Inutile tacere che l’edizione di Otello, che, fra poche ore, andrà in scena a Milano non è il frutto di una lunga e ponderata decisione di restituire al pubblico milanese un titolo, che, se non capolavoro, è un modello indiscutibile dell’operismo del primo trentennio del secolo XIX, ma semplicemente -e per dirla alla milanese- “el less voultà in umit” (traduco il lesso avanzato trasformato in spezzatino) perché in origine doveva essere l’altro Otello diretto da Barenboim e con un cast stellare, naturalmente. Tramontata l’idea originale, il nostro Alessandro ha conservato titolo (mutatone l’autore, tanto sempre opera è) e regista, predisposto un cast che oggi dovrebbe essere il CAST per questo titolo e chiamato a dirigerlo una bacchetta tanto famosa quanto estranea a Rossini. Poi, come da consolidato copione, si sono persi i pezzi per strada: il regista, pare scocciato dal cambio di autore (e aggiungiamo noi con la presunzione di chi conosca i due Otello della rispettiva drammaturgia) se n’è andato lasciando però il fido scenografo, poi il direttore ha declinato l’invito, ammesso che fosse stato formulato. Alessandro, che non si perde mai d’animo, ha chiamato la bacchetta che aveva guidato e illuminato la produzione nel teatro di Zurigo. Al momento in cui si scrive, non risultano ulteriori cambi. Sarà il solo calar del sipario a sincerarcene.
Confessiamo che alcuni attendevano l’epifania dell’autentica diva di Zurigo cui, forse, l’esecuzione abbondantemente contestata di pagine rossiniane ha consigliato parsimonia o astinenza (sarà il futuro a giudicare) di rapporti con la nuova sede di lavoro di Alessandro.
Mi si dice che taluni frequentatori e frequentatrici delle manifestazioni della riviera romagnol-marchigiana siano rapite in estasi perché a distanza di otto anni è stato riproposto il cast pesarese cioè la perfezione.
Del cast riferiremo dopo la prima rappresentazione. Riguardo al “Fortuna audaces juvat”, che sembra animare ed aleggiare attorno questa produzione non vale a pena dilungarsi, come è osservazione stantia quella che la Scala sia stata quasi sorda ai titoli seri rossiniani nel periodo condivisibilmente definito Renaissance allorquando si potevano ipotizzare almeno due cast di ugual valore per questo titolo.
Ci sono, però a nostro avviso alcune osservazioni che la proposizione di Otello stimola. Parto da una frasetta, buttata là di Rodolfo Celletti che nel 1981 recensendo la prima registrazione di Otello osservò che il titolo rossiniano presenta tutti i topoi del melodramma del primo trentennio del XIX secolo salvo uno il lieto fine. Diciamo subito che una volta a Roma, dove la censura papalina poco gradiva cadaveri in scena si provvide anche ad inserire un lieto fine, una volta sciolto l’equivoco. Non solo, ma non stupirebbe un finale di mano autografa magari per una Colbran alla frutta (come quella del Maometto II in versione veneziana) con l’inserto del sempre comodo rondò di Donna del lago “Tanti affetti”, in assoluto l’aria più trapiantata e parafrasata dall’autore medesimo.
Perché è chiaro che l’opera due figure del melodramma celebra ovvero il tenore baritonale nel ruolo di amoroso, che si crede respinto e, quindi, latore di tutte le ansie ed angosce che competono al maschio che vede insidiato il proprio talamo e quello della prima donna. Questo lo esemplifica la tradizione del tempo e delle rappresentazioni di Otello che proseguirono almeno sino al 1870 con una certa frequenza e la disamina dei libretti che tutti spiegano come le parti intangibili (anzi ampliabili alla bisogna) fossero Otello e Desdemona. La prassi del teatro ammetteva, infatti, radicali tagli nella parte, molto esornativa, di Rodrigo che poteva o essere ridotta a soli numeri d’assieme come il finale primo ed il duetto di sfida, che si trasforma in terzetto (come accadrà anche nella Donna del lago) o affidata ad un contralto, attesa la difficoltà di reperire due tenori dopo il periodo napoletano. Spesso affidata ad un contralto, per altro la psicologia di Rodrigo è quella dell’amoroso spesso era affidato al musico la parte poteva consentire ampie rivalse per le titolari del luogo come accadde a Vicenza al Teatro Eretenio (1830) quando i panni di Rodrigo vennero vestiti da Teresa Cecconi, una dei più famosi contralti del tempo. Diciamo subito che le fonti chiariscono come questa trasposizione fosse molto più diffusa perché più logica e seconda alla tradizione drammaturgica che non quella di Otello contralto.
