A 37 anni Katharina Wagner è già una persona stanca, rassegnata, palesamente fuori luogo nel suo mestiere, vittima del potere della genealogia e del principio ereditario di cui in pieno terzo millennio, in un paese europeo dalla più forte tradizione emancipatrice ed egalitaria, Bayreuth rimane ancora l’ultimo bastione. (Forse un succedaneo del tutto tedesco, intinto nell’incenso di alta cultura e spiritualità, di brutte abitudini odierne come venerare – e soprattutto mantenere! – famiglie regali decorative). Alla stregua del suo debutto a Bayreuth con i Meistersinger che avrebbero potuto essere una critica autoironica di tutta una tradizione culturale borghese tedesca, anche nella sua seconda produzione bayreuthiana, Katharina Wagner dà l’impressione di avere qualche giusta intuizione fondamentale che poi non sa (o non vuole) più sviluppare in modo conseguente. Però, a differenza dei Meistersinger, nel suo nuovo Tristan und Isolde la bisnipote di Richard Wagner rinuncia persino allo scandalo gratuito, un lavoro “serio” essendo stato l’espressa richiesta dei mecenati e dei comitati che formano il contorno organizzativo e la base finanziaria di quello che pare sia l’ennesima reincarnazione del genio teatrale di Wagner tramite i canali di sangue e DNA. Se si considera che la decisione di aprire la stagione del 2015 con un Tristan firmato da Katharina Wagner esisteva da anni, non si può che intristirsi davanti alla povertà del risultato scenico di quel che avrebbe dovuto essere il frutto di una lunga riflessione. E’ per questa povertà di idee e di volontà, questa insipidezza rassegnata, che alla prima il team registico non è stato nemmeno degnato dei fischi – almeno non di fischicomme il faut, come occorre per una rappresentante del Regietheater che si rispetti.
Come si mette in scena il Tristan? Non a caso il Tristan è considerato di essere l’opera wagneriana più difficile da allestire. Più difficile persino del gigantesco Ring con la sua abbondanza di simboli, linee narrative, di associazioni, di allegorie politiche e tutto quello che ne fa un mutante assai problematico ed incoerente sia dal punto di vista dell’imposto di partenza che da quello della sua composizione – un mutante di riferimenti mitologici-musicali in cui alla fin fine qualsiasi cosa può significare qualsiasi cosa, come dice Theodor Adorno. Tristan invece dimostra una struttura assolutamente coerente: l’opera si concentra intorno a qualche motivo musicale e drammaturgico, ha una trama ridotta al minimum più basilare, i tre atti sono quasi uguali per durata e per la loro costruzione nel senso che ogni atto emerge da e si sviluppa intorno ad una figura teatrale-musicale precisa, come il canto malinconico del marinaio nel primo, il suoni dei corni di caccia nel secondo, la ciaramella del pastorello nel terzo. Anche la portata filosofica (che nel Ring rischia di affogare nella già menzionata sovrabbondanza dei riferimenti) è ben identificabile: da un lato c’è il mondo delle regole sociali – onore, amicizia, fedeltà, matrimonio, intrighi – e dei criteri logici in cui 1 + 1 = 2, la luce è luce e la notte è notte. D’altronde c’è il mondo quasi superiore alla logica, che si apre a Tristano ed Isotta ed in cui i criteri logici, cioè il principio di non contraddizione viene cancellato – tradimento può essere fedeltà, vita può essere morte, la luce diventa ascoltabile, 1 + 1 = 0.
