L’unico punto in cui la vocalista appare a proprio agio, e di conseguenza l’interprete, senza essere sconvolgente per verità o introspezione, risulta misurata ed efficace, è il concertato “Io sentii sulla mia mano”. Un plauso alla resistenza fisica dell’esecutrice, ma Donizetti, anche con voci in natura modeste, è altra cosa.

ANNA BOLENA
Freitag, 23. Oktober 2015 | 18:30 | in italienischer Sprache

18. Aufführung in dieser Inszenierung
Evelino Pidò | Dirigent
Eric Génovèse | Regie
Jacques Gabel, Claire Sternberg | Bühne
Luisa Spinatelli | Kostüme
Bertrand Couderc | Licht
Thomas Lang | Chorleitung
Marco Vinco | Enrico VIII
Edita Gruberova | Anna Bolena
Sonia Ganassi | Giovanna Seymour
Ryan Speedo Green | Lord Rochefort
Celso Albelo | Lord Riccardo Percy
Margarita Gritskova | Smeton
Carlos Osuna | Sir Hervey

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10 pensieri su “Tamburini a Vienna, prima puntata: Anna Bolena.

  1. Edita Gruberova la ascoltai al Teatro Filarmonico di Verona nella primavera del 1978 in una produzione mozartiana importata mi pare da Salisburgo, la sua fama era già notevole, ma il suo culmine lo ebbe a Milano con Sawallisch in Arianna a Nasso il 18.1.1984 tre sere di fuoco, dove superò i due colleghi Eva Marton e Sawallisch
    Poi la sua carriera si impose sempre a Vienna e dintorni.
    Ho provato ad ascoltare un pò della recita quì postata, per l’esattezza da ” Giudici ad Anna” e vi confesso che se non la avessi vista ed ascoltata a suo tempo, la avrei abbinata ad una parodia dell’opera lirica da avanspettacolo.
    Capisco che Pidò abbia avuto seri problemi con quel cast, ma ciò che ne esce è una marmellata rancida e puzzolente. Se ancora si presenta su quel poalcoscenico si potrà solo eseguire il” De Profundis”

  2. Per chi volesse ascoltare varie interpreti di Bolena ci sono ancora in commercio:
    Sills & Verrett dir.Rudel 1973
    Callas & Simionato dir.Gavazzeni 1957
    Scotto & Troyanos dir Previtali 1975
    Ricciarelli & Baglioni dir Gatto 1979
    Gencer & Siminato dir Gavazzeni Rai
    Gencer & Johnson dir Gavazzeni Glyndenburg 1965
    Sutherland & Mentzer dir Bonynge 1987
    Caballè & Obraztsova dir Patanè 1982
    Gruberova & Kasarova dir. Luisi 1995
    Aliberti & Vasquez dir Hofstetter 2001
    Takova & Barcellona dir Campanella 2005
    più altre esecuzioni locali.

  3. Io non mi capacito di come sia possibile continuare a tollerare una oscenità del genere. La signora, supportata da uno zoccolo duro di devoti adoranti a qualunque condizione, da teatri, direttori e stampa che continua ad incensare ogni sua funesta apparizione come un’epifania della “regina del belcanto”, va avanti imperterrita nelle sue grottesche esibizioni che non possono essere valutate con i normali criterii di giudizio. Perché oramai di fronte a tali pagliacciate non si può neanche più parlare di malcanto; si tratta bensì di un rivoltante sfoggio di non ben definibili rumori a frequenza elevata. La normale senescenza a cui va incontro il mezzo vocale non giustifica assolutamente la condizione della signora; il tempo ha soltanto amplificato i difetti conclamati sin dagli inizi della sua carriera: le “note” (sì, è quasi grottesco parlare in questo caso di note) gravi sono ridotte a dei borborigmi gutturali; le “messe di voce” somigliano all’esplosione della sirena di una allarme; gli “acuti” presi da sotto contorcendosi con tutto il corpo giungono allo strillaccio apicale con dei “portamenti” che scivolano su ogni quarto di tono dell’intervallo. Emblematico in questo caso è lo straziante atto conclusivo: la signora si produce in un non ben definibile suono che può ricordare il verso emesso da un gatto impalato vivo convintissima di eseguire il mi bemolle sovracuto presente in partitura, e l’adorante platea la supporta in questa sua convinzione tributandole un’ovazione. Per quanto mi riguarda tutto ciò è il più grande scandalo riscontrabile nel disgraziato panorama operistico odierno, assai peggio dei trionfi concessi al Placidone baritono verdiano o a non-cantanti quali la Bartoli, Kaufmann o Villazon. Che tristezza.

  4. Ho provato a sentire un poco della recita postata su youtube. Ascolto abbastanza imbarazzante. Soprattutto per la Gruberova. Una grande cantante ormai quasi inascoltabile, che ha perso il momento giusto per ritirarsi, in modo da farsi rimpiangere e non compiangere.
    Anche nel declino ci può essere classe, ma bisogna sapere gestire la propria fase declinante nel modo giusto.

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