Preludio
Per il venticinquesimo giubileo della Riunificazione, la capitale tedesca si è regalata una festa lirica che non ha e non può avere uguali in nessun paese o capitale del mondo: nel arco di un sol weekend ben tre teatri d’opera (considerati) di livello internazionale hanno aperto le loro stagioni con tre nuove produzioni – Les Contes d’Hoffmann alla Komische Oper, i Meistersinger alla Staatsoper Unter den Linden e l’attesissimo Vasco de Gama ossia la versione originale dell’Africaine di Meyerbeer alla Deutsche Oper. Impresa ineguagliabile anche perché questo lusso è un’espressione diretta da parte di uno stato sociale fiero di essere ancora in crescita economica mentre tutti gli altri sono gravemente colpiti dalla crisi, e di avere mezzi sufficienti per sostenere sia un numero di profughi che ha pochi precedenti che produzioni operistiche costose.
Dovrebbe fare impressione e piacere la decisione della Deutsche Oper di finalmente rendere un degno omaggio ad uno dei più celebri berlinesi dell’Ottocento, Jakob Liebmann Meyer Beer alias Giacomo Meyerbeer, lanciando un ciclo dedicato a lui sulla basi delle recenti edizioni critiche, quindi, in teoria, un ciclo di allestimenti depurati dalle deformazioni ed accorciamenti che penalizzava a priori ogni tentativo di risuscitare le sue opere. Cominciando da una Dinorah proposta in forma di concerto l’anno scorso, il piano è di allestire ogni stagione un grand-opéra alla volta (Vasco de Gama nel ottobre 2015, Les Huguenots nel novembre 2016 e Le Prophète nel maggio 2018 – invece Robert le Diable nemmeno si menziona). Ma dopo aver assistito alla prima del Vasco il 4 ottobre, ci rendiamo dolorosamente conto di tutta la serie di limiti, dei veri e propri autogoal, in cui s’imbatte un’ipotetica Meyerbeer-Renaissance oggi come oggi.
Nel 2013 un teatro di provincia come Chemnitz aveva dimostrato che con un minimo senso delle cose, con una volontà di fare e pur non avendo a disposizione voci fenomenali, si poteva comunque tentare di allestire una versione integrale di un mostro come Vasco de Gama e rendere, anche se molto vagamente, un’idea di cos’era il grand-opéra. Renderla non cosi tanto nella sua spettacolarità teatrale e men che meno in quella vocale, ma piuttosto nella monumentalità e complessità dell’invenzione del tutto, quel approccio che sfortunatamente (ma, come proverò di dimostrare, non per caso) è stata tradita prestissimo dopo la morte di Meyerbeer e del suo librettista Eugène Scribe all’inizio degli anni 1860. E di questo tradimento la prima mondiale di Vasco nella versione rielaborata dell’Africaine nel 1865 ci fornisce un sintomatico inizio la cui rivisita ci aiuterà anche a capire le ragioni sia della graduale sparita dalle scene del più celebre e fortunato operista dell’Ottocento che della difficoltà ed incapacità dei musicisti e registi odierni di trovare la giusta chiave estetica per uno dei massimi fenomeni culturali dell’Europa ottocentesca.
Come già accennato, il Vasco berlinese ha dato prova del fatto che alla Deutsche Oper Meyerbeer non è stato preso sul serio né come musicista né come uomo di teatro e men che meno come genio universale che non solo sapeva come mettere in scena spettacoli travolgenti per tutti i sensi, ma anche trasmettere con invidiabile esattezza ed efficacia idee, che esse siano state politiche, sociali o poetiche. Ed è proprio per l’efficacia della loro realizzazione musicale e drammaturgica che bisognerebbe avere fiducia in lui. Invece, il 4 ottobre di questa fiducia o almeno di una volontà di capire l’estetica meyerbeeriana neanche una traccia…
Vi propongo di intraprendere un viaggio un po’ lunghetto alla ricerca del mondo di Meyerbeer e dei suoi codici, affinché vengano meglio illuminate le ragioni del fallimento dell’operazione berlinese. Guardiamo (a) prima la drammaturgia di Meyerbeer e Scribe ed il loro contesto culturale e politico per esaminare la regia del Vasco berlinese alla luce di quel che rappresentava il grand-opéra nel suo periodo di massima vitalità e qual era il significato di un’operazione come L’Africaine, per passare (b) nella seconda parte di questo saggio-recensione all’analisi di certe ragioni del decadimento del grand-opéra nel suo confronto con il teatro wagneriano, per finire (c) nella terza parte con un’analisi più concreta della cifra musicale di Meyerbeer e per discutere finalmente sulla basi di quanto analizzato prima la resa complessiva del Vasco proposto dalla Deutsche Oper.
