Il prossimo anno il direttore Kirill Petrenko non dirigerà il Ring durante il Festival di Bayreuth.
Per fortuna.
Al suo posto ci sarà il veterano Marek Janowski reduce dall’incisione integrale delle opere che compongono il canone wagneriano. Leggendo di seguito il cast previsto per il 2016 ci accorgiamo che Janowski ha confermato solo sei cantanti tra quelli scelti dal suo giovane predecessore, cambiamenti fisiologici, che lo stesso Petrenko ha applicato ai cantanti dell’edizione di quest’anno, assicurandosi un certo interesse amplificato dall’essere stato nominato segretamente direttore dei Berliner Philharmoiniker.
Personalmente non ritengo Kirill Petrenko sia un grande direttore, almeno per quanto riguarda la direzione di un’opera, wagneriana o meno.
Intendiamoci, magari questo direttore, seconda scelta dei Berliner, perché non eletto al primo turno, ma solo ad una seconda seduta di fatto segreta e nascosta anche ai media, riesce ad essere credibile nella sinfonica, non lo metto in dubbio; ma nell’opera, dopo averlo ascoltato in deludenti “Lucia di Lammermoor”, “Frau ohne Schatten” e soprattutto questi cicli del Ring wagneriano a Bayreuth, ho i miei fortissimi dubbi.
Se il “Rheingold” è sempre stata l’opera più congeniale alla bacchetta di Petrenko, l’unica a parer mio adatta alle sue corde, così nobile, dalla struttura robusta e espressivamente così fresca e lirica, ricchissima di sfumature e colori drammatici; se il I atto di “Walkure”, pur non brillando per inventiva, riesce a organizzarsi intorno ad un nucleo vibrante per intensità di romanticismo, che pone in primissimo piano la montante passione tra i gemelli incestuosi ed assume i profumi primaverili, come ha già dimostrato nel 2013 e 2014, il resto, è davvero avvilente.
Petrenko decide per non interpretare nulla, per non imprimere alcuna personalità riconoscibile, si lascia andare ad una di quelle direzioni routine nelle quali si fa davvero fatica a capire di quale opera di Wagner si tratti o se si tratti davvero di Wagner.
Imprimere tempi tombali ad un’orchestra che semplicemente è invitata a suonare, calando nell’intonazione degli ottoni, con la pesantezza di chi si limita a compitare le note rimanendo alla superficie della partitura, è una non scelta basata sul completo disinteresse del momento teatrale, dell’intrico dei temi, della tensione maturato su una tensione che deve rimanere costante in un crescendo che deve commuovere, della dinamica, inesistente, portata ad un grigiore davvero imbevuto di cinismo e menefreghismo.
Il dialogo tra Wotan/Wanderer e Mime per sprigionare il suo reale potenziale teatrale può essere diretto come se fosse una scena comica, oppure concentrandosi sullo scontro tra psicologie contorte, ma fermamente intellettuali, o può essere analizzata sui diversi volumi dei temi e sulla loro geniale concatenazione con il canto: cosa che a Bayreuth si traduce in un sonnolento battibecco riempitivo tra un nibelungo ed una megera orba e logorroica. Quando Wotan mostra la propria divinità al nano, questi, che già sospetta, dovrebbe sobbalzare ed il momento sorprendere il pubblico; la forgiatura non dovrebbe diventare un confuso e rumoroso concerto di Stockhausen; tutto il II atto, a parte il preludio diretto bene, avrebbe dovuto essere qualcosa di più di una timida, inconsistente, monotona geremiade sulla natura che il direttore non si prende nemmeno il lusso di evocare; il III atto sospeso tra indifferenza e rumore parodizza incivilmente il desiderio di autodistruzione di Wotan e l’estasi spirituale e carnale di Brunnhilde. Inaccettabile il terzetto delle Norne ridotte allo spettegolare di tre portinaie degli affari scandalosi degli inquilini ricchi, e che bolsa banalità accompagna tutto il resto, fino alla fine, martellante, sistematicamente annegato in un grigiore organizzato nella maniera più indifferente possibile. Quei finali d’atto della Walkure e della Gotterdammerung, o il capitale monologo di Wotan, la grottesca Cavalcata, diretti al doppio della velocità, sbrigativi e tirati via sintomo di chi vuole solo terminare la recita e farsi passare per genio della bacchetta, quando i meriti sarebbero da circoscriversi ai momenti nei quali il canto viene coperto dalla banda nel Golfo Mistico. Così anche i pochi momenti riusciti si perdono nel magma dell’imperizia della bacchetta.
Applausi inspiegabili, immeritati che invio al mittente, mentre le orecchie rimpiangono e ripensano con rispetto alle profondità pessimiste di Barenboim nel ’92, all’animosità serrata di Levine, alla cupezza poetica di Sinopoli ed al titanismo sfaccettato di Thielemann.
