Il consueto esito grottesco dell’inaugurazione del Festival Verdi, mi porta ad alcune riflessioni circa le ragioni della rassegna parmigiana e la natura dei festival in generale. Cos’è un festival? Cosa lo differenzia dalla normale programmazione stagionale? Quali sono le ragioni per dedicare ad un autore o ad un repertorio uno spazio così esclusivo? E infine, come declinare tali ragioni dalla teoria alla pratica? Tutti interrogativi che sorgono spontanei ad ogni ottobre, quando la prosopopea di un paesotto che si sogna metropoli, impone le pretese del suo provincialismo schizzinoso spacciandole per evento culturale di portata universale. Ogni anno la storia si ripete con lo stesso identico copione, ma con attori diversi, seppur tra loro interscambiabili: dalla provincia grassa e benestante che dà sfoggio di gioielli e scarpe lucide nel foyer del teatro, alle competenze più presunte che reali che agitano un loggione immaginato come depositario di una pretesa autorevolezza acquisita per jus soli, sino a quel “Viva Verdi” strapaesano che in fondo unisce tutto e tutti, facendo chiudere occhi e orecchi, nella paciosa indifferenza del contadino inurbato, magari di fronte a un piatto di tortellini e a una scodella di lambrusco. Ho vissuto qualche anno a Parma e questo è l’orizzonte etico ed estetico in cui si muove il festival in un calderone micidiale fatto di pretese irraggiungibili, arroganza, invidia e animus da sagra della cuccagna. Il resto è folklore: il loggionista incazzato che si ricorda di Del Monaco e ha ancora segnati da qualche parte i tempi cronometrati del suo “Esultate”, la signorotta impellicciata che attraversa le sale stuccate d’oro con l’alterigia di una Paolina Bonaparte e la grazia di una allevatrice di “nimél”, i giornalisti che sonnecchiano e sbirciano le cosce di qualche bellezza nostrana, gli entusiasti dal sorriso prestampato sul grugno che celebrano – a gratis – le magnificenze della Bayreuth padana, le associazioni liriche della bassa col torpedone parcheggiato dietro il teatro…e così via. Ogni anno è così. E allora c’è da chiedersi che senso abbia tutto questo. Perché un festival ha ragion d’essere laddove sia necessario riscoprire un repertorio dimenticato o maltrattato e bisognoso di un ripensamento critico e filologico, ovvero proporlo secondo crismi di eccellenza da farne un unicum a livello mondiale. Nulla di questo si percepisce nella rassegna parmigiana che – come si ripete ogni volta – non vanta una nobile tradizione (è istituzione recente), non applica alcun principio filologico nella completezza dei titoli o nella ricerca scientifica delle edizioni utilizzate, non presenta rarità o versioni sconosciute, non propone interpreti di levatura internazionale nelle voci o nella direzione. Alla fine è tutto un cantarsela e suonarsela da soli (e neppure particolarmente bene, visto il livello allarmante dell’orchestra) nel trionfo del provincialismo più ottuso, perché spettacoli come l’Otello inaugurale si potrebbero sentire in ogni piazza periferica o arena estiva, dalla pro loco di Offanengo al cineteatro di Roccacannuccia. Cosa aggiunge il Festival Verdi all’interpretazione verdiana in corso? Nulla. Ma c’è altro. Ha senso dedicare un festival al Verdi Giuseppe? Io credo proprio di no. Non me ne vogliano i verdiani militanti, ma se c’è un autore che non presenta lati oscuri del proprio catalogo, problemi esecutivi particolari, o interessanti inediti è proprio Verdi. Tutte le sue opere sono eseguite dappertutto (e meglio che a Parma) e i minimali dettagli di orchestrazione che differenziano le poche versioni di alcuni titoli non giustificano certo ricerche filologiche o interesse pubblico, così come le ormai conosciutissime prime stesure di Macbeth, Simon Boccanegra e Forza del Destino (tre opere tre). La cosa davvero auspicabile sarebbe, al contrario, una drastica riduzione della sua presenza sui palcoscenici teatrali: presenza che fagocita più della metà degli spazi disponibili e che ormai non è più una scusa per riempire i teatri (emblematico il caso dell’ennesimo Requiem a Milano). Oggi l’unico autore italiano che avrebbe bisogno di un vero festival (e non la sua caricatura bergamasca), di un vero rinnovato interesse e di un vero complessivo ripensamento, è il povero Donizetti. Non si può morire di Verdi…anche perché il mondo musicale va da tutt’altra parte: si sono aperti negli ultimi anni nuovi mondi, esplorati per la prima volta o ancora da esplorare (dal barocco al ‘900, compreso quello italiano così tanto bistrattato) e di nuovo siamo qui a perdere tempo con il Do (o il SI bemolle) della “pira”, la cavata verdiana, il baritono nobile, il Peppino nazionale che “pianse e amò per tutti” e scemate varie…ancora a prendere sul serio gli zum-pa-pa, i santini di Bergonzi o della Tebaldi, le espressioni trasognate e il cipiglio dei Muti di turno che imbracciano la bacchetta come la sciabola di La Marmora, nella parodia di un teatro da feuilleton ottocentesco. E’ ora di crescere e dire basta, perché se il ROF – privato della spinta della Rossini renaissance – arranca per non suicidarsi, al Festival Verdi dovrebbe essere concessa l’eutanasia…per far cessare le sofferenze sue e dei malcapitati che ne hanno cura.
