Se Firenze e Venezia si imposero fin da subito come centri propulsori del melodramma, lasciando poi a Venezia il ruolo di guida condiviso con Napoli, a partire dalla fine del XVII secolo, Roma, dal canto suo, iniziò contemporaneamente un altrettanto rapido e fertile percorso dando vita e diffusione al genere dell’Oratorio in latino, trasformandolo in un vero e proprio catalizzatore delle istanze controriformistiche in opposizione all’austerità del nuovo linguaggio musicale di Martin Lutero.
Da breve e semplice mottetto “concertato”, così come era stato immaginato dalla Compagnia del Santissimo Crocifisso presso la Chiesa di San Marcello in Corso a Roma, in pochi decenni l’Oratorio in latino (da non confondere con quello volgare, diffusosi a Bologna e Firenze), riuscì a cambiare completamente veste assumendo via via dimensioni sempre più ampie, finalizzate a sostenere non già un’azione liturgica bensì devozionale, educativa e dunque didascalica. In questa nuova veste l’Oratorio latino rimase strettamente legato a due aree geografiche o meglio, a due istituzioni ben definite: la sopracitata Chiesa di San Marcello in Corso a Roma e gli Ospedali delle putte a Venezia.
Alla Pietà, l’Ospedale presso cui operava Vivaldi, il primo Oratorio venne rappresentato nel 1684. Da allora fino al 1820 vennero eseguiti circa cinquanta Oratori in latino composti da tutti i diversi maestri di coro che precedettero e seguirono l’operato vivaldiano: Francesco Gasparini, che Vivaldi sostituì nel 1713, ne compose ben otto, Andrea Bernasconi (tra il 1744 e il 1751) cinque e Bonaventura Furlanetto (tra il 1768 e il 1808) addirittura trentuno. Trattandosi di istituzioni femminili, i soggetti di questi Oratori non potevano che recuperare tutte le grandi protagoniste della letteratura sacra come Maria Maddalena, Atala, Abigail e Susanna, spesso dispiegando, per la loro messa in scena, un vastissimo numero di voci e di strumenti.
In questo contesto veneziano e più in generale italiano si inserisce l’avventura di Vivaldi nel genere dell’Oratorio. Avventura che ha inizio nel 1713, anno in cui il Prete Rosso prende il posto del collega Gasparini, quando gli viene commissionato un Oratorio (andato completamente perduto) ispirato alle vicende di Papa Pio V, che era stato canonizzato da Papa Clemente XI l’anno prima a Roma. Seguirono nei tre anni successivi Moyses Deus Pharaonis, composto nel 1714 ma rappresentato presumibilmente due anni dopo, e Juditha Triumphans devicta Holofernis barbarie (1716). Quest’avventura si chiuse nel 1722 con la composizione di un altro Oratorio (anch’esso perduto), che rappresentava invece le vicende dell’Epifania. Di questi quattro oratori, oltre al Moyses Deus Pharaonis, di cui non è rimasto che il libretto conservato presso la biblioteca dell’Accademia di Santa Cecilia, l’unico ad essere sopravvissuto nella sua completezza musicale e testuale fu appunto Juditha Triumphans, nome con cui è stato poi tramandato.
Il mito della donna ebraica Giuditta che, decapitando il generale delle truppe assiro Oloferne riesce a liberare la propria città sotto assedio, non era affatto sconosciuto al mondo musicale italiano e in generale europeo. I due protagonisti, Giuditta e Oloferne, attirarono subito l’attenzione di numerose schiere di musicisti (non ultimo Honegger con la sua Judith) per la loro estrema teatralità e forza drammaturgica: lei, eroina scaltra e virtuosa, lui, furioso tiranno domato dalla forza dell’amore. La prima veste musicale la diede Marco da Gagliano nel 1626 con La Giuditta, seguito nel 1668 da Maurizio Cazzati (Bologna) e Antonio Draghi a Vienna e dalla celeberrima Giuditta di Alessandro Scarlatti del 1693. Nel 1700 il tema di Giuditta venne poi ripreso per composizioni simili da Carlo Badia sempre a Vienna nel 1704 e da un famoso collega del Prete Rosso, Benedetto Marcello, che mise in scena un Oratorio sulla celeberrima eroina ebraica nel 1709.
