Rof 2015: gli equivoci proseguono.

Il grande equivoco del Rossini Opera Festival come luogo deputato al recupero e al restauro della cosiddetta buona prassi esecutiva delle opere del Pesarese è proseguito, nei giorni scorsi, con l’esecuzione di due titoli minori, “La gazzetta” e “L’inganno felice”. Il primo, definito dramma per musica, è una farsa di impianto settecentesco, come testimonia, fra l’altro, la presenza di un personaggio di primo piano che si esprime in dialetto partenopeo, nonché la consueta girandola di equivoci, travestimenti e blandi ammiccamenti al genere serio, limitati di fatto alla parte del soprano, segnatamente alla scena nona del secondo atto. “L’inganno”, sulla carta una farsa, è in effetti, in maniera non dissimile dalla “Gazza ladra”, una pièce à sauvetage che ha per tema, come il successivo “Sigismondo”, la riabilitazione di una sposa ingiustamente calunniata. Nell’una come nell’altra esecuzione hanno regnato in orchestra l’approssimazione, la scarsità di verve, l’equivoco in forza del quale sonorità microbiche, colori invariabilmente opachi, timbri strumentali solo ed esclusivamente secchi sarebbero quanto di più acconcio a restituire l’essenza di una musica nutrite di influenze cimarosiane e haydniane. Altro elemento che colpisce, ma non costituisce certo una novità rispetto a quanto udito la prima sera del festival e in pregresse esecuzioni pesaresi, appare l’impossibilità di distinguere, nella Gazzetta, la prima donna (Lisetta) dalla seconda (Doralice) ed entrambe dal contralto, qui in funzione di caratterista. Abbiamo infatti tre soubrette, la prima (Hasmik Torosyan, ovviamente sortita dai ranghi della locale Accademia) fi voce vetrosa e senescente, fiati corti, acuti periclitanti, la seconda (Raffaella Lupinacci) unpoco più sonora ma egualmente a disagio con la parca coloratura prevista e la terza (José Maria lo Monaco, nominale contralto e specialista del repertorio barocco – sic!) tubata in prima ottava e quindi esausta e urlacchiante in alto (chiusa dell’aria). Mariangela Sicilia, cui affidato il ruolo di prima e sola donna dell’Inganno, non si differenzia dalle sunnominate quanto a vaghezza di timbro e scioltezza nel canto di agilità, dimostrando comunque una più solida tenuta, il che malauguratamente non basta a venire a capo di una parte scritta per Teresa Belloc Giorgi, prima Ninetta. Ancora una volta difficile, per non dire impossibile, distinguere, tanto nella prima quanto nella seconda operina, gli esecutori chiamati a sostenere le parti di basso cantante (Filippo, Monsù Traversen) e di buffo (Don Pomponio, Batone, Tarabotto), anche perché suonano tutti come tenori non sfogati in acuto. Il peggiore del gruppo, anche per la relativa lunghezza e onerosità della parte, Nicola Alaimo quale Pomponio, senza cavata, duro e parlottante, incapace di fare il pedale negli ensemble (su tutti il quintetto della festa, derivato dal Turco in Italia) e di articolare un sillabato degno di questo nome. Quanto ai tenori, male Maxim Mironov (Alberto), che se regge negli assieme incespica e scivola nell’aria, già affrontata anche a Pesaro quale numero alternativo di Italiana in Algeri e nell’occasione presente ridotta a esibizione di suoni spoggiati; malissimo Vassilis Kavayas quale duca Bertrando, pessimo imitatore dei vezzi d’emissione di Juan Diego Florez, eunucoide e stonato, oltre che a corto di fiato in una parte di aristocratico e marito deluso, che richiederebbe un minimo sindacale di ampleur. Per certa critica, al solito, ardon gl’incensi, in forza dei quali ci si estasia di fronte al riscoperto quintetto del primo atto di Gazzetta, già ascoltato in altre edizioni e costituito del resto da musica riciclata dal Barbiere e da altra che di lì a poco confluirà, al pari della Sinfonia, nella Cenerentola. Quasi che la risistemata pagina potesse trasformare una garbata farsa in un’opera all’altezza della Pietra del paragone o del Viaggio a Reims. La stessa critica, accesa d’entusiasmo che vogliamo credere sincero, benché ingiustificato, ha voluto in questa occasione promuovere, o almeno non bocciare, elementi del cast che, già impegnati in pregresse occasioni pesaresi, aveva con condivisibile ragione riprovato. Sono queste, assai più dei roboanti proclami del sovrintendente Mariotti, le migliori “rassicurazioni” circa l’avvenire, assolutamente analogo al presente e al recente passato, del festival adriatico.


Italo Tajo-Angelica Tuccari, dir. Caracciolo (1960)

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