Cast che si adatta meglio di un guanto allo sfacelo della direzione, nonostante il cambio di alcuni cantanti e nonostante la tragica, assurda morte nel tremendo disastro della German Wings, di Maria Radner e Oleg Bryjak, scritturati rispettivamente come Flosshilde/I Norna e Alberich.
Vincono i nibelunghi: Albert Dohmen, dopo essere stato un Wotan autorevole tra il 2007 ed il 2010 sotto la bacchetta di Thielemann, ora indossa i panni della sua Nemesi ed interpreta un Alberich sinistro, molto cerebrale, demoniaco e corroso dall’idea di possesso, dalla voce molto provata e afflitta da quel vezzo di emettere gli acuti terminandoli con la coppia di vocali AE o EU, ma le note ci sono tutte, lo stile è padroneggiato con destrezza e malgrado le durezze di uno strumento sfibrato, l’intelligenza del cantante riesce ad organizzare quanto resta con sensibilità tecnica. Bravo anche il Mime di Andreas Conrad, tenore caratterista dalla voce finalmente giusta per interpretare il fabbro, cantante dalla dizione chiara e dallo stile che pecca di istrionismo, con quel sottolineare alcune frasi modificando colpevolmente la scrittura per proiettarla volgarmente verso l’acuto che diventa un grido o si trasforma in parlato, quando potrebbe tranquillamente fidarsi di Wagner, ma il resto è cantato con ottima intonazione valorizzata dalla perversione sarcastica del fraseggio. Buona anche la performance di John Daszak, Loge dal fraseggio elegante, anche se cantato con una voce ingrata e legnosa e del sempre corretto e onesto Kwangchul Youn, Hunding di spicco. Giocano in difesa Johan Botha e Anja Kampe, Siegmund e Sieglinde; ma le voci sono diventate fibrose, l’emissione e l’appoggio incerti, la proiezione verso i gravi e gli acuti perigliosi oltre ad un accento che ha perso smalto, risultando così di molto inferiori ai loro stessi di due anni fa.
Per il resto siamo al coma del canto wagneriano: non parlo di morte o di Bayreuthdaemmerung, perché sono certa che si possa puntare sempre più al ribasso raggiungendo vette di orrore ancora inesplorate.
Disastri vocali il Wotan di Wolfgang Koch con la sua voce fissa, roca, corta, vociferante, stonata, inespressiva, al pari della Brunnhilde tremula, anemica, falsettante, spaurita di Catherine Foster, della Erda vuota e ingolata di Nadine Weissmann, della Freia e Gutrune stimbrata e spoggiata di Allison Oakes, della coppia di giganti Wilhelm Schwinghammer ed Andreas Hoerl, baritoni chiari mancati e dalle voci insensate, del Gunther insignificante di Alexander Marco-Buhrmester, delle tre sovrapponibili figlie del Reno Mirella Hagen, anche uccellino del bosco chiaramente affetto da aviaria, Julia Rutigliano e Anna Lapkovskaja, del Siegfried spaventoso di Stefan Vinke, che è “migliore” del fu Lance Ryan solo perché ha due note in più, ma è sullo stesso livello quanto a timbro senile e impastato, a emissione gutturale e rauca, stonato al centro, urlato negli acuti, manfano nel fraseggio, per non dimenticare l’insulsa e oscillante Fricka e Waltraute di Claudia Mahnke che avrebbe voce e accento da comprimaria.
Stephen Milling esordisce, dopo averlo a lungo rimandato, nel ruolo di Hagen: autentica voce di basso, Milling ha purtroppo un’emissione spoggiata che dopo il primo atto fa percepire evidenti segni di stanchezza e secchezza, acuti che si stringono in gola ed un registro grave poco risonante: evidente è l’imitazione di Matti Salminen del quale non possiede l’imponenza del mezzo e la torva oscurità dell’interpretazione. Un Hagen certamente ambiguo, misterioso, che andrebbe approfondito e ristudiato.
La regia di Castorf sarà anche brutta e degna delle contestazioni, ma è anche un ottimo parafulmine e capro espiatorio per il fallimento di questo Ring: è facile sviare l’attenzione sulla pochezza dell’aspetto musicale e vocale e sottolineare la banale scandalosità telefonata di un brutto allestimento.
Molto facile e ipocrita secondo l’impostazione data da Katharina Wagner, ora sola al vertice della verde collina dopo l’estromissione coatta della sorellastra.
In verità Petrenko è stata la terza scelta dei berliner, che hanno virato su di lui solo dopo aver “bruciato” le prime due scelte.
Aspetto di ascoltare Petrenko con i Berliner per assistere al miracolo interpretativo che col Ring non è avvenuto
Peter Hemmerich, portavoce del Festival di Bayreuth ha sottolineato come le case discografiche non siano interessate alla registrazione in CD e DVD del Ring Petrenko-Castorf.
Ogni tanto qualcuno ragiona