31 pensieri su “Festival Verdi: accanimento terapeutico”
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Per il sottoscritto sia i festival che le stagioni d’opera dei teatri sono cose da Obitorio, perchè se è naturale che la scuola di canto sia deceduta per incapacità di produrre
nuovi cantanti, anche la scuola di direzione musicale arranca paurosamente.
La motivazione più importante è che codeste professioni
non valgono più il costo economico, anzi da spettacoli
godibili ad un ceto medio-alto sono passate ad un ampliamento solo della fascia di utenza, ampliata a dismisura, e quindi scesa di qualità in proporzione della
dispersione. L’esempio tipico è stato il concerto dei tre tenori.
Infine come qualcuno profetizzò: dopo di mè il diluvio.
E così è stato.
Un applauso a questo pezzo che condivido in toto!
Pena e disgusto per tutte queste istituzioni più morte che vive brave solo a sperperare denaro e ad autoincensarsi, pur allestendo spettacoli inutili e pessimi.
Poi bisogna dirlo chiaramente: se c’è un autore che non ha bisogno di un festival è proprio Verdi, così eseguito, così noto e, tristemente, così impraticabile oggi con le voci in circolazione (mica solo lui!).
Impraticabile direi di no..penso che la storiella della voce verdiana sia una fesseria ad uso parmigiano…anche perché le voci erano le stesse di Donizetti (che peraltro aveva formazione musicale molto più rifinita e completa…e, diciamolo, scriveva assai meglio).
Secondo me proprio non vale lo sforzo dedicare un festival a Verdi. Già lo eseguono sempre e ovunque (purtroppo)…e pure le opere più mediocri – e non sono poche. Ora è davvero il tempo di dire basta!
Caro Duprez, concordo sul festival Verdi. Sulla specificità parmigiana no. A Pesaro di fronte ad un Armida analoga, vecchio regista di grido senza mezzi e cast sotto la decenza e buca analoga per un opera che non potevano nemmeno sognars di allestire, la reazione fu identica. E alla scala va allo stesso modo. La differenza è solo nelle specificità locali ma…..è sempre lo stesso specchio di un paese che lentamente affonda senza che la gente ne prenda davvero coscienza. Non è crisi culturale perché le crisi passano. È crepuscolo, è fine di un mondo che non tornerà più e che il pubblico cerca di trattenere recitando ancora i ruoli di un tempo. Gli alibi hanno senso quando ci sono le alternative possibili. Le scuse vanno bene quando c è una professionalità di base cui si sta ancorati per far meglio la volta dopo. Ma qui non c è nulla su cui costruire o ricostruire, nemmeno la consepevoleza dei fenomeni più ampi di cui si è parte.