Il contesto politico e culturale del grand-opéra
Di che cosa tratta Vasco de Gama, questo stranissimo capolavoro malinteso e malascoltato di cui persino il titolo tradizionale è fuorviante? Concepito nel primo abbozzo – come L’Africaine – nel lontano 1837 insieme ad Eugène Scribe[1], quindi quasi subito dopo il trionfo del loro Les Huguenots, Meyerbeer non è stato abbandonato dall’intuizione che, malgrado il forte potenziale conflittuale messa a disposizione dalla storia d’amore e di conflitto razziale fra una coppia spagnola ed una coppia africana, ci mancava proprio quel ampio e preciso background storico, accentuato da una corsa irreversibile e sempre più veloce verso una catastrofe finale (causata dagli uomini stessi e non dalla natura, sottolineiamolo) che aveva così tanto contribuito al successo-choc de Les Huguenots presso al pubblico parigino. Dopo la legenda semi-fantastica e vagamente medioevale del Robert le Diable, con cui Meyerbeer si era fatto celebrare a Parigi come il grande unificatore – “eclettico”, nel buon senso – del canto ornato e spianato all’italiana, dell’arte strumentale di scuola tedesca e dell’eredità di balletto e di declamazione alla tragédie lyrique francese, quindi come autore di una Gesamtkunstwerk di cui si entusiasmavano i più noti intellettuali, scrittori ed artisti degli anni 1830 (basta anche menzionare il racconto Gambara di Balzac), era stato l’espresso desiderio di Meyerbeer di lasciare il terreno metafisico della lotta fra il Bene ed il Male ed usare gli stessi mezzi scenico-musicali per dipingere un cataclisma storico esattamente elaborato accentuandovi il naufrago di qualche individuo altrettanto distinto dalla più meticolosa caratterizzazione. Les Huguenots ne avevano dato una prova talmente perfetta e spettacolare che solo un capolavoro come Le Prophète poteva superare il trionfo ottenuto. Allestito con molto ritardo nel 1849 – perché Meyerbeer preferiva differire per mesi ed anni la prima esecuzione di una sua opera, se no si assicurava di avere a disposizione gli interpreti scelti da lui con la più grande cura -, Le Prophète, in cui lo sfondo storico del conflitto fra due collettivi per motivi religiosi viene ancora più radicalizzato dal fattore economico-rivoluzionario, era stato il progetto che aveva soppiantato il progetto dell’Africaine proprio per la mancanza di acuità problematica in quest’ultimo, oltreché per la prematura perdita di voce di Cornélie Falcon che Meyerbeer aveva immaginata nei panni dell’esotica protagonista.
Proveniente da una ricca famiglia ebrea di tradizione illuminista, Meyerbeer, che per il grado d’insistenza con cui influenzava la forma definitiva i libretti (fino a fare dell’affascinante personaggio di Marcel una creazione quasi tutta sua) potrebbe esserne considerato co-autore, utilizzava la massima scena parigina per promuovere soggetti, atteggiamenti, prospettive che non potevano che colpire in pieno alle aspettative della borghesia recentemente ascesa ad un consolidato potere politico ed economico nel periodo della Monarchia di Luglio. Intendo i valori liberali di tolleranza religiosa, fino ad un anticlericalismo piuttosto militante (come già nella Juive di Halévy e molto più tardi nel Don Carlos verdiano), ma anche l’orrore difronte ad una possibile insurrezione sociale di quel “plebe” che, già per ragioni di prezzo di biglietti, era escluso dall’Opéra, ma nel ambito delle grand-opéra, sin dalla Muette de Portici d’Auber, veniva messa in scena con grande cura come una “massa” sempre pronta alla distruzione e – Dio ce ne guardi! – alla violazione delle sacre leggi di proprietà. Tutte idee e paure la cui origine non poteva ch’essere una metropoli come Parigi, quella “capitale del Ottocento” che ha impostato non solo un modo economico tutto nuovo (e ancora molto nostro), ma anche un’esperienza del tempo inedita, quel senso di velocità senza cui sarebbero difficilmente immaginabili il quarto e quinto atto de Les Huguenots[2] – un precipitarsi sempre più accelerato la cui tensione viene soltanto accresciuta fino all’insostenibile dalla parentesi volutamente dilatata del duettone d’amore (modello sia per i duetti d’amore del Tristan che per il Ballo in maschera etc. etc.). Sono queste le nuove esperienze urbane sul piano sia politico che puramente fisico che rendono necessario un genere che combini tutti i mezzi disponibili per produrre spettacoli dall’opulenza e dalla violenza sensuali magari analoghi per effetto e funzione a certi blockbuster multimediali dei nostri tempi.
