Una lettera da Copenhagen. Riflessioni circa la Donna senz‘ombra di Richard Strauss


Cara Giulia,
Ti scrivo dopo un interessante viaggio nel Nord del nostro continente per comunicarti le mie impressioni ricevute dalla mia visita al nuovissimo teatro d’opera dell’austera ed elegante capitale di Danimarca. Essendo un’ignorante per quanto riguarda l’architettura e soprattutto quella contemporanea (non è facile la vita nel secondo millennio per uno spettro del primo Ottocento!), all’inizio del mio viaggio la nuova opera di Copenhagen, inaugurato nel 2005, era per me tutt’altro che una destinazione assolutamente da vedere (o da sentire…). Ero invece più curiosa di andare al teatro di prosa, anche quello trovandosi in un nuovo edificio molto moderno, per seguire in danese la Hedda Gabler di Ibsen. Ha voluto il destino che i biglietti per Ibsen siano stati esauriti e che non mi fosse rimasto altro che andare all’opera per ascoltare la Donna senz’ombra di Richard Strauss. Vedendo i nomi dei cantanti principali, ho ceduto con profondo scetticismo alle lusinghe della cassiera e ho deciso di dedicare 4 ore di quei pochi giorni che avevo in Danimarca per ascoltare un capolavoro molto problematico con un cast problematicissimo, in un teatro però che ha superato tutte le mie aspettative…
Dalla cassa mi sono immediatamente recato alla barca che doveva portare i membri del pubblico sull’isola di Holmen davanti al teatro d’opera. Quasi uguale al vaporetto per forma e funzione, il viaggio in barca verso l’opera ha per un momento reso reale l’epiteto di Copenhagen, “la Venezia del Nord” (in cui – per cautela – l’accento dovrebbe porsi più sul “Nord” che non su “Venezia”…).
Cop1 Da fuori il quadrato grigio non prometteva nulla di molto diverso da tutti gli altri quadrati grigi che popolano la riva lungo tutto Copenhagen o tante altre città che vantano di essere il paradiso dell’architettura moderna. Eppure, entrando al teatro, prima si rimane impressionato dal foyer (tutta vetro e marmo) che non è altro che uno spazio unificato che circonda circa quasi più della metà posteriore della sala e si espande su quattro piani da cui si accede alle gallerie, mentre guardando verso l’esteriore attraverso il muro fatto tutto di vetro si lascia ammirare una delle viste più belle sulla città sia verso il centro che verso il porto. Questa costruzione avviluppa la sala che dal foyer sembra una zucca gigantesca per la sua forma rotonda ed il colore bruno. Bruno perché sia l’esteriore che l’interiore della sala sono fatti dalla più nobile quercia verniciata.
Cop Alla luminosità del foyer la sala contrappone un mezzo buio che rimane il massimo livello di luce anche durante gli intervalli e con cui si accenta ancora di più il carattere saturato, maestoso, auratico di questo capolavoro di sala da opera. Pare che lo stile di questa meraviglia si chiami architettura neo-futurista. Finché funziona… Perché, sai, dopo lo sperimento riuscito di Bayreuth, ne abbiamo avute tante delle sale “del futuro”, fino all’opera di Bastille inaugurato con tanto chiasso nella nostra amata Parigi e che alla fine è una casseruola smisurata, brutta e dall’acustica assolutamente indecente.
Nel teatro di Copenhagen non è solo il design, ma anche e soprattutto l’acustica che risulta esemplare e che potrebbe essere l’ultimo argomento a giustificare le somme astronomiche (più di 500 milioni di dollar…) che questo ambizioso progetto è costato ad una città altrettanto ambiziosa e vanitosa a modo suo, inappariscente. La fossa è allargabile secondo il bisogno. Per questo il buon centinaio di orchestragli che suonavano lo spartito monumentale di Strauss aveva uno spazio ampio inimmaginabile in qualsiasi altro teatro d’opera moderno o no. Siccome l’acustica lascia liberamente espandersi il suono di ogni strumento è particolarmente necessario che vi sia un direttore che penserebbe a sintonizzarli al massimo. Invece, non sempre riesce il direttore artistico della Royal Danish Orchestra, Michael Boder, di mantenere il necessario bilancio fra i vari gruppi di strumenti quando l’orchestra si scatena nelle parecchie eruzioni previste dal violentissimo spartito. Per il resto abbiamo ascoltato una concertazione di alto livello, da un lato grazie ad un’orchestra molto professionale e, d’altronde, grazie ad un direttore che non essendo un genio, è comunque un solido routiniere. Non è mai mancata né l’opulenza sonora che in Strauss cosi spesso si avvicina ad uno spessore a tratti soffocante, né i momenti lirici sempre molto curati da parte dei rispettivi solisti strumentali.