Il punto è la discordanza che da anni esiste tra i modi possibili per uscire da questo stato di cose e le reazioni che ne sono sempre seguite. Anziché perseguire un fare meglio, meno ambizioso, piu modesto ma di più alta qualita, si è avallato il far tutto e con tutti cercando di far passare cose indecenti per musica. Basta vedere ora la vicenda meyerbeer che non si aveva il coraggio di rappresentare con le star per farlo ora con le bestie da zoo. La comunicazione si è sostituita alla sostanza delle cose, ci ha persino insegnato a comportarci e fa pure la morale al pubblico che non si fa addestrare. A Parma non è accaduto nulla di diverso da Milano e da Londra. ..nulla. perciò non mi sento di deprecare. Un ultima nota:non vedo nemmeno possibili festivsl barocchi…perché se poi cantano i falsettisti o suonano certi complessi barocca. …beh, anche lì tutto va come in verdi. Smettere di parlare di arte o di cultura ormai sarebbe bene che tanto non esistono più.
Cara Giulia, non credo sia questo il punto: non è in discussione il livello sempre più scadente di certe piazze (e non sono tutte uguali, perché talvolta c’è anche impegno e ragionamento pur in momenti di crisi). La differenza tra il ROF e il Festival di Parma è sostanziale, aldilà degli esiti che, ad una prima lettura, possono apparire identici. Il ROF ha una storia alle spalle fatta di momenti esaltanti: la riscoperta di un catalogo di un compositore per troppo tempo relegato ad una manciata di titoli; l’istituzione di un organismo scientifico di grande serietà che ha effettivamente segnato una svolta nella fruizione di Rossini attraverso la predisposizione di nuove edizioni dei suoi lavori aggiornate criticamente, arricchite di tutte le varianti conosciute; il lancio di un nuovo modo di cantare (si pensi ai grandi ruoli tenorili)… Il ROF ha fatto la storia: ora arranca perché incapace di rinnovarsi o perché la spinta propulsiva della Fondazione è venuta meno o perché gestito in modo miope o perché schiavo di improbabili starlette, agenzie, interessi. Il livello scade, certo, ma un senso l’ha avuto. Il Festival Verdi no: è una rassegna insensata per un compositore che si esegue meglio ovunque (e lo si esegue fin troppo). Un compositore, poi, che non presenta problemi particolari di ordine critico e che non merita certo nuovi approfondimenti. In Italia soprattutto, dove tutti si sentono autorizzati a dar lezioni su Verdi. Il Festival Verdi è una sagra paesana che si autoproclama internazionale per dragare soldi pubblici: è una vetrina per salumi e prodotti tipici… E la cosa grottesca è proprio la prosopopea parmigiana nel credersi il centro del mondo.
Per il resto credo che ogni epoca abbia le sue peculiarità anche musicali: è inutile pensare di riportare indietro l’orologio a 100 anni fa…ci sono repertori che oggi non ci parlano più come ci parlavano un tempo e altri che – aldilà degli esiti che possono piacerci o meno (ma non importa il nostro parere) – attirano di più, interessano di più a prescindere dalla realizzazione. E’ indubbio che oggi la musica barocca sia in forte ascesa: a te non piacerà come viene eseguita – anche se non è concepibile che si esegua Bach, oggi, come lo si faceva 100 anni fa – ma è indubbio che interessa più dell’ennesimo Requiem verdiano. La Passione secondo Matteo in Conservatorio ha visto un quasi tutto esaurito, il Requiem verdiano a San Marco ha stentato a superare la metà dei posti. Non possiamo andare contro i mulini a vento e intestardirci a ripetere festival paesani cronometrando acuti o pensando ai 78 giri di un repertorio che si sta marginalizzando. Il mondo va avanti benissimo senza Parma e senza il Verdi da loggione. Io credo che si dovrebbero ripensare drasticamente gli equilibri teatrali. Se i teatri d’opera diventano uno zoo sul palco e un museo (o una casa di riposo) dall’altra parte, non stupiamoci se si trasformeranno a breve in un cimitero di elefanti. Perché chi vuoi che vada a vedere 3 volte all’anno – solo a Milano – il Requiem di Verdi? O la solita Traviata o il Ballo. E’ come se un negozio continuasse a vendere giacche a doppio petto quando nessuno ne compra più…