Ed è proprio il mito di Giuditta ad essere scelto nel 1716 dalla Repubblica di Venezia come soggetto per un Oratorio, o meglio un Sacrum Militare Oratorium, da commissionare al maestro di coro dell’Ospedale della Pietà, Antonio Vivaldi, per festeggiare la vittoria della Serenissima nella difesa dell’isola di Corfù assediata dai Turchi, vittoria che nel 1718 porterà Venezia ad ottenere il controllo della Dalmazia grazie alla Pace di Passarowitz. Il tema della vittoria del popolo ebraico contro l’invasore assiro, con la sua già pregnante teatralità religiosa, si prestava perfettamente in questa circostanza a diventare una trionfale e gloriosa allegoria di una Venezia prima in angustie, ora vittoriosa e imbattibile. Nel mettere in musica i versi in latino di Jacopo Cassetti, Vivaldi non mostrò alcun limite nel dispiegamento di strumenti e voci: tutte le putte dell’Ospedale vennero usate e disposte da un lato in un coro a quattro voci miste (con possibili inserimenti di voci maschili esterne) dall’altro in una immensa orchestra che prevedeva l’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione, dalla viola inglese al misterioso salmoè (strumento simile ad un oboe a doppia ancia), dal clarinetto alla tiorba.
L’Oratorio, diviso in pars prior e pars altera, appare formalmente organizzato come le opere italiane di quel periodo: arie e recitativi si susseguono alternandosi nella migliore tradizione metastasiana con però frequentissimi interventi del coro sia in parti esclusivamente dedicate ad esso sia in dialogo con uno dei personaggi. Un altro aspetto marcatamente operistico è la struttura interna delle singole arie che seguono la struttura bipartita A-B-A dunque col Da Capo. Su questo ordine, tipicamente operistico, si dispiega la storia biblica di Giuditta, storia che Cassetti riduce e modifica pesantemente: Ozias, governatore di Bethulia, diventa un alto sacerdote del popolo ebraico, avvicinandolo in questo senso alla figura di Joakim, sacerdote di Gerusalemme. Al trio tradizionale, (i soprani Juditha, Holofernes e Ozias) si aggiungono due personaggi (contralti) a cui Cassetti, in un’ottica squisitamente melodrammatica, dà un ruolo assolutamente centrale di confidenti e non più di semplici aiutanti: Abra, la serva di Giuditta, e Bagoas (trasformato in Vagaus), servo di Oloferne.
A sostituire la sinfonia d’inizio ci pensa un trionfante e luminoso coro di soldati, in cui le parole “Arma, caedes, vindictae, furores, angustiae, timores, pecedite nos”, di epica memoria, pongono fin da subito l’accento sul mondo militare. Il coro, in re maggiore, è chiaramente tripartito (anche se la parte centrale, in si minore, dura solamente undici battute) con una struttura che richiama chiaramente quella del Da Capo. Come detto prima, il dispiegamento di mezzi non ha eguali nel repertorio vivaldiano, e questo coro lo mette subito in chiaro: il coro misto a quattro voci e l’orchestra al gran completo sono accompagnati da timpani, trombe e oboi, organico che tornerà nel coro finale “Salve invicta Juditha”. Oltre ad avere una posizione di apertura e di chiusura dell’Oratorio, il coro, seguendo la migliore tradizione oratoriale, torna nel corso della vicenda nelle vesti sia dei soldati assiri che delle donne della città di Bethulia. L’uso che Vivaldi fa del coro è per lo più omofonico, dal gusto melodico semplice, chiaro ma originale e sempre dotato di una significativa aderenza al contesto drammaturgico. Se nel primo dei due brani ad esso dedicati, “Mundi Rector de Caelo”, il coro appare caratterizzato da una linea morbida e profondamente mistica trattandosi appunto di una preghiera delle donne bethuliane perché Juditha possa uscire vittoriosa nella sua impresa spensierata, il secondo, “Plena nectare non mero”, che i soldati assiri intonano per accompagnare il sontuoso banchetto che Holofernes prepara per sedurre la bella Juditha, si avvicina invece ad un ritmo più spigliato, quasi danzato.