Poi c’è la concezione drammatica e musicale della Donna senz’ombra che è per se un grande problema e che non si lascia risolvere da nessuna direzione, regia o esecuzione vocale comunque geniali. Si tratta di un problema che andrebbe spiegato guardando alla collaborazione di Strauss e del suo librettista Hugo von Hofmannsthal che, accanto al rapporto Mozart-Da Ponte, rimane un esempio inarrivabile di tandem operistico. Un progetto menzionato nella loro corrispondenza (che è uno dei documenti culturali più importanti della loro epoca) per la prima volta già nel 1911, è divenuto la quarta opera uscita dalla collaborazione dei due geni dopo Elektra (1909), Rosenkavalier (1911) e Ariadne auf Naxos (1912/1916).
Artisti producendo in un’epoca noleggiata dall’eredità wagneriana, Strauss e Hofmannsthal sono la perfetta rappresentazione di un tentativo di mantenere e variare i principi del teatro wagneriano togliendone la pretesa di essere un rito nazionale-religioso, espressione, formazione esteriore di un’essenza nazionale che, secondo il discorso teoretico di Wagner, “dorme” nella fantasia dell’autentico artista e ha solo bisogno di essere svegliato, trasmesso in una forma che, per necessità della cosa, trascende i limiti e le convenienze del teatro lirico tradizionale, perché esso ha perso il legame alle radici popolari-mitologiche, alla “vera” creatività, e si è soggiogato al potere del denaro, alla superfluità, ad un lusso sradicato, insomma al principio “ebreo”… Pur mantenendo i principi wagneriani nelle opere come Elektra o appunto la Donna senz’ombra, Strauss e Hofmannsthal serenamente reintroducono la divisione di lavoro fra compositore e librettista che Wagner (non senza pagare un certo prezzo di dilettantismo e prolissità) aveva riunito nella sua figura monumentale di artista totale. Ogni pagina della loro corrispondenza svela un “lavoro”, una “fabbrica” in cui due uomini tessono una riflessione permanente su come trovare il loro posto sul mercato artistico, come entrare con più successo nel “repertorio” fisso, come creare opere che piacerebbero al pubblico senza farli troppe concezioni, in breve come trovare il buon equilibrio tra serio lavoro artistico e acclamazione generale – un approccio che sarebbe stato un incubo per un Wagner che rivestiva il ruolo dell’artista incompreso, perché nemico di qualsiasi compromesso, che cercava o almeno nutriva l’ideologia di un teatro straordinario, festivo, per principio eccetto dal repertorio stagionale.
Wagner, con tutto quello che c’è di reazionario in lui, era ancora profondamente proattivo nel aprire un discorso ed una forma artistica tutto nuovi per configurare il nazionalismo tedesco dagli anni 1860 in poi ed anche malgrado la caduta della rivoluzione sociale del 1948/49 in tutta l’Europa, poteva ancora permettersi di avere l’illusione di produrre un’arte che sarebbe capace di configurare e condurre la politica. E’ anche la profonda ambiguità dello stato economico dell’artista Wagner che ha reso possibile quei geniali documenti megalomani che sono le sue opere e non da ultimo Bayreuth – e più il fatto che Bayreuth si sia realizzato che non l’esistenza del progetto stesso… “Dio e mendicante” in uno, come diceva Adorno, Wagner poteva permettersi di scrivere opere senza ogni prospettiva immediata di rimunerazione ed alla fine farsi erigere un teatro tutto suo, perché rifiutando di accettare le regole del mercato, riusciva di mantenere la sua vita e finanziare i suoi impossibili progetti grazie all’aiuto permanente di vari mecenati ed ai principi sociali ed economici che si tenevano sistematicamente al limite del legale (prestiti non ripagati, la macchinazione finanziaria che è stato il progetto di Bayreuth, un avventuroso ruolo politico sia durante la rivoluzione che presso alla corte di Ludwig).
Strauss e Hofmannsthal invece sarebbero reazionari in un senso molto più debole in quanto si trovano difronte ad un’epoca segnata da una tale violenza che per un artista come per qualsiasi individuo non vi rimane più nessun spazio per nutrire anche la minima illusione di potere influenzare gli eventi politici, le tendenze economiche, divenute globali e sempre più complessi e gravi nelle loro conseguenze e nei loro rapporti. Avere le stesse ambizioni di Wagner sarebbe stato non solo l’espressione di uno spirito assolutamente reazionario, ma anche di un grottesco inesorabile (mentre il grottesco che colla all’eroismo wagneriano fa parte integrante del segreto della sua sopravvivenza fino ai giorni nostri). E’ cosi che in mezzo alla Prima Guerra Mondiale che ha accompagnato il lavoro su una gran parte della Donna senz’ombra, Strauss suggerisce al suo librettista di rifuggirsi nel “lavoro artistico” e di lasciare la politica agli altri.