Verdi ha conosciuto alterne fortune in ambito musicologico: Casella ricorda che agli inizi del ‘900 era ritenuto sconveniente, nei conservatori, anche solo farne il nome. Poi la rinascita critica, la piena rivalutazione, la collocazione tra i massimi di ogni tempo ( infine, recentissima conquista musicologica, l’equiparazione a una giacca a doppiopetto che nessuno vuole più ). Personalmente non nutro una passione sviscerata per Verdi. Per dirne una: non sono mai riuscito ad arrivare in fondo a Nabucco, sicuramente per mio limite. Trovo Giovanna d’Arco opera decisamente mediocre e del tutto inopportuna la scelta di inaugurare una stagione della Scala con tale titolo. Aggiungo che ritenere Verdi il più grande operista italiano – come sento da più parti – è fare grandissimo torto a Monteverdi, per quanto valgano queste classifiche. Infine: anziché la stanca riproposizione dei soliti stravisti titoli ( non solo verdiani ) meglio sarebbe ripescare da Cavalli a Menotti passando per Provenzale Cimarosa Traetta e per la “musica proibita” di cui ai vostri meritori articoli. Detto questo rimane il dovuto rispetto nei confronti di un autore comunque gigantesco, malgrado Giovanna d’Arco & C. Un pilastro del repertorio e della vita operistica mondiale. Certi toni sommariamente liquidatori sono a mio avviso – per chi conservi un minimo senso del ridicolo – da rispedire al mittente. Chi riesca davvero a raggiungere la percezione della vera grandezza nell’arte sa che è d’obbligo – per semplice buon gusto e buonsenso – assumere vesti d’umiltà. Da ultimo parliamo di numeri: il sito operabase riporta un dato calcolato su 18511 allestimenti: Verdi al primo posto nel mondo con 3335 recite. L’opera più rappresentata? Traviata. Stranamente il teatro barocco, per qualcuno al vertice dell’odierna popolarità, è rappresentato da numeri ancora piuttosto striminziti ( e meno male che c’è Haendel, sennò saremmo alle classiche percentuali da prefisso telefonico ). Non esprimo giudizi, riporto dati che sarebbe bene consultare prima di sbilanciarsi su presunte tendenze attuali. Per quanto ciò possa sembrare strano è Verdi ( e non Leonardo Vinci ) l’operista più rappresentato al mondo. E poi Bizet, Puccini, Mozart, Wagner… I soliti, insomma ( o purtroppo ). Infine: il problema del museo o casa di riposo esiste: ma la colpa non è di Verdi ( che fece egregiamente la propria parte ) ma dei compositori contemporanei incapaci di riaprire un vero dialogo col pubblico, di convincere, coinvolgere, appassionare. Un’arte che riproponga esclusivamente il passato si gioca irrimediabilmente il futuro. E questo è il punto.
Che sia il più rappresentato non vi è dubbio…l’ho scritto a chiare lettere, proprio da questa diffusione invasiva ritengo la sostanziale inutilità e inopportunità di un Festival Verdi. Non cogli il fatto, però, che non parlo di classifiche impossibile, ma di capacità di rapportarsi al sentire di oggi. Del Verdi da loggione, coi suoi santini tenorili o sopranili, le fesserie su cavata e nobiltà, parlano solo fasce di pubblico in via d’estinzione. Chissà come mai quando si programma il barocco o Rossini o il ‘900 OGGI i teatri si riempiono più di quando replichi l’ennesimo nabucco … Poi cosa c’entrano i compositori contemporanei? Non ci riempi i teatri con Sciarrino…è ovvio. Lasciamo perdere i nostri gusti per un momento. Ma davvero senti il bisogno di ascoltare la millesima Traviata? E poi guarda la produzione discografica: qual’è il repertorio che ancora vende? Quale si incide ancora? Io dico il barocco, le rarità del melodramma italiano e i compositori riscoperti. Fino a 20 anni fa era impensabile che venisse inciso tutto il corpus operistico di Vivaldi, o tre edizioni dell’Ezio di Gluck, o Handel, o i maestri napoletani…ci sarà una ragione di tale massiccia operazione no? E pensa ad altri repertorio che gradualmente stanno tornando in auge, tipo grand opera e certo ‘900 (Opera Rara inciderà Zazà di Leoncavallo). E noi ancora a chiudere gli occhi in estasi come fa Muti quando spara le sue fregnacce sul Verdi che pianse e amò per tutti???