Come molti dei tempi centrali dei suoi concerti, nella Juditha i recitativi sono decisamente labili in quanto brani di transizione modulanti da un’aria all’altra. Alcuni esempi: a un’aria in fa maggiore e un recitativo in do maggiore modulante in fa minore Vivaldi fa seguire un coro in re maggiore o, come succede in altri punti, due arie, la e do minore, vengono collegate che modula da do maggiore a mi bemolle maggiore passando per do# minore. Insomma, come sempre, Vivaldi non lascia nulla al caso, cercando invece di unire il tutto con una sottile ma solida organizzazione armonica. Organizzazione armonica in cui si inserisce uno straordinario gusto melodico, come testimoniano le numerosissime arie.
E sono proprio le arie a svolgere il ruolo di assolute protagoniste di quest’Oratorio. Seguendo il modello metastasiano, l’aria è un momento in qui l’azione del recitativo si ferma, si arresta momentaneamente per permettere al personaggio in scena di commentare gli avvenimenti mettendo in mostra i suoi sentimenti e le sue emozioni, ovviamente vincolate ad una estetica teatrale (e in questo caso pure religiosa e didascalica) ormai da tempo codificata e consolidata. Nelle arie, inutile dirlo, Vivaldi tira fuori il meglio di sé. Innanzitutto per l’estro e la facilità nelle melodie, per la diversità e sapienza nella strumentazione e per l’originalità nei pattern ritmici, caratteristiche che il Prete Rosso aveva già ampiamente sperimentato e mostrato nelle sue raccolte di concerti. Le arie destinate a Juditha, la protagonista, sono quasi tutte caratterizzate da un’impostazione squisitamente melodica, ampia e sempre delicata, come nella sua aria d’ingresso “Quo cum Patriae me ducit” e soprattutto nella splendida aria “Quanto magis generosa” in cui chiede, con un pizzico di sensualità e seduzione, la clemenza di Holofernes affinché risparmi la sua città e il suo popolo in assedio. L’introduzione della viola da gamba (per cui è prescritta la scordatura), discretamente sostenuta dai soli violini, è tra le migliori pagine scritte da Vivaldi per questo strumento: è una frase in mi bemolle maggiore, semplice, immediata, emotiva, di grande fascino e respiro. A questo tema risponde Juditha con una linea vocale altrettanto chiara e ampia. Il suo è un canto discretamente melismatico, centrale (re3-mi4) ma, come sempre in Vivaldi, caratterizzato da ampio fraseggio e da una notevole morbidezza.
Completamente opposta, perché opposto è il personaggio, è la scrittura di Holofernes: le sue arie appaiono caratterizzate da un tono decisamente più nervoso e teso, spesso agitato e furibondo, pure quando, come nell’aria iniziale “Nil arma, nil bella”: pur essendo in tonalità maggiore, Vivaldi riesce ad attribuirgli un velato tono autoritario ed inquieto. Tutte queste caratteristiche risultano ancor più evidenti in “Agitata infido flatu”, evidentemente inserita per una allieva particolarmente dotata. Siamo nella scena della seduzione, durante il banchetto. Mentre Juditha seduce abilmente il generale assiro, egli si ferma per cantare questa aria (in alcune versione però affidata alla protagonista), tutta basata, nel miglior stile operistico barocco, in una similitudine tra una rondine affaticata dal viaggio che torna nel suo nido a godere nel riposo e della pace e Holofernes che, dopo le lunghe fatiche militari, torna in tenda a godere di ben altri piaceri… Il tono è, appunto, agitato teso, in un severo sol minore. La struttura è semplicissima e, proprio per questo, affascinante: violini e viole si alternano a vicenda due temi, uno ritmico di rapidi e nervosi sedicesimi, e uno più melodico di scale cromatiche di minime mentre il basso, con quartine ottavi profondi e cupi, garantisce una stabilità e una solidità sulla quale si inserisce la voce di Holofernes. Voce che si districa in una scrittura ancora una volta centrale imitando talvolta le scale cromatiche degli archi o più spesso eseguendo fioriture e brevi melismi.