Ovvio perché ad Otello mancano, di fatto, le caratteristiche dell’amoroso, per essere, invece, un antagonista. Magari antagonista di se stesso, ma sempre antagonista. Nella tradizione delle rappresentazioni ottocentesche, dopo la prima, affidata a Andrea Nozzari cui subito subentrò nel 1817 al san Carlo Manuel Garcia, si deve registrare il monopolio per almeno un ventennio di Domenico Donzelli, che a Londra, Parigi ed i tutti i teatri italiani, sino al ritiro nel 1845, proprio con recite di Otello, fu il moro di Venezia per antonomasia.
La scrittura marcatamente centrale, la limitazione (anche rispetto ad altre parti scritte per Andrea Nozzari, Garcia di suo provvedeva ad inserimenti, infatti) dei passi di agilità, lunghe scene declamate come quella dell’ingresso di Otello al secondo atto o più ancora quella di Otello nella stanza di Desdemona erano particolarmente adatte e gradite a Donzelli. Il primo ad avvedersene fu Rossini stesso che nel 1824 dopo le recite di Rubini a Parigi agli Italiani si affrettò ad offrire la parte all’altro divo del tenorismo bergamasco. Per la cronaca aggiungo che ai tenori chiari e contraltini anche in un’epoca in cui ogni singola serie di rappresentazioni poteva significare inserimento di arie differente dalle originali o ampi aggiusti la parte del Moro poco gradiva. Sporadico il rapporto di Rubini ed altrettanto sporadico quello di Giovanni David, primo Rodrigo che cantò anche il ruolo di protagonista, sostituendo l’aria d’ingresso “ Ah si per voi già sento” con altra.
Va anche detto che l’ingombrante presenza di Donzelli e la cristallizzazione del personaggio e quindi dei numeri da eseguire ad opera del tenore bergamasco e di tenori come Tamberlick, che non eseguì mai la parte in Italia Pancani o Bettini, che nel 1850-1860 che in qualità di tenori drammatici e quindi eredi di Donzelli cantarono la parte in molti teatri, fra cui la Scala di Milano evitò al ruolo di protagonista le libertà e gli inserimenti cui andò soggetta Desdemona.
Un elemento è certo: la parte attirò tutte le più grandi primedonne dopo Isabella Colbran nessuna esclusa e per lungo tempo. L’elenco delle Desdemona nei soli teatri italiani coincide con quello delle maggiori primedonne soprano e mezzosoprano acuto (dette anche contraltini) dal 1817 al 1870. Geltrude Righetti Giorgi (a Siena) Elisabetta Manfredini (a Bergamo nel 1821), la Morandi, la Maffei Festa sino alle due Desdemone per definizione ovvero Giuditta Pasta e Maria Malibran cui si deve aggiungere dopo il debutto ancora sconosciuta in Italia Giulia Grisi, poi Desdemona parigina e londinese, beneficiata di aggiusti rossiniani, sino ad Eugenia Tadolini, quando nella prima parte di carriera cantava il repertorio “vecchio” e Rosina Penco, fuggitiva dal repertorio verdiano sino alle soglie della matura produzione verdiana di Adelaide Borghi Mamo (uno degli ultimi mezzosoprani rossiniani) e Isabella Galletti Gianoli, soprano Falcon per definizione ed Anastasia Pozzoni Baraldi ,anch’essa voce pencolante fra il soprano ed il mezzo.