È un arte vecchia non per colpa dei compositori moderni anzi. Per me è una forma profondamente legata al mondo barocco per tutta una serie di motivi, e che è riuscita a sopravvivere nell ottocento. Oggi l opera è inadeguata ai nostri tempi sia per proporre il nuovo che per continuare ad alimentare il vecchio. Che Verdi sia il più rappresentato lo si sapeva ….basta vedere i cachet dai cantanti per desumere quali compositori sono i più richiesti
” Perché chi vuoi che vada a vedere 3 volte all’anno – solo a Milano – il Requiem di Verdi? O la solita Traviata o il Ballo. E’ come se un negozio continuasse a vendere giacche a doppio petto quando nessuno ne compra più…”
completamente d’accordo Duprez ,pazienza i nuovi arrivati o i “pigri”,ma c’è tanta di quella musica operistica da vedere e scoprire,ma i teatri hanno paura dei flop…..
Flop che, tra l’altro, si verificano regolarmente anche con il Verdi più popolare. Ripeto perché è emblematico: alla Passione secondo Matteo, la sala del Conservatorio era piena, pienissima (ed era un lunedì sera), al Requiem di Verdi in San Marco nemmeno per sogno. Nessuno si chiede il perché?..
Non so, Giulia, non credo che l’opera sia una forma d’arte “vecchia” di per sé: è una forma d’arte in evoluzione e lo è sempre stata, tra corsi e ricorsi storici. Nata come intrattenimento colto, sviluppata nelle corti per un pubblico elitario, poi popolarizzata nell’800 sino a tornare spettacolo elitario. E così parallelamente si evoluta la figura del compositore: da musicista di corte ad artigiano e poi artista. E in mezzo la tempesta di scuole nazionali, pubblici diversi, fruizioni differenti, contenuti musicali opposti… E la rivalità con altre forme di spettacolo che hanno diversamente catalizzato l’interesse del pubblico. Invecchiatissimo, invece, è il modo di porgerla, a partire dai goffi tentativi di “popolarizzare” un’arte che oggi è intrinsecamente elitaria (ecco perché sono fallimentari, oltre che esteticamente riprovevoli, le iniziative volte ad avvicinare il pubblico più vasto e generalista – quello della TV dei talent show e dei reality – al mondo dell’opera). Per questo credo si dovrebbe uscire da una prospettiva troppo italiacentrica (con l’opera intesa ancora come bottega artigiana) e cogliere quei repertori che possono interessare o interessano già il pubblico consapevole (non l’immaginario “nuovo pubblico”): e non è certo eseguendo tre volte all’anno, nella sola Milano, il Requiem di Verdi che ti rapporti al sentire del pubblico musicale, né incidento la Turandot con Bocelli. Le cose devono seguire il loro corso, senza accanimenti terapeutici appunto. Tornando al festival parmigiano, è proprio l’autoreferenzialità provinciale che lascia di stucco, unita all’insipienza di non tentare neppure di trovare nuove prospettive – se proprio Verdi dev’essere – per eseguire un repertorio stra abusato. Ancora si cerca un Otello che sbraita con voce scurita nel pallido tentativo di imitare Del Monaco, ancora si vuole da Jago la risatazza e il birignao…ma dove si vuole arrivare? Possibile che un festival deputato alla diffusione della musica verdiana – per quanto ridicolo possa essere l’intento – non riesca a ragionare sulla vocalità dei primi interpreti?
Anch’io non penso che l’opera sia una forma d’arte “vecchia” di per sé. Anzi, credo il contrario : ritengo ( e non sono il solo ) che l’opera sia spettacolo multimediale, potenzialmente modernissimo. Il guaio è che la gran parte dei compositori contemporanei adotta un linguaggio – segnatamente in Europa – totalmente incapace di coinvolgere il pubblico, di radicarsi nella società, nel mondo reale. Ad esempio: può darsi che mi sbagli ma mi sembra che qui nessuno abbia parlato dell’unica novità presente quest’anno alla Scala, ” Co2 “, preferendo rifugiarsi nelle consuete diatribe vociologiche. In sostanza: anche qui, come per ogni dove, del lavoro di Battistelli è importato davvero poco, per non dir niente. Più che anidride carbonica è stata acqua fresca. E’ come se in letteratura si scrivessero poesie unicamente nello stile di Giulia Niccolai o Edoardo Sanguineti, o romanzi in quello di Tommaso Ottonieri. Quanto pubblico avrebbe la letteratura? Quanto quello dell’opera contemporanea, cioè quello dei parenti più stretti dell’autore e della camarilla universitaria di complemento. Una questione di scelte stilistiche, non di vitalità del genere. L’opera rischia l’asfissia per mancanza di una produzione contemporanea in grado di convincere e coinvolgere . I motivi, filosofici e sociologici, per i quali si sia arrivati a questo punto sono a mio avviso ben chiari e francamente – proprio a causa di questi – non vedo ancora via d’uscita. Ma, ripeto, la colpa non è del genere: l’opera è una prodigiosa invenzione che – gradatamente e consapevolmente – il 900 ha voluto destrutturare e demolire. Pazienza. Personalmente da tempo preferisco ascoltare John Coltrane o Robert Fripp piuttosto che Nono Scelsi Sciarrino e noiosa compagnia. Ma una vitale produzione operistica contemporanea mi manca davvero molto e perlomeno vedrei di buon occhio la proposizione di quei titoli contemporanei che altrove, in USA soprattutto, tentano di superare l’impasse.
