La settimana scorsa, nell’ambito della rassegna MI.TO l’orchestra Filarmonica della Scala si è esibita al conservatorio sotto la guida di Daniel Harding, che in questo periodo ha condotto la compagine milanese in tourneè, come riferito anche da Antonio Tamburini. A Milano il programma era completamente differente, proponeva, infatti, il terzo concerto per pianoforte di Beethoven con Alessandro Taverna quale solista e l’ottava di Dvorak.
Ho letto da parte di un nostro lettore che l’orchestra filarmonica avrebbe suonato altrove (a Merano per la precisione) in maniera diciamo appena sufficiente: meglio negli archi e con problemi, invece, nei fiati e negli ottoni.
Per quanto concerne l’esecuzione milanese devo dire che l’impressione che si ha dopo poche battute del concerto beethoveniano è che il direttore inglese sia il solo in grado di tenere uniti e compatti gli strumentisti del complesso milanese ad onta della qualità delle singole sezioni. Aggiungo, forse anche per la prima parte proposta, che se limiti vi sono stati questi vanno ricercati a mio parere nel suono non bellissimo proprio degli archi un po’ acidi e nella tendenza degli strumenti a fiato ad essere al secondo movimento un po’ troppo in evidenza e magari prevaricanti del solista. Quest’ ultimo esibisce suono liquido e preciso nell’ornamentazione (perdonate vocabolario e mentalità da melomane), esegue una complessa cadenza al termine del primo movimento, ma difetta di quella omogeneità e legato che sono la sigla più autentica, a mio parere, del grande esecutore beethoveniano. E ciò anche fatta la tara del modo attuale di eseguire i concerti di Beethoven, che si discosta dalla tradizione del pianismo tedesco o russo.
Solo con l’orchestra e con una pagina della letteratura sinfonica che mescola e magari amplifica retaggio romantico, cultura middleuropea e presagi dell’imminente futuro (che è, poi, la letteratura sinfonica dove Harding offre il massimo) Harding ha sfoggiato aplomb, grande precisione e controllo del suono e in moltissimi passi l’orchestra, sfoggiando un suono di qualità, rotondo e morbido, è apparsa un solo strumento sotto la guida del proprio direttore.
Pochissimi eccessi di clangori anche se va detto l’esecuzione non proponeva la variegata e raffinata dinamica della paradigmatica esecuzione di Rafael Kubelik.
Trionfo soprattutto alla fine del secondo tempo per il direttore inglese, che ha offerto quale bis l’esecuzione della sinfonia del Tell. Qui applausi da stadio ed una esecuzione che non solo brillava per precisione e grande dinamica, ma per la capacità di far dimenticare che si trattasse di un preludio operistico, offrendo l’idea esatta di una composizione che si pone in linea con le grandi pagine sinfoniche ottocentesche a partire, ovvio, da Beethoven, di cui Rossini parafrasò nella sua più completa e complessa scena tragica proprio il primo movimento del terzo concerto.