A parte il potenziale per l’ostentazione di scene esotiche – non solo la possibilità di mostrare, ad esempio, un mercato di schiavi, ma già il fascino del colore nero della protagonista -, il primo abbozzo dell’Africaine (1837-1843) offriva troppo poco ed è cosi che nello scenario venne introdotto il personaggio storico del portoghese Vasco da Gama e con lui un contesto molto più vasto, ma al contempo più determinato storicamente, di colonialismo.[3] Però, andrebbe sottolineato che il nucleo positivo a cui Meyerbeer teneva sin dall’inizio e che voleva salvare attraverso le diverse varianti come l’idea poetica centrale era la mancinella sotto cui muore la regina abbandonata nella scena finale, quell’albero semi-mitologico che esala un olezzo velenoso portando attraverso allucinazioni beatifiche verso la morte chiunque li si avvicini. E’ questo centramento della vicenda, comunque aumentata di materiale storico ed accentuata verso messaggi politici più precisi, intorno ad un’idea fondamentalmente astorica, quasi mitologica, che alla prima dell’Africaine nel 1865 poteva solo confermare e terminare la lunga crisi nella quale il genere e vuol dire anche l’Opéra era caduto già dopo la prima de Les Huguenots. Perché nessun nuovo lavoro prodotto in questo genere era riuscito di ottenere un successo paragonabile e perché, la speranza dei dirigenti del teatro sempre volta ad una nuova opera di Meyerbeer, il suo Prophète vidi la luce con grandissimo ritardo, riuscendo però comunque di rianimare il grand-opéra non solo grazie ad una sconvolgente modernità dell’approccio musicale ed alle innovazioni tecnologiche (come il primo uso della luce elettrica a teatro per rendere la levata del sole alla fine del terzo atto), ma anche grazie alla presenza di un fenomeno come la Viardot e non da ultimo per la coincidenza di questa enciclopedia scenica-musicale di ideologie, demagogie e di manipolazioni delle masse con la situazione politica post-rivoluzionaria del 1849. Nell’Africaine, malgrado la presenza di uno sfondo ed un immediato conflitto politici, il grand-opéra come grandioso spettacolo storico cum tragedie di individui soccombenti ai cataclismi sociali era già “minata” dal pericolo di affondare in quello che poi diverrà l’arma principale per un Wagner, ossia il mito.
Fra Africa ed India
Nell’Africaine/Vasco de Gama che, come il Ring di Wagner, ebbe una storia di creazione distesa su tre decenni, tutte le pause ed i radicali cambi di concezione non potevano che condurre ad un risultato finale leggermente inferiore per il concentramento ed il grado di tensione musicale-drammaturgico, nonché a priori penalizzato dall’assenza di un conflitto politico comparabile alla drammaticità dei due grand-opéras precedenti. Si potrebbe dire che l’ultimo grand-opéra di Meyerbeer è un addio a questo genere, un lavoro di transizione verso il drame lyrique della Belle Epoque[4], pur ancora muovendosi scomodamente negli stivali giganteschi del grand-opéra. (Ad un certo punto Meyerbeer aveva pure in mente di proporre il lavoro all’Opéra comique, come già il Robert era stato concepito all’inizio quale progetto adatto all’opéra comique.)