Usi il termine mulimediale per indicare quel concetto barocco e poi anche ottocentesco di opera d arte totale, miscela di componenti vocali e sceniche . Siamo sempre alla vecchia questione del contemplare le componenti. Distrutto il canto e i cantanti che ipera vuoi fare?
Beh, ci sarebbe anche quella cosa che si chiama musica…. A me la tua prospettiva pare eccessiva e decisamente italiacentrica, definendo opera solo ciò che secondo te è il canto.
E ci sarebbe anche quella cosa che si chiama drammaturgia…
Non sono d’accordo che non si debba consacrare un Festival a Verdi perché tanto “conosciamo già tutto”. Anche se non ci sono di mezzo inediti o rifacimenti, su qualsiasi autore c’è sempre qualcosa da scoprire e soprattutto da capire. Per dire, in un festival verdiano io ci metterei una rappresentazione del Lohengrin in italiano, per far sentire COME Verdi poté ascoltare Wagner. E altro ancora, con gli organi, con le bande, con pubblicazioni, con le scuole. Ci sarebbe un mondo di cose da fare, ogni anno, per Verdi. Il punto è – e qui l’autore ha ragione – che nessuna di queste cose si può fare a Parma. Perché ci vogliono soldi, idee, apertura mentale, capacità di innovazione, gente capace: tutta roba che a Parma latita da un bel pezzo, se mai c’è stata. Ho lavorato per qualche tempo al Regio: a parte qualche luminosissima e dunque bistrattata eccezione, ho visto e toccato una grettezza culturale disarmante.
Più di un Lohengrin in italiano, un Festival Verdi avrebbe senso se riferito al mondo musicale che girava intorno a Verdi: penso ai tanti compositori che si riferivano a Verdi per imitarlo o per contestarlo. C’è ad esempio un titolo che meriterebbe un approfondimento storico: parlo de “I Goti” di Gobatti…l’opera che venne salutata (anche da Boito, quando era antiverdiano) come il maggior esempio italiano di musica dell’avvenire. Ecco: un festival che proponesse “I Goti”, il Lohengrin nella versione che circolava in Italia all’epoca (con le varie manipolazioni che lo semplificavano in melodramma) e qualche concerto a tema, avrebbe una dignità culturale e un interesse vero.
Anch’io pensavo ai Goti: per mostrare come all’epoca di Aida in Italia l’opera fosse talmente morta da aspettarsi qualcosa addirittura dal pessimo Gobatti, e quindi per far capire le ragioni che hanno portato Verdi ad essere così celebre e celebrato già in vita. Ma per fare queste cose, bisognerebbe ragionare. E a Parma non usa.
