“Ormai il pubblico si mangia tutto”: basta questa frase, espressa da una gentile signora del loggione (e qui risistemata al buon gusto e all’educazione, che il contesto richiede), per sintetizzare in pochissime parole il misero spettacolo andato in scena domenica sera nel decadente palcoscenico scaligero. Anzi, un vero e proprio dramma della vocalità, mi verrebbe da dire, dove tenerezza e pietà da una parte, rabbia e rassegnazione dall’altra, hanno colmato gli animi di quei pochi che godono ancora di una buona, se non discreta, educazione musicale.
Protagonista di questo spettacolo è stato il cinquantacinquenne tenore messicano Ramón Vargas che per l’occasione ha optato per un repertorio decisamente pesante ed impegnativo, forse (mi verrebbe da pensare ingenuamente), senza aver misurato appieno i suoi limiti e i suoi problemi.
La prima parte prevedeva l’esecuzione dei tre sonetti del Petrarca di Franz Liszt e le sette canzoni popolari di Manuel de Falla. La seconda invece, dopo un intervallo necessario, comprendeva una lunga e sicuramente affascinante serie di romanze e canzoni da salotto italiane che, partendo da Leoncavallo, ha abbracciato autori come Cilea, Mascagni, Respighi, Tosti e Zandonai.
La voce di Vargas ha subito un vero e proprio tracollo: se nei primi di carriera successivi al debutto americano nel 1992 come sostituto di Pavarotti, aveva un certo colore, una buona solidità tecnica e soprattutto un gusto intelligente ed equilibrato, con un registro acuto leggermente chiuso e sforzato ma tutto sommato apprezzabile. Oggi, tutto ciò sembra sparito.
Quel che resta è una voce senza appoggio, sfogata, ruvida, quasi arrugginita e dunque senza controllo, una voce che crolla alla prima difficoltà e alla quale dunque non resta che scurirsi, more Kaufmann, nella più totale artificialità. Con questo apparato tecnico, affrontare gli ampi fraseggi richiesti da Liszt o le intime e seducenti canzoni di Tosti, o, ancora peggio, le sensuali e brillanti sonorità delle geniali canciones di De Falla, diventa pressoché impossibile.
L’esito è facilmente deducibile: totale piattezza esecutiva, difficoltà palese nel fraseggio e nel dispiegare la voce in frasi di media ampiezza, registro acuto sempre più spinto e quello basso ormai ingolfato e sordo. Il tutto però accompagnato da una gestualità sicura e accomodante, da una metateatralità forse più utile a garantirsi il successo della serata che a rendere più ameno e scorrevole lo spettacolo.
Ed in effetti sono stati il suoi discorsi introduttivi tra un brano e l’altro, i suoi gesti ispirati ed affettuosi, il suo calore tipicamente latino che alla fine hanno conquistato il pubblico milanese. Un pubblico che non ha risparmiato applausi per l’eroe della serata riempiendolo di ringraziamenti ed elogi dando prova così di grande, grandissimo affetto, ma soprattutto di grande, grandissima ignoranza.
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