Al fatto funesto che Meyerbeer non ebbe l’occasione di sperimentare sul palcoscenico l’efficacia del materiale musicale di quasi 5 ore per darli la sua forma definitiva sulla basi della prassi scenica, si aggiunse la circostanza che lo stimato critico e musicologo François-Joseph Fétis, plenipotenziario per la richiesta della vedova Minna Meyerbeer durante le prove che il compositore non ebbe più la fortuna di potere condurre a termine a causa della sua morte prematura, decise di mantenere il titolo L’Africaine benché, dopo l’introduzione della figura, storicamente legata alle Indie, di Vasco da Gama, Meyerbeer e Scribe abbiano trasformato i protagonisti esotici dagli africani neri in indiani provenienti però non dalle Indie, ma da… Madagascar al fine di giustificare geograficamente il veloce passaggio dal Capo di Buona Speranza alla reggia di Sélika. Fu preferito il titolo L’Africaine perché era proprio questo il titolo al quale da ben tre decenni si era rapportata l’aspettativa della pubblicità parigina, anzi dell’Europa intera. Inoltre, l’immaginazione almeno attraverso il titolo, di una protagonista dalla pelle nera prometteva un esotismo, un’alterità molto più pronunciata che non un’”indiana bruna” – un fascino quasi-erotico, aumentato dalla demonizzazione della donna in generale, che in quegli anni si trova espresso nel modo più sintomatico, moderno (ed ormai… classico) nelle poesie di Baudelaire. E non da ultimo, il compromesso fra il vecchio titolo e l’esigenza della versione finale dell’opera di presentare indiani al posto di africani, che fu trovato tramite la localizzazione degli ultimi due atti sull’isola di Madagascar, fu dettato non solo dalle ragioni di credibilità geografica, ma anche dalla circostanza che in quel periodo il Madagascar fosse un attualissimo tema politico per la Francia che sin dal Seicento aveva tentato parecchie volte di assoggettarselo al fine di spianarsi la strada verso l’Oceano Indiano e l’Asia. Dopo tante serie di avviamenti diplomatici, commerciali, semi-militari, missionari, rinnovatisi proprio all’inizio degli anni 1860, il Madagascar fu definitivamente conquistato e trasformato in un’ufficiale colonia francese nel 1895[5], quindi ad un tempo quando il colonialismo era già divenuto una realtà brutale, molto lontana da quel ottimismo fantasmatico, anzi da quell’utopia, descritta da Meyerbeer e Scribe, di una regina orientale innamorata del suo colonizzatore e pronta a sacrificarsi sia per la sua felicità privata (con un’altra “bianca”) che per i suoi progetti espansionisti, cedendoli volontariamente la sua splendida reggia.
E’ a favore di una visione mitologizzata del colonialismo europeo che si abbandona una prospettiva storica-critica, anche se delimitata da un approccio marcatamente borghese-liberale, degli anteriori grand-opéra. Eppure, bisognerebbe chiedere che cosa avrebbero potuto o voluto fare d’altro Meyerbeer e Scribe nel contesto culturale e sociale in cui e per cui lavoravano, loro che mettevano in scena non la “storia” “com’era accaduta”, ma le speranze e paure di una stratta sociale che per mantenere la sua egemonia aveva anche bisogno di un certo tipo di estetica ed immagionario culturale. L’Africaine è quindi un primo balbettamento che porta direttamente a quel circo enciclopedico di orientalismo imperialista che è Aida [6]. Dobbiamo però sottolineare un aspetto fondamentale dell’intera Africaine/Vasco de Gama e soprattutto del suo finale, con cui si capirà la specificità dell’approccio di Meyerbeer.
Quel lavoro di smascheramento dei poteri politici e religiosi portati al culmine ne Les Huguenots e Le Prophète e la contrapposizione di un’umanità che si afferma sopra ed aldilà di ogni ideologia nei personaggi esemplari come Valentine o Fidès continua certamente anche nel Vasco ed in particolare nell’ostentazione delle macchinazioni politiche della Scena del Consiglio nel primo atto. Ma alla fine ci troviamo non davanti ad una catastrofe storica di cui una Valentine o una Fidès diventano vittime, ma ad un albero magico, un’immagine abbastanza popolare fra i poeti romantici sin dall’inizio dell’Ottocento, che lascia morire l’esotica regina di una tale morte da sollecitare un confronto, superficialmente analogico, con il Liebestod alla fine del Tristan che vidi la sua prima mondiale un mese dopo la prima della sorellastra afro-indiana.