Eh sì, più ad un festival Verdi – che per me resta inutile se dedicato esclusivamente ad eseguire il suo repertorio, già eseguito ovunque e meglio – l’occasione sarebbe un festival INTORNO a Verdi, al suo mondo, alla musica che si eseguiva normalmente, così da cogliere l’eccezione verdiana o i suoi legami coi contemporanei. La storia di Gobatti sarebbe un grande spunto di riflessione. E poi ho sempre avuto la curiosità per quest’opera salutata come un capolavoro del futuro e sparita nel giro di pochi anni nel dimenticatoio. Occorre ragionamento, intelligenza e visione…tutte cose che a Parma mancano. Nella dirigenza come nel pubblico col suo loggionismo bieco. Prova ne sia il triste concerto di Kunde con deliri da circo, urla inneggianti a Verdi, DO della pira bissato (solo il do) dopo un bel respiro, ad uso dei cronometri dei verdofili…
La curiosità è sempre buona cosa, ma in questo caso è molto mal riposta: I Goti è un’operaccia mal scritta. Non mi faccia dire come faccio a conoscerla, perderei l’anonimato. Comunque sul festival da dedicare a Verdi abbiamo idee simili; aggiungo che non mi capaciterò mai di come Parma abbia potuto fagocitare la memoria di Verdi, stante che il Peppino non ha avuto nessun rapporto artistico (tranne una ripresa di Ernani) né d’altro tipo con quella città. Un festival verdiano dovrebbe se mai svilupparsi tra Milano, Venezia e Genova.
Verissimo: questo accaparramento di memoria è storicamente inspiegabile, atteso che a Parma, Verdi neppure c’è nato! Ma da benissimo il senso e il valore (tutto turistico e commerciale) di un’iniziativa del genere. Quello che manca è l’apparato scientifico che dovrebbe valorizzare culturalmente una rassegna che oggi è insensata. La curiosità per I Goti, tuttavia, non dipende dall’aspettativa di ritrovare chissà quale tesoro nascosto (ho trovato in rete alcune parti della riduzione per canto e piano dell’opera e del livello mi sono fatto già un’idea), ma dalle possibilità che una sua riproposizione critica possa contribuire all’approfondimento di un periodo paradossalmente molto oscuro della storia musicale nazionale: scuro perché la luce verdiana ha offuscato (comprensibilmente) tutto il resto. Oggi che del grande repertorio sappiamo quasi tutto, conosciamo i suoi titoli nella loro perfetta integralità e con tanto di numeri alternativi e versioni successive, ben potremmo ragionare su altro: il sottobosco dei minori (senza aspettative o chiasso da capolavoro ritrovato) o la fruizione di capolavori veri in determinati periodi. Capisco di andare fuori tema, ma in altri ambienti trovo una maggiore curiosità e fiducia: recentemente in Francia è stata eseguita e incisa una versione ottocentesca in francese del Flauto Magico dal titolo “Les Mysteres d’Isis” che in realtà è un pastiche di musiche mozartiane e non che trae spunto dall’opera di Mozart con altri personaggi, così pure è stato riproposto a Versailles il programma d’un concerto tenutosi realmente alla fine dell’800 con il solo atto III dei Meistersinger in francese (e con diversi interventi). Ancora ho letto che in Germania la critica si è interessata alla versione approntata da Puccini dei Meistersinger, in italiano e con pesanti tagli così da ridurla anche ideologicamente ad un più semplice melodramma. Operazioni, queste, che non sono delitti, ma testimonianze storiche di un tempo. Forse invece di riproporre l’ennesimo Otello alla Del Monaco (perché a Parma neppure hanno cercato di approfondire la vocalità di Tamagno e provare un’esecuzione coerente con la volontà verdiana) senza ovviamente disporre di un nuovo Del Monaco, sarebbe stato meglio indagare nella prassi e nel sommerso.
Secondo la logica che vorrebbe un festival verdiano svilupparsi tra Milano Venezia e Genova un festival rossiniano si dovrebbe fare tra Venezia Napoli e Parigi, un festival pucciniano tra Torino Milano Brescia e New York, un festival donizettiano un po’ dappertutto. Basterebbe che si mettessero d’accordo…
vista la vicenda umana e compositiva di rossini ci metterei pure Bologna e per le opere brutte di Donizetti, Palermo visto il triste periodo al teatro Carolino. Se Palermo non piacque a Donizetti significa che anche le puttane erano scadenti!
Insomma Gianmario: Rossini a Pesaro ci è nato, come Donizetti è nato a Bergamo. Puccini aveva a Torre del Lago la sua dimora prediletta. Parma che c’entra con Verdi? Nulla: non ci è nato, non ha mai composto nulla per il teatro della città, non ci ha mai fissato dimora o costruito ville, neppure ci studiò! E allora di che stiamo parlando?