Tristan tratta non solo di un mondo di sinestesie, di amplificazioni sensorie che trabocca grazie all’elisir (un mondo che spunta con le prime convulsioni degli amanti dopo aver bevuto la pozione, riceve diverse forme nelle loro visioni quasi metafisiche e culmina ovviamente nel Liebestod con la fusione di tutti i piaceri auditivi, visivi ed olfattivi). Tristan è il culmine del romanticismo, la realizzazione di una promessa sempre differita e mai tenuta degli letterati e dei musicisti romantici della prima metà del Ottocento, non solo per la messa in scena di questo mondo sinestetico e sopralogico, ma anche perché Tristan, invece di essere una semplice storia d’amore o della pulsione di morte, è la performance di uno dei fondamentali paradossi della filosofia legata al romanticismo tedesco, ossia quella che una coscienza desideri di unirsi all’Uno, di affogarsi nel Tutto benché la coscienza sia per principio costituta da differenze, da distanze tra soggetto ed oggetto, tra un pensiero ed un altro, che le permettono persino di volere il proprio annichilimento. Il dialogo filosofico sulla relazione tra vita, morte, amore e la piccola parola “e” durante il duettone d’amore del secondo atto non è altro che una traduzione di quel gioco della coscienza umana con cui essa, da un lato, desidera la sua fine come coscienza singolare, sempre differenziata, e, d’altronde, vuole allo stesso tempo ancora assistere alla propria fine. E’ cosi che gli amanti si chiedono com’è possibile amarsi se non avviene la perfetta unione nella morte, eppure se morissero, morirebbe anche la brama, quella Sehnsucht infinita che mantiene sempre aperta la differenza tra vita e morte, che gioca sempre con la morte e si guarda bene dall’andare oltre, perché con la morte avvenuta non vi rimane più spazio per il gioco delle differenze, cioè per la coscienza tout court e quindi per l’amore e la brama che non è altro che il gioco di differenze. E’ per questo che nel Tristan la luce è non solo l’odiato simbolo della società e delle sue regole, ma anche un elemento che riappare ogni volta quando bisogna fare ritornare uno dei “iniziati” da un ravvicinamento troppo pericoloso alla morte, al buio totale. E’ sempre per la stessa ragione che nel terzo atto Isotta egoisticamente rimprovera Tristano di essere banalmente morto dalla sua ferita e che il finale diventa la performance più spettacolare di un viaggio verso la morte a cui la moribonda assiste consapevolmente fino all’ultimo sospiro, ancora capace di avere il pessimo gusto di dire che sta “inconsapevolmente” (unbewusst) provando la “suprema letizia” (höchste Lust) – la più svergognata e bella falsità mai realizzata sul palcoscenico del teatro occidentale.
La trama è ridotta al minimo – con una cinquantina di minuti di azione assolutamente ferma sia nel secondo che nel terzo atto – proprio perché tutto torna intorno a quel languente “Lasciami morire” (Lass mich sterben) con cui durante l’estasi del duettone d’amore gli amanti si dichiarano a turno che stanno per morire, solo per venire ogni volta sadisticamente risvegliati dal partner rispettivo affinché il gioco continui, come continua sempre anche la musica in cui Wagner riesce a creare quella perfetta simulazione di “melodia infinita” che nel Ring rimane spesso problematica. Invece di essere costruito su motivi conduttori che nel Ring tendono davvero ad avere un carattere chiuso, ermetico, da carta da visita, il che non raramente rende la loro combinazione o ripetizione artificiosa, ridondante, il Tristan si basa su un gruppo di motivi molto piegabili sin dall’inizio, che hanno qualcosa di amorfo, mentre è proprio quel carattere amorfo a contenere il segreto della forma del Tristan, del suo essere un capolavoro di organizzazione formale.
Mi perdonerete questo excursus filosofico, ma ho trovato opportuno proporvelo per dimostrare quanto è al contempo minimale e ricco quel tessuto concettuale e teatrale con cui è fatto il Tristan. E’ per la staticità paradossalmente mai ferma di una brama indomita quale unica vera “azione” di questo dramma musicale che diventa difficilissimo per un(a) regista non fallire soprattutto davanti al secondo e terzo atto. In questo senso a Katharina Wagner va accordato il merito di aver prodotto nella scena del duettone, quindi al centro sia formale che concettuale dell’opera, il pezzo di regia più significativo dell’intero allestimento. Tutto il primo atto è una fila discontinua di agitazioni, di un via-vai ed un sù e giù permanenti nel brutto labirinto di scale e ponti (messo in scena al posto del bordo di una nave forse per suggerire il carattere labirintico delle relazioni umane?…). Anche se bella come suggestione, rimane banale l’idea di non fare bere ai due protagonisti l’elisir e di farlo invece versare sulle loro mani unite. Ancora peggio di gusto il bacio appassionato che la coppia si dà all’inizio della loro scena di confronto. Che Tristano ed Isotta si amino già prima e senza l’intervento dell’elisir è un’idea ruminata mille volte non solo da Thomas Mann in su, ma abbastanza evidente anche da musica e libretto. Non c’è bisogno di un gesto triviale come quel bacio, perché toglie tutta la tensione allo scambio velenoso tra i due prima di bere la pozione.
Il secondo atto provvede un cambio narrativo ancora più radicale rispetto all’originale: Marke è un gangster dal sangue freddo e sin dall’inizio dell’atto sia lui che Melot ed il resto della “banda” si trovano sopra quello che assomiglia ad un immenso carcere per gettare da diversi proiettori una luce intollerabile su Isotta, Brangania, Tristano e Kurwenal. Si assiste ad un gioco sadico dei “potenti” con la loro preda di cui seguono ogni parola mentre la torturano con le luci come se gli amanti fossero degli animali in una gabbia. E’ contro questa luce artificiosa (nella quale Katharina Wagner trasforma l’odiata luce sia simbolica che reale del “giorno” e del “sole”) che la coppia si difende costruendosi una mezza tenda. La loro notte è quindi una notte “soggettiva”, con delle artificiose stelline lucenti stese da loro dentro la tenda. Sempre troppo poco, come tutta la linea interpretativa che provvede di presentare sia l’infuriata Isotta nel primo atto che il delirante Tristano nel terzo come dei pazzi patologici trattati da Brangania e Kurwenal con quell’amara pazienza con cui si tratta un parente malato di mente. Alla fine banale, perché troppo visibile e violento, l’idea di farsi tagliare le vene agli amanti durante il dialogo filosofico lungamente discusso da me più sopra.