Pencolare fra il soprano ed il mezzo doveva essere la caratteristica di Isabella Colbran, anche se studi recenti, pur non corroborati dalla disamina degli spartiti della Colbran prima di Rossini (il dopo non esiste!) e davvero esigui nell’esame delle varianti della cantante l’hanno messa nella categoria dei soprani. Utilizzando categorie attuali perché, ripetiamo cosa nota, il mezzosoprano ai tempi di Rossini era la seconda donna. Va però osservato che verso la fine dell’epoca di rappresentazione di Otello nell’ottocento il ruolo fu di soprani Falcon come la Fricci Baraldi e la Galletti Gianoli (una di quelle famose per accento sonoro e scandito, calore e morbidezza vocale, ma anche difficolta sul do 5) o di mezzosoprani come la Borghi Mamo e visto il repertorio che tutte praticavano da Profeta a Favorita vien da pensare che la parte sarebbe stata ben conveniente non solo per tessitura, ma anche per ampiezza e sonorità ad una Cossotto o ad una Bumbry, rivedute ed educate alla pratica belcantistica. Certo è che le scritture della Colbran insistono sulla gamma centrale della voce (lo faranno anche quelle della Pasta oltre tutto con minori fioriture) prevedono ogni genere di figura ornamentale ed impongono che la cantante si periti in ogni genere di vocalità da quella languidamente e minutamente fiorettata del duettino e della canzone del salice (aria strofica variata da Rossini medesimo come la canzone di Armida) all’agilità di forza del finale primo del terzetto del secondo atto e del grandioso finale d’atto. Perché nonostante il protagonista nominale sia Otello, la protagonista vera è Desdemona cui spetta il grandioso finale secondo, la grande scena della prima donna. Le situazioni drammatiche previste, la scrittura marcatamente centrale che consentiva anche a soprani puri o assoluti (come ai nostri giorni hanno dimostrato Anderson e Cuberli, sulle altre avanzo riserve, pronto a dimostrarle con i fatti) di essere Desdemona erano elemento che giustificavano la predilezione di tante primedonne per tanta parte. La condizione è la solita il controllo della voce, la flessibilità, la capacità o meglio il fiato ed il sostegno per eseguire le fantasmagoriche figure ornamentali rossiniane, la capacità di accento nei momenti drammatici declamatori. Poi se, come nel documentato caso di Lella Cuberli o di June Anderson si ricorre (vedi gli attacchi di “assisa a pie’ d’un salice” che sono re sotto il rigo) a qualche accomodo a qualche interpolazione in zona acuta per rendere la drammaticità della scena si fa solo un servizio all’autore oltre che mostra della propria arte e delle cognizioni filologiche proprie o di chi abbia “accomodato” la parte. Professione questa un tempo quasi più importante del direttore d’orchestra ed oggi praticamente sparita o praticata da incapaci impiastri.
In tutta la tradizione esecutiva ottocentesca, che si può ricavare da una disamina anche superficiale dei libretti a stampa e delle cronache del tempo due restano i caposaldi solistici che non si poteva e doveva toccare ovvero la scena che chiude il secondo atto e la lugubre nenia dell’Assisa a piè d’un salice (sì famosa da ammettere anche parodie in chiave comica), ma c’era sempre il diritto di prima donna, che superava e trascendeva l’autore, quella legge non scritta e pure altrettanto valida, che muoveva il teatro ovvero il diritto della primadonna di dar il meglio di sé e di dimostrare sempre e comunque tale proprio status. E quindi la prima donna, che non si chiamasse Isabella Colbran, doveva il più delle volte entrare in scena, ovvero cavarsi con un numero solistico. Quel numero solistico che alla voce di lenta combustione probabilmente della Colbran post 1816 (Elisabetta primo titolo napoletano per la cantante madrilena prevedeva una cavatina, eliminata per le riprese Viennesi del 1822 quando la Colbran era piuttosto acciaccata) poco