Difficile non percepire Verdi come uno di Parma ( anche se è nato a ben 40 km di distanza ). Quanto c’entri Parma con Verdi lo può dire anche la vicenda di Gobatti ( opera che anch’io sarei molto curioso di vedere in teatro, magari in sostituzione di un’ennesima e inutile Traviata o Lucia o Tosca ). Si deve tirare in ballo il campanilismo italiano: il fatto che Bologna diventi, a un certo punto, la più importante piazza wagneriana d’Italia ha molto a che fare col fatto di percepire il nome di Verdi come legato a Parma. Wagner in quegli anni voleva dire, specie in Italia, essere contro Verdi, ritenuto esponente di un’arte vecchia, primitiva, sorpassata. Troppo allettante per i bolognesi. Il nesso Verdi – Parma era evidente già da allora come lo è – a mio avviso – oggi: sembrerebbe un’ovvietà ma pare che non sia così ( che poi a Parma facciano pessimi festival è un altro discorso ). E qui s’inserisce il trionfo tributato a Gobatti il quale, illudendosi di essere un compositore per davvero, alla resa dei conti coi limiti del proprio talento fece una fine miserrima. Ma non c’è dubbio che la sopravvalutazione fu dovuta al clima antiverdiano che pervadeva la città, clima che a Bologna era esacerbato per motivi campanilistici, per antagonismo nei confronti di Parma, la patria di Verdi.
Guarda che la vicenda Gobatti con Parma non c’entra proprio nulla. Peraltro Parma era allora (come adesso) una piazza minore, periferica e di terza scelta…non poteva esserci una rivalità con nessun’altra città importante e meno che mai Bologna. Lo so che i parmigiani credono di essere il centro del mondo, ma la loro presunzione è solo grottesca. Verdi non è mai stato percepito come compositore di Parma. Il successo di Gobatti non deriva certo da rivalità campanilistiche, ma da un presunto wagnerismo ravvisato da chi non aveva mai sentito neppure una nota di Wagner.
Sopra mi riferisco ovviamente alla prima dei Goti a Bologna.
Ricostruzione molto acquosa. Nello spartito dei Goti non c’è nulla di wagneriano, ma nemmeno a prenderlo per i capelli. D’altronde il Gobatti, a Genova, andò a cercare la benedizione di Verdi: e non la trovò. Si legga quello spartito… dal terzetto dei bassi al finale, tutto un richiamo tardivo e mal cucito al Verdi di 30 anni prima.
Quanto a Parma, sono semplicemente dei geni del marketing (con una o con due “t”, veda lei). Dedicarono un monumento a Verdi quando lui era ancora in vita, e divideva la sua vita privata tra Milano, i paesoni della bassa piacentina e Cremona. Che Verdi fosse percepito, negli anni ’70 dell’800, come “il compositorie di Parma” opposto a Bologna è pura fantasia.
Certamente nei Goti non c’è nulla di wagneriano ma prescindere – analizzando il caso Gobatti – dalla polemica tra wagneriani e verdiani ( e dalle vicende derivanti dalla competizione tra Casa Ricordi e Giovannina Lucca ) significa fraintendere l’intera storia. I Goti non contengono nulla di wagneriano ma, come osserva correttamente Duprez, fu opera percepita come wagneriana da chi su Wagner aveva idee confuse e, aggiungo io, cui premeva – e qui torniamo al punto – imbastire una polemica antiverdiana. Lo stesso Gobatti si sentì in seguito di doversi “discolpare” dall’accusa del presunto wagnerismo dichiarando che tale non poteva essere conoscendo nulla di Wagner all’epoca della composizione dei Goti. Ma wagneriano fu percepito e come tale, a suo danno, strumentalizzato. A me non risulta che egli cercò la benedizione di Verdi. Fu Verdi che, durante la ripresa dei Goti a Genova, intese conoscere il presunto astro nascente, probabilmente anche su preghiera di Giulio Ricordi (nel tentativo di acquisirlo in scuderia). Gobatti già partito per Torino non poté – non per propria volontà – incontrare Verdi, che se la legò al dito. Infine riconosco come fondata l’osservazione di Duprez: la piazza di Parma d’importanza tale da non suscitare rivalità con Bologna. ( Rimango comunque della convinzione che una componente di campanilismo, almeno nei confronti di Milano, abbia giocato un ruolo nella vicenda ).