A parte l’aspetto politico, questi due “lavorano” – scrivono, fanno teatro – per guadagnare il pane quotidiano ed è quello anche il vocabolario con cui si mettono a produrre insieme dei successi stabili che al contempo rappresentano una novità indiscussa e mantengono un chiaro e positivo rapporto con la tradizione. Strauss sogna di fare “qualcosa come I Maestri Cantori”, eppure è abbastanza lucido per scrivere a Hofmannsthal nel 1927 questa confessione tanto serena quanto prammatica: “Il fatto che le nostre opere (anche se Lei non è Schiller e che io non sono Richard Wagner) si tengono nei cartelloni da 20 anni ormai, perlomeno significa che comunque non c’è di meglio.” Rosenkavalier è concepito come una risposta (non imitata, ma comunque analoga al) Figaro di Mozart, e la Donna senz’ombra è pensata come un nuovo Flauto magico, un conto fantastico, allegorico, naïf, che dipinge l’educazione all’umanità.
Eppure, il Flauto magico, a parte di essere un minestrone di simboli, allegorie e morali, è caratterizzata da una vera ingenuità e semplicità musicali, mentre la Donna senz’ombra soccombe alla propria smisurata sovrabbondanza sia delle dimensioni temporali che della complessità del tessuto musicale e drammatico, un’opera super-wagneriana fino all’impossibile per esuberanza impenetrabile dei simboli, per la radicalità della scrittura vocale (con salti di ottave che neanche Abigaille…), il tutto soprassaturato un’altra volta con l’accumulazione di innumerevoli ruoli minori, di cori off-stage e soprattutto con l’espansione della scrittura musicale-vocale dal modello wagneriano di dialogo fra orchestra e voce individuale (o al massimo fra due voci soliste, con l’eccezione del terzetto di congiura del Crepuscolo o dei solisti “di massa” come le figlie del reno, le valchirie ed i vari cori) a quartetti e settetti di voci drammatiche portati al limite, più coro ed un vulcano di orchestra. C’è troppo di tutto, con buona pace di Meister Strauss che ha creduto di fare il suo meglio per mantenere il giusto equilibrio “fra troppo poco e troppo”. Peraltro, siccome Strauss è cosciente del triste fatto che nonostante la più nitida pronuncia, una gran parte del testo dell’opera rimane per forza inudita dal pubblico, diventa assolutamente indispensabile che in mezzo a tanto fracasso orchestrale e polifonia vocale la declamazione dei solisti sia sostenuta da una dizione impeccabile (per cui, ad esempio, il ruolo importantissimo della Nutrice è stata affidata all’ex-soprano drammatico wagneriano Lucie Weidt).
Di dizione neanche una traccia nella recita che ho ascoltata a Copenhagen, nemmeno nei passaggi di scansione prosaica come accade con qualche frase della Moglie e dell’Imperatrice! L’unica cantante ad avere mostrato un minimo di solido professionismo è stata la provata Linda Watson nel ruolo della Moglie, uguale a stessa da almeno due decenni con la sua voce spessa, pesante, sempre leggermente stonata, priva di una chiara articolazione e di qualsiasi originalità o carisma artistica, ma mai soccombente dal punto di vista di resistenza fisica. E’ stata l’unica partecipante di non essere “di casa” all’Opera di Danimarca e, cosciente di essere quella con la più importante carriera internazionale rispetto agli altri, ha generosamente accettato gli applausi del pubblico con un atteggiamento da diva. Per venire ai “prodotti locali”, ho dovuto seriamente pormi la domanda chi è che deve cantare nel futuro in questo teatro del futuro?