[1] Sulla prima versione dell’opera vedi l’articolo disponibile in italiano: http://proslambanomenos.blogspot.it/2013/11/venezia-ospita-una-indo-africana-1.html
[2] Si vedano le meravigliose analisi di Anselm Gerhard nel suo libro pionieristico The Urbanization of Opera. Music Theater in Paris in the Nineteenth Century.
[3] Sul passaggio dalla prima alla versione definitiva, si consulti la seconda parte dell’analisi sul blog proslambanomenos: http://proslambanomenos.blogspot.it/2013/11/venezia-ospita-una-indo-africana-2.html
[4] Si vedano le analisi del specialista e biografo di Meyerbeer, Sieghart Döhring: http://www.meyerbeer.com/sieghart.htm
[5] Si consulti il saggio di Albert Gier, “L’Africaine und die Ideologie des Kolonialismus” nella raccolta seguente sotto la direzione di Sieghart Döhring e Arnold Jacobshagen, Meyerbeer und das europäische Musiktheater.
[6] Come descritto da Edward Said non senza grande umorismo nei suoi libri epocali Orientalism e Culture and Imperialism.
Complimenti per il bellissimo ed interessantissimo articolo, veramente approfondito. Si attende con impazienza il seguito.
Sono curioso di sapere cos’ha combinato il Robertò Alagnà nazionale (o nazionalpopolare…) francese come Vasco.
Certo che pensare di programmare soprattutto “Le prophète” è impresa da far tremare le ginocchia e i polsi e tutte le parti del corpo in grado di tremare!
Io amo il grand-opèra e non mi vergogno di esternare tale amore. Il mio sogno proibito sarebbe di assistere ad una rappresentazione proprio del Profeta fatta come Dio comanda…. ma è un sogno impossibile e probitissimo! Se anche (impresa ai limiti dell’impossibile) si trovassero i cantanti (ed oggi non mi viene in mente chi sarebbe in grado di affrontare tale opera) cosa vedremmo per la parte visiva, che nel grand-opèra è per definizione importantissima (non dicevano che tale genere è l’equivalente ottocentesco ed operistico dei film di C. B De Mille?)? Difficilmente il bosco con il lago ghiacciato e l’accampamento degli anabattisti ed il sole che penetra dalle nubi ed illumina Munster sullo sfondo, o la cattedrale gotica (anche se notoriametne Munster ha una cattedrale romanica…) o, peggio ancora, il crollo del palazzo a seguito dello scoppio delle botti di polvere nera! Magari si farebbe una schifezza come quando l’opera era stata ripresa a Vienna anni fa con Domingo e la Baltsa (?!!!), con gli anabattisti travestiti da scimmioni, la prigione traformata in cameretta da IKEA e Jean che pigia un detonatore di dinamite sorridente ebete e beota…
Meglio riascoltarci Horne e Gedda!
Ciò detto, non posso che reiterare un’altra volta i miei complimenti per l’articolo molto approfondito (molto più di tanta roba che si legge in giro oggi, anche a firma di certi pseudo grandi nomi…).
Grazie tanto per i complimenti.
Dovrete aspettare la terza parte per la recensione dello spettacolo 😀
La registrazione della Horne con Gedda è davvero una rivelazione. E per me è quasi la cosa migliore che ha fatto Gedda…
Quell’edizione è la prova che quando un cantante ha una tecnica perfetta può affrontare, se ha la necessaria intelligenza – cosa che non tutti i cantanti, tenori in particolare (vedasi il giudizio dii serafin sul cervello da tenore) hanno – anche parti che sembrerebbero al di sopra ed al di là dei suoi mezzi naturali.
Gedda nasce come tenore lirico di grazia cantando Don Ottavio, Nemorino, Rodolfo etc., mentre Jean dovrebbe essere teoricamente una parte da tenore di forza nell’accezione ottocentesca, non per nulla era cavallo di battaglia di Tamagno.
Eppure, dopo 20 anni di carriera, con uno strumento diventato più possente ed una tecnica pazzescamente perfetta Gedda è riuscito ad affrontare tale parte, cantandola in modo straordinario. Senza alcun dubbio assolutamente superiore del Mc Cracken dell’incisione ufficiale (voce decisamente più brutta e tecnica decisamente più scarsa di Gedda).
