Un sottile velo di tulle separa il palcoscenico dalla scenografia che ricostruisce la tenuta di Bly: una scena fortemente stilizzata, disegnata da mano infantile su foglio bianco e poi come ritagliata e sovrapposta per creare gli spazi di una favola nera (scene e costumi di Maria Paola di Francesco e Marco Piemontese).
Saranno solo le luci (di Marco Giusti) a colorare il giardino accennato, la villa con i suoi tetti a punta, le sue torri dalla cui sommità si aprono misteriose finestre, la facciata disegnata in modo incerto dalla tecnologia 3D, gli interni del maniero mutati in sagome, simulacri di oggetti, ombre a loro volta di qualcosa di non bene definito.
Le luci, dicevo, così acide o lattiginose segneranno gli spazi e la divisione tra mondo dei vivi e mondo degli spettri e quando entrambi saranno in scena il contrasto sarà netto, l’effetto drammatico raggiunto con violenza psicologica che bene s’accompagna alle frasi del libretto.
Quint si trasformerà davanti a noi da semplice spettatore seduto in barcaccia, a Prologo, semplicemente scavalcando la balaustra e ponendosi sul proscenio, e poi in spettro cambiando la propria camicia, con una casacca traslucida dallo stile più retrò; prenderà posto sulla torre, Quint, o dietro il velo di tulle, aggirandosi nella foresta astratta o nelle camere accennate, presenza corruttrice lenta e strisciante, che solo alla vista della Governante prenderà colore perdendo la tenebra dell’invisibilità.
La Governante è il Cigno Bianco: porta con se a Bly questo Origami, sempre presente quando lei entrerà in contatto con Miles, e molteplici saranno le volte in cui l’uccello apparirà sulla facciata 3D della villa (elaborazione video a cura di Marco Farace), evocando quella purezza vittoriana didattica incarnata dalla donna.
La regia non ci risparmia l’attrazione evidentissima che la Governante prova per Miles, un flirtare innocentemente morboso specchio dell’innominabile intesa tra il bambino e Quint: di conseguenza tutta la scena finale diventa uno scontro per ottenere il “possesso” sul ragazzino e non un duello per salvarlo dalle tenebre o imprigionarvelo, e ricordiamoci che la Governante stessa ammette di essere stata corrotta dall’innocenza, una innocenza “annegata” (nel sangue) come ci ricordano i versi di William Butler Yeats pronunciati in modo blasfemo dagli spettri nel loro grandioso duetto.
E se, secondo il libretto, l’esistenza del fantasma di Peter Quint è probabile (quando la Governante descrive l’uomo sconosciuto visto sulla Torre è Mrs. Grose che lo riconosce come il defunto maggiordomo), Miss Jessel potrebbe incarnare i desideri più corrotti e amorali della Governante: essa è per il regista il Cigno Nero, quello di stoffa stavolta posato sulla spalla e legato al collo da una fascetta-guinzaglio schiavo e padrone del desiderio; e Miss Jessel indosserà gli stessi colori di Quint, sarà calva come lui, sarà l’antagonista torreggiante della Governante stessa, ne infesterà la camera, corromperà Flora e apparirà anch’essa nel finale.
Un finale che il regista (benedetto Sicca) risolve trovando una soluzione del tutto personale: Quint e Jessel, dopo l’esclamazione di Miles, rapiscono il bambino: in scena rimane solo la Governante a stringere il Cigno Bianco di carta, stavolta rappresentazione onirica di Miles; alle sue spalle Mrs. Grose e Flora, entrambe in camicia da notte, assistono al delirio della protagonista e la Grose la porterà, abbracciandola, dietro le quinte, mentre Flora all’abbassarsi delle luci tornerà in camera: Quint, Jessel e Miles non sono mai esistiti, se non nella mente frustrata della Governante, che li ha creati e uccisi per esorcizzare le sue perversioni nate dall’attrazione verso il loro tutore.
Affascinanti anche le ambiguità che il regista suggerisce con il 3D, come il groviglio di corpi nudi che emergono dalla facciata, che suggeriscono molto all’immaginazione; l’inquietante bambola di Flora, che rappresenta in piccolo addirittura la bambina, e che si trasformerà in un lago osceno e serpentino; Flora, una volta corrotta dalla Jessel che porta i suoi stessi occhialini neri; la bocca/palpebra/vagina dalla quale emerge una sfera che si rivelerà una testa, la medesima che ha ghignato beffarda fin dall’inizio e che si copre di connotati erotici poiché Miles e la Governante sono seduti specularmente al suo fianco; il suggerimento, fugacissimo, che il tutore sia stato l’assassino di Quint ed abbia procurato lo strazio mortale della Jessel.