… Del tutto incomprensibile la dizione dell’Imperatrice Ann Petersen, un lirico pieno che canta da lirico-spinto o da drammatico grazie ad una voce artificiosamente slargata, producendo colorature ed acuti steccati nei primi due atti per lasciare fuori tutta la voce nel terzo che è l’atto dell’Imperatrice, esponendo uno strumento piuttosto importante, ma offrendo una prestazione gravemente handicappata dall’inesistenza della dizione che sono la ragione d’esistenza sia dello Sprechgesang che del parlato patetico che Strauss ha voluti. Inesistente non solo per dizione ma anche per voce e presenza l’Imperatore del svedese Johnny van Hal che si autopresenta jugendlicher Heldentenor, mentre in teatro fa sentire uno strumento che negli acuti (e l’Imperatore quasi non è altro che primi ed estremi acuti) è letteralmente inudibile, quando produce suoni senza steccare, ed il cui timbro farebbe più pensare ad un anziano caratterista che non ad un tenore eroico, jugendlich o schwer. Indecente la Nutrice del “contralto” Susanne Resmark: anche qui assolutamente incomprensibile il testo (ed il ruolo non è altro che declamazione!), gola e suoni sordi nel registro di petto, buco sul passaggio ed un registro acuto del tutto sbiancato, usurato e ridotto di volume, anch’esso in un ruolo che deve imporsi non solo con dei gravi cavernosi, ma anche con acuti saldissimi. Molto ridotto rispetto a quanto sentito da me più di 5 anni fà alla Deutsche Oper di Berlino il Barak del baritono danese Johan Reuter. Pur essendo il ruolo più “cantabile” rispetto agli altri protagonisti, Reuter è sistematicamente in pericolo nelle frasi acute e dimostra un timbro e peso che sarebbero adatti più a Mozart che al Verdi, Wagner e Strauss drammatici. Nei ruoli minori che sono voci di vari spiriti o istanze sovrumane abbiamo udito una serie di giovani dalle voci potenti e fresche, ma durissime per come sono condotte, preannunciando un presto declino nelle mani di maestri, direttori, registi ed agenti sordi.
Quale minimum di consolazione, è stato nel complesso apprezzabile il lavoro scenografico sotto la guida del ex-direttore artistico del teatro Kasper Holten. Condivisibile il suo approccio descrittivo ad un’opera che brulica di mondi paralleli, personaggi divini, umani, quasi-umani, animali, nati e non nati, di simboli dischiusi solo a metà ed una giungla di connessioni leitmotiviche. Si cura di ben definire sul palcoscenico le differenze fra i vari spazi geografici (mondo terrestre/mondo etereo) o mentali (realtà/sogno); risulta un po kitsch il tentativo di distinguere i personaggi con dei vestiti massimamente diversificati gli uni dagli altri (jeans e t-shirt per Barak, per la Moglie cenci rossicci da classica Färberin, un vestito piuttosto anonimo per la Nutrice, tutto in bianco e tenuto molto semplice per la coppia imperiale, con corone da kindergarten). I vari cori e le varie voci sono piazzati sia dietro le quinte che dietro l’ultima galleria, producendo un’impressione differenziata in mezzo a tante profezie, intimazioni ed ammonizioni. Risulta al contempo descrittivo e molto spettacolare l’uso sistematico delle proiezioni video con cui viene illustrato il personaggio del falco, le varie salite e discese fra i mondi. Si suggerisce un mondo popolato di persone ed oggetti da fumetti fatti tutto di ombre e luci bianco e neri. Vediamo anche Keikobad, il padre dell’Imperatrice, quell’assente punto di concentramento che domina l’intera azione.