Quanto alla tecnica si vede la buona scuola di Ohman, benchè in origine maestro ed allievo fossero due cantanti di tipo vocalemnte molto diverso. La prima volta che ho sentito Ohman interpretare Lohengrin ho riconosciuto subito da dove veniva la tecnica di Gedda: era lo stesso modo di cantare dell’allievo che, si vede, aveva imparato bene dal maestro.
Poi in quell’edizione torinese c’erano anche quelle due signore Rinaldi ed Horne così brave e l’orchestra di Torino che era una gran bella orchesta…. Ci sono dei tagli, ma, dato il risultato complessivo, ci si può passare sopra.
A proposito di tagli nel grand-opèra, non so cosa ci si potrà aspettare dall’edizione della Juive che viene annunciata a Lione per la prossima primavera nell’ambito di un autoreferenziale “festival pour l’humanité”, comprendente oltre al capolavoro di Halévy “l’imperatore di Atlantide” di Uhlmann e “Benjamin, dernière nuit” di tale Michel Tabachnik (l’opera di Lione ha il vizietto di fare questi mini festival, con grandi paroloni nel titolo, per solleticare l’amore francese per la retorica – libertè, egalitè, fraternitè e marron glacé – nel corso delle sue stagioni).
La cosa che fa pensare è che la durata complessiva dell’opera è indicata, sul sito del teatro, soltanto in 3h20 environ!!!!
Ciò, ovviamente, intervalli compresi, esattamente come la Zelmira di Novembre in forma di concerto, mentre l’inaugurale dannazione di Faust è 2h55 environ.
Conoscendo che La juive è un’operona in 5 atti e che la pur tagliata edizione viennese che si trova sul tubo è circa 3 ore e ricordando che l’incisione di De Almeida è 3 cd, viene da pensare che ci saranno tagli mostruosi.
Tagli che, ovviamente, non potranno che sfigurare la natura tipica di ciò che è il grand-opèra. Facile è prevedere che non ci saranno danze, grandi scene di folla, tagli a tutta quella parte spettacolare che del grand-opèra è caratteristica fondamentale. Forse vorranno trasformare l’opera in qualcosa che non è, accentuando l’aspetto socio-politico e lo scontro razziale e religioso al di là di quelle che erano le intenzioni di librettista e compositore (cosa che mi pare si sia fatta in altre edizioni recenti), ma così facendo si snatura l’opera stessa, aveendo presente ciò che il grand-opèra era e ciò che La juive ha rappresentato per l’Opèra.
Io amo il grand-opèra ma non mi va di vederlo sfigurato. Il Roberto il diavolo parigino di 30 anni fa, visto in video, era una delizia (poi con quelel voci!!!!), non so cosa potrà essere questa Ebrea
E c’è chi osa criticare Gavazzeni per aver tagliato gli Ugonotti!
Ebbi la fortuna di capitare a NYC anni fa per lavoro mentre andava in scena ‘Le Prophete’ al Met. McCracken, Horne, Scotto e J. Hines, dir. H Lewis. Andai due volte! Mi sembra che sul sito del Met è disponibile un video…
Grazie infinite per questo pezzo e i più sinceri complimenti
Da grande fan di Meyerbeer non posso che rallegrarmi per l’intenzione di riportarlo in auge, per quanto possibile. E’ senza dubbio meritorio, nonostante i risultati non siano spesso soddisfacenti. Faccio seguire alcune considerazioni a caldo.
La recente Dinorah (gioello d’opera che adoro e che se fossi sovrintendente farei allestire seduta stante, magari con la Pratt) berlinese è naufragata per la presenza di una Ciofi imbarazzantissima, totalmente afona e con una voce che dimostra 120 anni. Il resto era ok, ma l’operazione era piuttosto inutile visto che fa ancora testo la bellissima e curatissima edizione Opera Rara (o al limite, anche se non integrale, la versione in italiano con la Serra).
Concordo sul risultato nel complesso molto dignitoso e musicalmente entusiasmante (per chi ama questo repertorio) del Vasco da Gama di Chemnitz: bella direzione e cantanti, sconosciuti o quasi e non fenomenali, che però hanno preparato bene le rispettive parti garantendo nel complesso un lavoro di livello. Mi chiedo se i nomi blasonati avrebbero fatto di meglio… io credo peggio.