Nel terzo atto l’interminabile delirio di Tristano è accompagnato da apparizioni di vari triangoli in cui si vedono donne che portano maschere deformi ed assomigliano ad Isotta con il taglio di capelli ed il semplice abito blu. Ogni volta quando Tristano se ne avvicina, Isotta risulta, ad esempio, di essere o un manichino (citazione dai Racconti di Hoffmann?) o la maschera inizia a buttare sangue. Queste visioni cessano solo quando Kurwenal, disturbato dall’insistenza di Tristano, decide di mentirgli, dicendogli che vede arrivare la nave di Isotta (citazione dal Tristan di Ponnelle). Si finisce con un Liebestod obbligatoriamente disincantato, perché oltre ad Isotta che canta con il cadavere di Tristano risollevato sul suo capezzale, come per simulare una rianimazione, alla fine abbiamo Marke che violentemente trascina la sua moglie verso l’uscita, il che rappresenterebbe un ultimo atto di violenza fra i tanti subiti soprattutto dalle donne da parte di Marke e la sua gang.
In mezzo a tanta mediocrità scenica condivisa da questo Tristan con gli altri allestimenti bayreuthiani e guarnita da piccole guerre di potere fra le sorellastre, si impone Christian Thielemann. Anche lui quasi una brutta copia di un originale già trapassato da un bel tempo, con dei concetti musicali e politici nella testa che lo rendono non solo antipatico (vedi la grande resistenza tra i Berliner Philharmoniker a causa del suo repertorio ristretto e dei suoi atteggiamenti politici non proprio cosmopoliti), ma anche controproducente nel proprio lavoro. Meccanico sin dal preludio al primo atto ed artificiosamente rallentato proprio nei pochi momenti di “reale” azione sul palcoscenico (come ad esempio nel finale primo), riesce di dare il suo meglio nel terzo atto soprattutto nella lunga scena di Tristano alla cui qualità d’interminabile tortura sadica e psicodelica va a genio il modo di Thielemann del tutto incapace di qualsiasi abbandono. Ci offre un Tristan egoista e rigido, perché concentrato complettamente sull’orchestra (senza poi arrivare a granché), escludendo o soggettando i cantanti a quel che dovrebbe essere un cantare assieme di voci e strumenti.
La tremenda qualità complessiva della compagnia di canto di questa produzione è non solo dovuto al fatto che Thielemann segue la sua strada e non si cura delle capacità dei suoi cantanti, ma sicuramente alla carenza di un vero lavoro con loro. Ricordiamo che un direttore come Bernstein ha fatto un Tristan dieci volte più lento e con cantanti (Hildegard Behrens e Peter Hofmann) forse ancora meno adatti ai due protagonisti che non Evelyn Herlitzius e Stephen Gould, ma il risultato di Bernstein è tutt’altro, perché si sente che i cantanti hanno dovuto farsi iniziare da parte del maestro ad una lentezza anormale, sovrumana, mentre con Thielemann i passaggi dove i cantanti o vanno in anticipo o in ritardo sono troppi per non essere percepibili come banali esempi di mancanza di preparazione.