Per quanto riguarda gli altri personaggi Vivaldi continua sulla stessa strada offrendo pure a loro arie di ottima fattura nel corso di tutta la vicenda, primo fra tutti Vagaus, a cui affida due delle più belle arie di tutto l’Oratorio, “Matrona inimica” con cui il servo introduce ad Holofernes la nobile donna nemica, Juditha, e, soprattutto “Armatae face”, aria d’esecrazione e di vendetta cui il servo di Holofernes si lancia vedendo il cadavere del generale a terra in un mare di sangue. Non vi è scena più bella in tutta la letteratura vocale di Vivaldi per il suo pathos, la sua forza teatrale e la sua energia musicale. La scrittura di Vagaus è decisamente tra le più elaborate e virtuosistiche di tutto l’oratorio, e quest’aria lo dimostra chiaramente. Diverso è il discorso di Ozias, il sacerdote, a cui vengono affidate due brevi scene di scarso interesse musicale a chiusura delle due partes.
Vivaldi vive in un’epoca musicale tanto affascinante quanto criticabile (ed effettivamente criticata) non soltanto per l’esasperante necessità di novità della società barocche, necessità che scaraventava nell’oblio opere e concerti di recente composizione uno o due mesi dopo la loro prima esecuzione, ma soprattutto per la sovente superficialità di molti compositori che non di rado mostravano di preferire la quantità alla qualità (basti pensare alle avventure operistiche di Albinoni e di Marcello a Venezia o di Sarro, di Leo e di Vinci a Napoli). Nel comporre (o più che altro aggiustare) opere Vivaldi stesso dovette volente o nolente adeguarsi a questo atteggiamento generale. Cosa che però non fece con la Juditha Triumphans: forse perché intimorito e al contempo incitato da un incarico così prestigioso che gli avrebbe permesso di fare uso di tutti gli strumenti e voci dell’Ospedale della Pietà in un genere del tutto nuovo, Vivaldi realizzò un assoluto capolavoro che, al di là comunque di una eccessiva prolissità drammatica di cui egli stesso pare a volte essere colpevole assieme al librettista, si può senza eccessive forzature annoverare tra le migliori opere del barocco veneziano e italiano in generale. E questo grazie ad una affascinante caratteristica che abbiamo visto in tutte le opere sacre analizzate in questo breve ciclo: e cioè la capacità di superare, senza annullare, un’estetica musicale e, in questo caso, teatrale codificata e solidamente disciplinata da rigide regole stilistiche e grammaticali. Vivaldi fa sue queste leggi da degno figlio della sua epoca per passare oltre dando così vita ad un linguaggio musicale del tutto nuovo e non soltanto per la bellezza e la semplicità dei suoi celebri ritornelli e per la freschezza e agilità del ritmo ma soprattutto per quel nuovo equilibrio che Vivaldi stesso riesce a creare tra i vari strumento così come tra solista sia strumentale o vocale e orchestra: senza utilizzare in modo massiccio e pesante tutta la ricca compagine di strumenti, il Prete Rosso ne fa un uso saggio ed equilibrato soppesando ogni momento dialogico, ogni modulazione armonica e frase melodica, facendo attenzione non solo al singolo elemento ma anche a tutto il complesso. Vivaldi così riesce a codificare il suo proprio linguaggio, la sua estetica musicale applicandola ad ogni singola pagina: e così ritroviamo il solito sistema modulante tonica – dominante – relativa minore – tonica, ritroviamo pure i ritmi “lombardi” e anapestici tanto amati dal veneziano assieme al frequentissimo uso degli archi a mo’ di basso continuo e via discorrendo… Dunque serialità. Ma è comunque una serialità efficace, elastica, che funziona e che, a distanza di esattamente trecento anni, continua ancora ad affascinare grazie anche ad uno dei suoi più brillanti e toccanti testimoni: la Juditha Triumphans.
Alberto Zedda:
Andrea Marcon:
Federico Maria Sardelli: