La sonnolenta stagione del Comunale di Bologna prosegue con una produzione di Elektra, accolta alla prima rappresentazione (domenica 15 novembre) da frettolosi applausi finali e soprattutto da una sala lungi dall’essere esaurita o anche solo affollata (abbiamo contato, a opera cominciata da una ventina di minuti, almeno quindici palchi completamente deserti – il che conferma, per inciso, che una politica di “last minute” che preveda prezzi superiori ai trentacinque euro funziona solo negli auspici di certi sovrintendenti, poco avvezzi a pagare di tasta propria il biglietto per uno spettacolo teatrale). Nondimeno, i giornali locali e quelle riviste digitali, che per sistema usano ed abusano di incensi, hanno parlato di trionfo, pubblico rapito in estasi, e soprattutto di esecuzione magistrale, memorabile, destinata a passare alla storia e via di questo passo. Viene quindi da chiedersi quali siano le ragioni dell’accoglienza, di segno ben diverso, tributata dallo scarso pubblico, cui fa eco la reazione degli ascoltatori radiofonici, che hanno seguito l’opera grazie alla diretta Rai. Quella che la diletta Carlotta Marchisio e il sottoscritto hanno ascoltato nella bomboniera del Bibbiena è un’esecuzione che impietosamente certifica lo stato di colpevole abbandono in cui ormai da anni versa un’orchestra, che ha avuto nel suo passato anche recente momenti di autentico splendore (penso a certi spettacoli concertati, ancora una decina di anni fa, da Vladimir Jurowski, all’epoca direttore principale ospite del teatro) e che oggi non riesce a eseguire dignitosamente i titoli più correnti del catalogo verdiano, come nel caso del recente Macbeth. Il suono è generalmente opaco, gli interventi dei singoli strumenti spesso confusionari, il volume, nei rari casi in cui viene portato a livelli non cameristici, si muta regolarmente (soprattutto nel quarto d’ora conclusivo) in frastuono. La direzione di Lothar Zagrosek appiattisce le tinte sempre fosche, ma continuamente cangianti del dramma (dall’angoscia al sorriso beffardo e alle sottolineature grottesche, dall’esausto dolore della protagonista alla sua travolgente autodistruzione), in una svogliata indifferenza: non c’è modo di distinguere, al solo ascolto, le scene “di colore” destinate ai servi dai tesi colloqui familiari degli Atridi, all’arrivo di Oreste non si avverte alcuna tensione (e tanto meno abbandono), la carneficina finale risulta pachidermica quanto monocroma. Non si può neppure parlare di approccio intimistico o smitizzante, perché di un approccio qualsivoglia, frutto di una lettura meditata e coerentemente realizzata, non si ravvisano le tracce, e questo anche (ma non principalmente) a causa dei limiti della compagine bolognese. Quanto agli esecutori, archiviato l’Oreste generico, ma corretto e abbastanza sonoro, di Thomas Hall, bisognerebbe chiedersi come sia possibile non protestare una protagonista (Elena Nebera) di voce senescente e tremula, spesso soffocata dall’orchestra, una Crisotemide (Anna Gabler) che richiama una Musetta della profonda provincia teutonica e una Clitennestra (Natascha Petrinsky) con l’unico pregio di una piacevole presenza scenica (più adatta, però, a una Carmen che non a una regina tormentata dalle angosce notturne). Senza orchestra (e senza bacchetta), con un palcoscenico che ripropone il più tristo catalogo di malcanto in salsa postwagneriana, alla regia di Guy Joosten resta ben poco margine di manovra, ma lo spettacolo, nel suo consapevole oscillare fra tentazioni neoclassiche (lo spazio riservato a Elettra, l’apoteosi finale) e derive novecentesche (l’architettura postindustriale à la Peduzzi, le ancelle a metà strada fra kapò e infermiere), ha una sua semplicità quasi elegante e innegabilmente funzionale.
Un pensiero su “Elektra a Bologna: un altro buco nell’acqua.”
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Per buona fortuna la discografia ci ha lasciato un ricordo vivido di un periodo straordinario di esecuzioni meravigliose, che ci possono rendere facile sia lo ascolto che le direzioni orchestrali degne di questo nome.
personalmente detesto chi le vuol trasformare in brutte copie da ascoltare e/o vedere.Prosit.