Evelyn Herlitzius che ormai ha preso il posto ufficiale della massima cantante-attrice wagneriana dopo il lento consumarsi di Waltraud Meier ha cantato malissimo alla prima (di cui testimonia la ripresa radio) e peggio alla recita che è stata trasmessa in differita in tv sul canale 3sat. E’ anche stata l’unica, a parte di qualche bu a Thielemann e la regia, di ricevere un dissenso considerabile da parte del pubblico. Corta di fiato, ridottissima di pasta vocale, dal timbro acido, forzando in ogni registro, soffocante già all’inizio del duettone d’amore, emettendo stecche su stecche appena arrivano o gli acuti estremi o dei pianissimi, è stata un’Isotta isterica e quindi monotona durante tutta l’opera. Stephen Gould, l’unico veterano rimasto accanto a Peter Seiffert che sarebbe capace di reggere il ruolo di Tristan ad un livello minimamente presentabile, è quasi una contradictio in adiecto del canto wagneriano che pretende di trascendere il mero virtuosismo tecnico verso una vera espressività. Un cantante dalla voce grigia, fissa e dal fraseggio e dalla presenza scenica quasi inesistenti come Gould, il cui unico merito consiste nella sua resistenza fisica, è la perfetta illustrazione del paradosso o piuttosto dell’impasse a cui si è arrivati: il canto wagneriano ha voluto trascendere il tecnicismo ed il virtuosismo considerati italiani per arrivare ad un punto in cui si è grati di avere cantanti che semplicemente riescono a farcela fino alla fine della recita. Il Kurwenal di Iain Paterson è la solita voce indietro ed ingrossata che sbianca in acuto ed abbaia un ruolo ingrato. Christa Mayer, una Waltraute ed Erda relativamente decente nel Ring ascoltato da me a Bayreuth nel 2009, dimostra ormai una voce dal timbro insecchito ed invecchiato, ululante in alto e soffocata in basso. Ha poi la sfortuna di essere presentata dalla regista come una stupida zitella indecisa ed angosciata (una parte anche recitata male). Georg Zeppenfeld nel ruolo di Marke è un succedaneo di un basso cantante, dalla voce obbligatoriamente gutturale e dal peso non proprio wagneriano né dal colore da autentico basso. Di fronte a tanto dilettantismo vocale dimostra una certa linea di canto che potrebbe meritarne il nome, eppure anche quel poco della sua prestazione vocale viene ridotto dal contrasto artificiosissimo creato dalla regista presentandolo non come un nobile anziano vulnerabile, ma come un gangster spietato. Tansel Akzeybek che parte come il marinaio e finisce come il pastorello sfoggia una vocina che evita tale lungo percorso e finisce li dove ha iniziato: nel naso.
Wagner aveva abbandonato la realizzazione del Ring nel bel mezzo a causa delle sue dimensioni smisurate ed ha voluto dedicarsi ad un’opera più accessibile ai teatri di repertorio dei suoi giorni. Ha pensato di comporre un’opera all’italiana sopra la storia di Tristano ed Isotta. Durante il lavoro anche il Tristan si è rivelato di avere attinto dimensioni gigantesche, però quel che è rimasto è l’italianità della scrittura vocale che richiede un legato ed una varietà di fraseggio e lascia la voce molto più esposta rispetto all’orchestra di quanto si possa percepire ad un ascolto vago. A parte qualche passaggio declamato o semplicemente portato al limite del umanamente resistibile, la musica di Tristan è italiana e romantica anche dal punto di vista del romanticismo operistico italiano proprio per il fatto che quel bel morire che si canta a squarciagola e che è quasi il nucleo dell’opera italiana da Bellini e Donizetti fino al verismo acquista nel Tristan delle dimensioni straripanti, sicché l’intera opera diventa un morire d’amore. Ed è quando si ascoltano cantanti del tutto privi di qualsiasi legato e capacità di modulare il suono in modo professionale che si capisce ancora una volta che non è la scrittura wagneriana ad essere nemica di ogni cantabilità, ma l’atteggiamento odierno. Esso vede in Wagner un approccio che sarebbe sempre alla ricerca di qualche trascendimento: quando canta Herlitzius, il senso e l’espressione va cercato “dietro” della materia esteriore che non “conta”; quando canta la Flagstad, si, è certamente bella, ma non “esprime”, non c’è quell’interiorità espressiva che apparentemente si intravede solo attraverso le fratture di una rovina di voce come quella della Herlitzius. Ormai è chiaro che questo non è più semplicemente un problema “estetico”, che Wagner si canti “all’italiana” o no, ma qualcosa che ci porta al semplice fatto di non avere più a disposizione non una Nilsson o, al peggio, una Gwyneth Jones, ma neanche qualcuno che non lascia la voce a mezza strada, pur essendo un artista che sul piano estetico non avrebbe niente da dire. Si tratta del minimo di sussistenza. Poi bisogna ovviamente chiedersi che senso abbia la coltivazione di un’arte come l’opera se essa non oltrepassa il livello del minimo tecnico.
Splendida recensione. Io però non cercherei tali significati reconditi nella regia della nipotastra. Secondo me, la struttura scenica del primo atto significava semplicemente: “ricordate o amanti, la vita è fatta a scale: c’ è chi scende e c’ è chi sale”. E Marke quando alla fine si porta via Isolde pensa chiaramente: “adesso andiamo a casa che i bambini aspettano la cena e c’ è anche una pila di camicie mie da stirare”. Perdonate l’ impertinenza ma io ormai non prendo più sul serio la categoria dei registi, massime quelli operanti in Germania.
A conferma di quanto sostenuto nell’articolo ci sono le parole di un addetto ai lavori, ovvero Richard Wagner:
“the voice should not be characterized by force, but by a good Italian cantabile style”
ed inoltre:
“Go to Viardot, and learn how to sing Mozart. You will then be able, without harm to your voice, to sing my operas.”
Insomma, anche Wagner va cantato, e cantato in modo corretto, cioè all’italiana.
Complimenti per lo splendido articolo, comunque.
Notizia di oggi: Petra Lang sostituirà Evelyn Herlitzius nel ruolo di Isolde