Oggi Daniel Harding festeggia i suoi primi quarant’anni, poco meno della metà dei quali trascorsi lavorando con alcune delle principali orchestre europee e non solo. E’ un direttore che faremmo fatica a includere nel gruppo delle cosiddette promesse, se non altro perché, di solito, simili promesse non si concretizzano o, se lo fanno, risultano alquanto deludenti. Di Harding possono non piacere (e in certa misura è comprensibile che non piacciano) quelle letture, specie nell’alveo del repertorio romantico, in cui a un apprezzabile rigore non si accompagna, o solo a tratti si accompagna, analoga magniloquenza e capacità di abbandonarsi al flusso della musica. Ma si tratta comunque di letture pensate e, soprattutto, preparate e messe in pratica con ferreo rispetto di quei criteri di serietà professionale, di cui oggi sembra essersi persa (non solo fra le bacchette) il segreto. Proprio in questi giorni Harding è impegnato con la Filarmonica scaligera in una tournée che toccherà, fra l’altro, anche Milano. Città in cui il direttore sarà ospite della sala del Conservatorio, e non già di quella del Piermarini. Non potevamo quindi proporlo che in una recente esecuzione di un capolavoro della letteratura romantica, opera di un autore che il direttore inglese non ha, finora, affrontato in Scala. E sono molti gli autori che meriterebbe di affrontare sistematicamente, come Mahler o Beethoven ad esempio.