Agli inizi di carriera sulla scia di Fernando de Lucia e sopratutto di Giuseppe Anselmi (l’altro grande Werther, italiano ed in lingua italiana) Tito Schipa cantò anche compare Turiddu. Preciso non solo Turiddu, ma anche Mario Cavaradossi e Loris Ipanov, ruoli che credo già nei primi anni ’20 erano stati abbandonati, ma che, al momento del debutto di Schipa, appartenevano ancora al tenore di grazia, ove per “tenore di grazia” non si intenda affatto quelle specie di malcastratelli, che dagli anni dell’immediato dopo guerra si sono impossessati dei ruoli dell’opera settecentesca, rossiniana (prima comici e poi pure seri) ed anche Ernesto di Don Pasquale (cavallo di battaglia di Bonci, che cantava il ballo di Verdi) e Nemorino, ma il cantante contrapposto al tenore di forza o drammatico quelli che eseguivano con accento solenne e scandito, acuti altisonanti Meyerbeer, Halevy, Verdi ed il Tell e Poliuto. Schipa, voce modesta e limitata in natura (corto in alto, soffocato in basso, ma capace di grande espansione e risonanza, tanto da non temere partner come la Cigna e la Ponselle e dalla dinamica praticamente infinita ed illimitata, che -come diceva Celletti- gli consentiva di “incantare il pubblico”) era il prototipo di ben altro tenorismo. Affronta Cavalleria rusticana da Schipa ovvero con una dinamica infinita, con un controllo assoluto del fiato ed il legato esemplare, certo senza la voce di Turiddu come l’intendiamo adesso ed in parte come coevi al grande Tito già andavano dimostrando e praticando molti colleghi