La recente Africaine veneziana è stata purtroppo funestata da tagli indecenti. Fortunatemente, tra l’edizione di Chemnitz di Vasco e quella con la Arroyo (con le appendici dall’edizione di San Francisco con la Verrett) per Africaine siamo messi abbastanza bene.
Per Le Prophéte esistono le edizioni con la Horne, che rimarrano certamente irraggiungibili. Non so, sinceramente, quanti siano i tagli e chiedo lumi se qualcuno ne fosse a conoscenza. (Le edizioni con Baltsa e Scalchi sono imbarazzanti).
Per Huguenots tra Bonynge, Diederich e poi Minkowsky siamo a cavallo. Se qualcuno avesse le registrazioni di Bruxelles con Cutler e Osborn e potesse/volesse condividerle, gliene sarei immensamente grato!!!
Per étoile du Nord e Robert siamo messi peggio purtroppo. Le due edizioni di étoile per Opera Rara sono molto tagliate sfortunatamente Per Robert, oltre alle edizioni parigine di Fulton e quella newyorkese di Merritt, c’è un’edizione quasi integrale di Minkowsky del 2000. Sarebbe però opportuno si colmassero definitivamente queste lacune.
Giuditta sarebbe bello recensissi lo spettacolo berlinese perché sarei curioso di conoscere gli esiti musicali e vocali Speriamo che la registrazione venga messa a disposizione a breve!
Grazie per i link suggeriti, li leggerò con attenzione. Il sito dedicato a Meyerbeer lo conosco ed è estremamente istruttivo
W MEYERBEER !!!!!
Pazienza, prima arriva ancora un po di filologia ed un’incondizionata apologia antiwagneriana di Meyerbeer. 😀 Alla fine è proprio perche lo spettacolo è stato cosi deludente che scriverne è stato la cosa meno interessante per me…
E si, viva Meyerbeer. Siamo in pochi, ma siamo forti e la verità è con noi 😀
Attendo con gran trepidazione carissima Giuditta
Immagino che lo spettacolo sia stato ben poca cosa e anch’io preferisco l’aspetto filologico in questo caso… però della curiosità (invero un poco maligna) sui cantanti lì a Berlino ce l’ho: son debolezze 😀
Scusa se mi ripeto, ma sapresti qualcosa riguardo ai tagli di Le Prophète? Sono cospicui nell’edizione con la Horne oppure no?
Grazie ancora Sì, noi meyerbeeriani conquisteremo il mondo 😛
Allora, quel che so è che nel Prophète della Horne è tagliata l’ouverture (che tra l’altro non mi piace affatto e preferisco che il sipario si alzi subito), poi, se ricordo bene, è accorciato il balletto (bellissimo anche senza pattini!), accorciato anche un po l’inizio del quartto atto con i borghesi spaventati. Nel quinto è tagliato il monologo di Berta dopo essersi accoltelata (si può ascoltare nella registrazione da Vienna) e pare ci siano stati tagli alla scena della festa. Poi, se ricordo bene, credo aver letto che anche all’inizio del terzo atto c’è un “tumulto” un po più elaborato…
Soprattutto in Germania qualche teatro provinciale ha già provato di fare il Prophète seguendo la nuova edizione critica, ma alla fine tagliano sempre e tagliano male. Magari mi è sfuggito qualcosa… In ogni caso, durante le prove il buon Giacomo si era accorto che c’era troppa musica ed ha preso la forbice…
Articolo splendido! Vorrei già leggere la continuazione. Circa l’ouverture del Prophète, sono d’accordo con Giuditta: l’opera è molto più suggestiva con il solo preludio e la fantasia per clarinetto. E del resto l’opera è stata eseguita sempre così (Meyerbeer la tagliò durante le prove). Il brano insolitamente lungo non venne più eseguito sino al 1866 dove ebbe 3 esecuzioni pubbliche che riscissero un buon successo, ma paradossalmente l’ouverture non venne mai pubblicata e andò perduta. Al momento dell’incisione di Lewis non ve n’era traccia nell’edizione a stampa. Solo con la revisione critica e lo studio dei materiali d’archivio il brano è stato ritrovato. Successivamente però alle incisioni.