o nulla conveniva, salvo che non fosse un arioso come O mattutini albori. E allora le primedonne anche quelle che amavano e pretendevano il genere declamato, il grande recitativo come Giuditta Pasta provvedevano in proprio. Sarebbe l’accurata disamina del come provvedevano le varie Desdemona, ad avviso del Corriere della Grisi, un superamento di quella filologia tignosamente e contra la legge del teatro ancorata alla prima esecuzione ed al feticcio dello spartito originale ed un omaggio alle grandi dive perché questo pensiero deferente meritano quelle signore che inserivano alzata di una terza e con le parole modificate, la cavatina di Malcolm (Giuditta Pasta a Parigi) oppure la grande aria di Meyerbeer del Crociato in Egitto (Oh come rapida, sempre Giuditta Pasta, ma in provincia ovvero a Mantova per altro in compagnia di Donzelli), l’aria da baule “Il soave e bel contento” tratta dalla Niobe di Pacini ad opera di Maria Malibran che talora (Venezia 1835) inseriva un brano essenzialmente contraltile come la cavatina di Don Diego dalla Donna Caritea di Mercadante “L’alma incerta o ciel paventa” cui faceva da contraltare l’abitudine di Elisabetta Manfredini Guarmani di inserire (Bergamo 1821) quale cavatina di sortita l’aria del Sigismondo, di cui era stata prima interprete, mentre la Bonini, allieva e partner di Velluti sceglieva una cavatina di grande difficoltà acrobatica come l’aria della ghirlanda “Della rosa il bel vermiglio” del Bianca e Falliero.
Una cosa è certa la sorpresa a quei pubblici non veniva come nel nostro caso dalla qualità (oggi più spesso scadente che eccellente) dell’esecuzione, ma di quel che la primadonna proponeva al proprio pubblico.
G. Meyerbeer
Il crociato in Egitto
O tu, divina fè…Ah, come rapida – Martine Dupuy (1990)
Direi che non c’è dubbio che la Colbran fosse (ovviamente anche per ragioni extramusicali) la vera protagonista di tutte e nove le opere napoletane di Rossini, comprese le tre che non menzioniano nel titolo il personaggio principale femminile (Otello, Mosè e Maometto). Forse è solo nella successiva Semiramide che il suo protagonismo viene in parte offuscato o comunque affiancato da quello di Arsace (che diversamente da lei beneficia di un rondò nel secondo atto).
però nel Ricciardo non è una grande parte quella scritta per la colbran il meglio se lo portano a casa i due tenori!
Beh in effetti Zoraide è probabilmente il ruolo Colbran meno interessante, però direi che a livello di “convenienze teatrali” il suo protagonismo rimane confermato: l’ultimo numero dell’opera, quello cioè in posizione più ‘esposta’, è la sua grande aria multisezionale “Salvami il padre almeno”, che sfocia senza soluzione di continuità (con uno sperimentalismo tipico del Rossini napoletano) nella breve battaglia e poi nel “vaudeville” finale. In quest’ultimo non a caso l’ultimo couplet spetta proprio a Zoraide, esattamente come nel vaudeville finale del Barbiere di Siviglia l’ultimo couplet spettava a Garcia, vero protagonista dell’opera.
Se vogliamo è piuttosto nel Mosè in Egitto che il protagonismo della Colbran risulta un po’ sacrificato in nome della coralità del soggetto biblico, e tuttavia anche lì è la grande aria di Elcia a chiudere il secondo atto (e con esso l’intreccio drammatico, dopodiché il terzo atto funge in certo senso da epilogo). Insomma in tutte le opere napoletane l’ultimo numero solistico spetta sempre alla Colbran, il ché mi sembra parecchio significativo.
sarebbe interessante vedere e sapere se qualche Zoraide post Colbran (e ci furono perché il titolo venne rappresentato sino agli anni ’50 dell’800) aggiungesse una cavatina di sortita come facevano molte Desdemona
http://youtu.be/9VZ86R0-4JI
Per I ‘giovani’ che non conoscono Eileen Farrell…
Amodomio: ai “giovani” d’oggi interessano solamente i riccioli di Kau-Kau. Indicare qualche cosa di diverso è tempo perso!