L’ascolto comparato che oggi vi proponiamo mette di fronte, l’una all’altra, due tra le più eleganti, raffinate e forse meno conosciute bacchette della prima metà del XX secolo: il siciliano Gino Marinuzzi (1882-1945) e l’austriaco Oswald Kabasta (1896-1946), alle prese con la sinfonia de “La Forza del Destino”. L’intento questa volta non è quello di inveire su qualche direttore d’oggi smontando le sue presunte doti direttoriali confrontandolo con chi, davanti ad un’orchestra, sa o sapeva almeno battere il tempo e portare a conclusione la più banale delle ouverture donizettiane. Quello che oggi vorremmo fare è paragonare non solo due grandi, grandissimi direttori ma soprattutto analizzare le due letture che Marinuzzi e Kabasta danno della pagina verdiana. Due letture, come vedremo, diversissime, spesso antitetiche, ma che, inutile dirlo, dimostrano da entrambe le parti una solidità e una sicurezza di mestiere veramente d’altri tempi.
L’esecuzione del 1941 di Marinuzzi appartiene all’unica incisione integrale realizzata di un’opera, “La Forza del Destino” appunto, con il Coro e l’Orchestra della EIAR di Torino. Nel caso di Oswald Kabasta le informazioni sono invece molto più precarie. Incisa con i Münchener Philharmoniker, questa registrazione venne sicuramente realizzata tra il 1938, anno in cui assunse la direzione artistica dell’orchestra bavarese, e il 1944 quando fu costretto a fuggire in Tirolo dopo alcuni bombardamenti alleati a Monaco.
Fin dalle prime semiminime di Mi che aprono la sinfonia, appaiono chiare le diverse intenzioni dei due direttori: Marinuzzi, da un lato, pare optare per un suono più denso e corposo, decisamente più penetrante rispetto alla lettura di Kabasta che invece sembra preferire un’atmosfera più misteriosa e sfumata, meno penetrante certo, ma non meno suggestiva.
Le differenze non cambiano davanti al primo, celeberrimo tema: Marinuzzi, coerentemente con i primi accordi, ci offre una lettura di grande passionalità e slancio. L’orchestra ha un suono pieno e compatto tendente ad una gravezza del tutto assente invece nella lettura di Kabasta, molto più offuscata, malinconica e, va detto, più precisa e chiara nel suono, come dimostra infatti la conclusione di questa prima esposizione.
Negli sviluppi successivi della sinfonia verdiana Marinuzzi e Kabasta continuano a percorrere le loro rispettive strade già ben caratterizzate nelle prime battute, giungendo a delineare così due interpretazioni tra loro molto diverse. Nell’andantino che segue, ad esempio, Marinuzzi tira fuori il meglio di sé mostrando un raffinatissimo gusto melodico assieme ad una rara attenzione ai dettagli, alle piccole tensioni ritmiche e armoniche che nasconde questo passaggio caratterizzato dal delicato tema intonato dai flauti, clarinetti e oboi. Tema che Kabasta porta avanti invece attraverso una lettura tenue, più sottile di straordinaria delicatezza. Altrettanto delicato, in Kabasta, è il tema nel successivo andante mosso, quasi wagneriano nel tocco argenteo, purissimo e quasi gelido degli archi. Molto più mediterraneo e luminoso è invece Marinuzzi che, seguendo al presto successivo, riconferma la sua lettura possente e tonante con un suono di straordinaria compattezza.
Ed eccoci all’allegro brillante in mi maggiore del clarinetto e delle arpe. Marinuzzi, educato e cresciuto con la musica italiana da Geminiani a Puccini, mostra qui la sua vena più melodica e distesa che si traduce in una straordinaria morbidezza e, verrebbe da dire, liquidità della musica. Kabasta, forse anche per la peggiore qualità della registrazione, appare più pallido nel suono e pure, ma non credo per le stesse ragioni, meno slanciato e disteso.
Straordinario appare invece il direttore austriaco nella parte finale della sinfonia: l’eccezionale precisione metronomica, la perfetta attenzione alle dinamiche e la cura maniacale (forse troppo) per il bel suono, pulito, trasparente, privo di qualsiasi sporcizia e al contempo penetrante rendono questa esecuzione una vera e propria sorpresa.
Marinuzzi però certo non è da meno. Se ad esempio appare leggermente in difficoltà nella gestione degli equilibri sonori (il grande Marinuzzi è quello delle ouverture rossiniane, “Assedio di Corinto” in primis), riesce però a trovare una teatralità assolutamente penetrante e coinvolgente, lirica e passionale, mai retorica, offrendoci, come fa in egual maniera Oswald Kabasta, un’interpretazione che appare ancora oggi un vero e proprio gioiello della storia del disco.