Uno spettacolo intenso, didascalico, col difetto di far cantare i personaggi dietro al telo di tulle e di rimpicciolire la già piccola proiezione del suono anche in uno spazio ridotto come quello del Teatro Goldoni.
Voci piccole, ma molto sensibili e partecipi soprattutto sul lato femminile: Anna Ghillingham è una Governante dalla voce chiara e delicatissima, molto a suo agio nella declamazione centralizzante del ruolo e negli innumerevoli chiaroscuri del fraseggio; meno efficace sul passaggio e in alto nei quali fa capolino una certa asperità che però non compromette l’intonazione. Vibrante è però l’interprete che riesce a differenziare la tenerezza vittoriana e l’isterismo della donna paranoica in un crescendo di intenzioni.
Bene anche la Mrs. Grose di Gabriella Sborgi, che dimostra di divertirsi in questo ruolo da ingenua attempata dallo spiccato buon senso, calandolo in una dimensione da caratterista senza manierismi, birignao o truculente sopra le righe, ma concentrandosi su una buona linea di canto, sul timbro scuro che differenzia perfettamente con il lirismo della protagonista, ma inficiata da qualche durezza e fibrosità.
Ottima prova invece per la voce bianca di Rebecca Leggett: timbro luminoso, lievemente fisso, ma dotato di una buona linea di canto e di grande attenzione per il fraseggio; così che la sua Flora diventa una bambina molto più maliziosa, che con l’ipocrisia ed il sorriso beffardo (ed una capigliatura da Lulu) mostra la propria carica di malvagità svelandosi a poco a poco fino al climax finale.
Drammaticissima, passionale, inquietante sia nel fraseggio che nel look da bambola, la Miss Jessel di Yana Kleyn, forse la voce più sonora, attraversata da ombreggiature che caricavano nervosamente il fraseggio, nonostante una proiezione che in certi casi si riempiva di vibrazioni, che non disturbavano il canto
Le note liete però terminano qui, poiché se la regia era del massimo interesse, se le prove femminili offrivano una prova dignitosa, il lato maschile era deficit particolarmente duro da digerire e ascoltare.
Mediocre la prova di John Daszak, già Loge inudibile nel bellissimo Ring Mehta-Fura dels Baus (ruolo che riprenderà a Bayreuth questa estate), il tenore si presenta con una voce ruvida, dura, periclitante e completamente spoggiata e priva di corpo; i numerosi vocalizzi o gli acuti presi in un simil falsetto davvero irritante che purtroppo e ben poco potevano supplire una presenza scenica molto buona ed un fraseggio appropriato, ma non esaltante chiuso in una prevedibilità risaputa.
Come faccia una voce così a cimentarsi anche in Siegfried, resta una pura follia!
Ma ancora peggiore il Miles di Theo Lally: atroce nell’emissione, sgradevole nel timbro, imbambolato nel fraseggio, fissità assortite che uccidevano l’intonazione e anche il suo essere, scenicamente, albino e quindi “diverso”, veniva vanificato da una recitazione rigida e meccanica.
Mi aspettavo molto dalla direzione di Jonathan Webb, autore di uno “Stupro di Lucretia” sempre al Goldoni, che ricordo con affetto e commozione intriso com’era di umanità e pietà.
Questo “Turn of the screw” invece non ha sortito il medesimo effetto: per troppo creare l’atmosfera ha rallentato e sfumato troppo i tempi del primo atto, ha fatto suonare l’orchestra con colori fin troppo aspri, ha trasformato ogni tensione ed ogni fraseggio britteniano in una marmellata acida, omogenea terribilmente greve. Un poco meglio il secondo atto, in cui il duetto dei due fantasmi ha sortito un impatto emotivo al calor bianco e si colorava di quell’atmosfera soffocante e grandiosa di due menti votate al male; molto bene la scena del pianoforte con l’inganno dei bambini, e dello scontro finale, quasi narrati con la foga di un processo infantile, un’analisi musicale fin troppo lucida e terrena dell’innocenza della malvagità.
Si ha come l’impressione che Webb abbia voluto, più che proporre una sua visione della storia, far emergere dalla partitura quell’esercizio stilistico e tecnico, quegli artifici psicologici e musicali adottati da Britten, ma con il piglio dello studioso e non del direttore e narratore. Una visione fredda, impersonale e particolarmente pesante.
Successo finale per tutta la compagnia canora e per Webb, mentre “Pelléas et Mélisande” diretto da Gatti ci aspetta dietro l’angolo…