La cosa più imbarazzante della parte visiva è stato il finale con un paesaggio alla Caspar David Friedrich, veramente al limite del kitsch, che s’illumina durante la riconciliazione delle due coppie, come anche risulta di gusto molto dubbio la scelta di illustrare la riunione del mondo divino-etereo con quello umano attraverso la presentazione del celebre frammento delle ditta che si avvicinano dalla Creazione di Adamo di Michelangelo. A dire il vero, è insopportabile il finale per se, quella gara di urla, quell’apoteosi tanto interminabile quanto improbabile, tanto fracassona quanto vuota e formale, di un formalismo intuito anche da Strauss stesso che si lamentava di essere incapace di scrivere musica appassionata al pari dell’immortale terzetto finale del Rosenkavalier su un testo allegorico ed astratto come quello del quartetto finale della Donna senz’ombra. E’ proprio dopo questa tour de force doppiamente e triplicemente wagneriana per produrre un’opera senza le pretese ed il contesto politico-mitologico corrispondente alla magniloquenza della forma wagneriana, che Strauss, sostenuto in questo da un recalcitrante wagneriano come Hofmannsthal, ha giurato il suo “mai più!” difronte alla “frega wagneriana”, alla “corazza wagneriana” che nella Donna senz’ombra arriva ad uno stato tanto di limite quanto superflua. Anche se l’ambizione, piuttosto quella di Hofmannsthal, di essere autori dell’”ultima opera romantica” nel anno della prima rappresentazione 1919, ha dovuto essere delusa da un’opera ancora più “ultima”, come la Turandot nel 1926, è proprio il bagaglio wagneriano, quel carattere vago, riboccante del teatro totale mitologico che, malgrado le capacità fisiche sovrumane che richiede, la Donna senz’ombra rimane inamovibilmente nel repertorio dei teatri lirici come i drammi musicali wagneriani, mentre, come già argomentato nella mia recensione sulla Daphne, sono molto sottorappresentatw le opere “post-wagneriane” di Strauss che ridà alla voce umana il posto principale, che si tratti dello sperimento col “parlato tedesco” di mezzo carattere che è Intermezzo o delle scritture vocali spianate ed ornate negli ulteriori lavori prodotti in collaborazione con Hofmannsthal o, dopo la sua morte, con Stefan Zweig e Joseph Gregor. Non si tratta di capolavori inferiori alla Donna senz’ombra, ma hanno lo svantaggio di dovere essere cantati e di non offrire rifuggi dietro orchestre assordanti o declamazioni “espressive”.
Ti chiedo ancora una volta scusa per la mia prolissità addirittura wagneriana, ma, francamente, cara Giulia, più una recita vista da me è privata di impressioni positive, più sento il bisogno di riflettere sul perché della sopravvivenza del lavoro rappresentato. Perché, tanto, la critica che facciamo noi non è mai una relazione pseudo-distaccata di una rappresentazione, ma sempre anche una critica che prende partito e che questiona le ragioni della creazione di tale brano, delle mutazione della loro ricezione, dei gusti, degli stili, e, finalmente, dello stato attuale del teatro lirico che è morta, morta almeno dai tempi di Strauss, ed a cui si rifiuta ostinatamente il diritto all’eutanasia. Una critica che prende partito non perché argomenta col disgustoso “de gustibus”, ma perché rifiuta di simulare una valutazione non informata dal gusto estetico, riflettendo e giustificando al contempo il suo perché attraverso un’ampia prospettiva storica e materiale, sempre concreta, acustica, anche quando l’acustico si lascia solo ricostruire tramite documenti scritti o documenti fonografici venuti dopo.

“Taccio, taccio, più nulla.”

Con affetto,
Tua Giuditta

“Bleib’ und wache”, atto I, Imperatore (Franz Völker, Vienna, 1933):

“Wenn das Herz aus Kristall”, atto III, (Franz Völker, 1933):

“Sind das die Cherubim?”, atto III, (Imperatrice: Viorica Ursuleac, Franz Völker, 1933):

Imperatrice, Steber:
atto I: Immagine anteprima YouTube
atto II: Immagine anteprima YouTube
atto III: Immagine anteprima YouTube

9 pensieri su “Una lettera da Copenhagen. Riflessioni circa la Donna senz‘ombra di Richard Strauss

  1. Giuditta ti ringrazio di cuore per questo pezzo così ben scritto e stimolante! :) Riflessioni che condivido su quest’opera di Strauss che anch’io trovo particolarmente sfuggente e davvero difficile da rappresentare in modo pienamente convincente.

  2. Cara signora Giuditta, grazie per questa disamina ancora una volta tanto competente, e dell’interessantissimo – e tanto utile – confronto Wagner-Strauss. Ogni volta che la leggo, però, resto sorpreso per certe piccole scorrettezze nella lingua italiana, o di ortografia, o di lessico, o di costruzione…ho il sospetto che la Diva si sia reincarnata in uno o una studiosa non italiana, almeno di origine (tedesca? inglese?). Niente di grave, anzi complimenti per scrivere di tali argomenti con questa capacità di argomentare, proprietà scientifica e complessità sintattica. Ma quelle imperfezioni restano dei nei tanto più spiacevoli, quanto più facile ne sarebbe la rimozione. Insomma, testi così interessanti varrebbe la pena di levigarli!

    • Caro Conte, la prima lingua della Git è il milanese, non l’italiano 😀 Scherzi a parte, ha colto perfettamente la verità e aggiungo che l’italiano è la quinta o sesta lingua della nostra Pasta. Francamente, se dovessimo emendarne le imperfezioni, finiremmo per immiserire e snaturare il tutto. E diciamolo, vorremmo tutti parlare e scrivere una lingua straniera come la Pasta scrive e parla l’italiano!

    • Mille grazie per i complimenti. E quanto riguarda gli errori: sono nelle mani di gente che non mi ama! E’ sempre stato cosi. Anche alla Scala ed al Theatre-Italien questi miei colleghi prendevano grande piacere a sentirmi stonare qua e là quando non ero in serata. Perché sapevano che la vera diva era una sola: Moi!

      • giuditta quando scrivi di queste nequizie ricordo con vera gioja o quando ti strangolavo nel finale di Otello o quando nel duetto del Crociato con un po’ di aggiusti nell’armonia a “il tuo valore accenderà” interpolavo un si nat e tu stavi zitta!!!!!!

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