Ammetto di provare molte riserve per un direttore come Daniele Gatti.
Solo poche tra le sue direzioni mi trovano molto favorevole (“Armida”, “Dom Sébastien”, “Parsifal”, “Lulu”), mentre altre mi hanno lasciata perplessa, per non dire contrariata (tutto Verdi, pessimo, ma anche Puccini, “Meistersinger”, “Wozzeck”), quindi ero prevenuta nei confronti di un’opera in cui il direttore ha la responsabilità di essere coerente con una lettura che sappia valorizzare la cristallina teatralità della partitura, pena trasformare il “Pelléas et Mélisande” di Debussy in una melassa liberty grigiastra e indigesta parente prossima della narcolessia.
Lontano dai tenui, onirici florilegi di Desormiere, meno distaccato e analitico di Boulez, abbandonate le estatiche tenerezze di Abbado e la fragilità edonistica e turbata di Karajan, la direzione di Gatti tende a sposare una lettura più teatrale sulla scia di Kubelik, abbracciando il calore che la bacchetta di Gui emanava dal podio di Glyndebourne e l’immediatezza più matura di Ansermet.
Gatti parte da uno studio capillare delle atmosfere della partitura: l’atmosfera deve immergere i personaggi nell’ambiente e ritrarne di conseguenza le psicologie simboliche e sfumate per farle scendere sulla terra e rendersi accessibili. Questo procedimento, lontano da uniformare tempi e colori, nasce dal rispetto dei coloriti orchestrali organizzati in modo da non accompagnare la colonna sonora di tale esasperato simbolismo, ma approfondire le caratteristiche psicologiche dei ruoli. Pelléas e Mélisande sono dunque due adolescenti che ragionano in maniera casta e immatura, che vivono della loro sensualità acerba in un mondo o troppo luminoso o troppo in ombra, un mondo morente abitato da personaggi stanchi e anziani e da un popolo muto, malato e affamato che muore nell’indifferenza.
L’accompagnamento di Gatti scandisce l’eterno mezzogiorno e l’eterna mezzanotte che si alternano febbrilmente nei tempi lunghissimi coperti dal poema di Maeterlinck , ne enfatizza i continui contrasti incalzando la narrazione in un crescendo continuo, intriso ovunque di mistero e di non detto, ma che non teme di colorarsi dei rimandi wagneriani: il “Tristan” occhieggia morbido in ogni incontro tra i due giovani, esemplare sono gli episodi della fontana o la scena della torre tra i capelli di Mélisande, in cui in Pelléas è percepibile il montare della passione grazie all’intrecciarsi dei temi che dal Moderato richiesto si caricano di una intensità sempre più violenta, dai toni accesi eppure raffinatissimi; il “Parsifal” quando Arkel è in scena, mutandolo in un Titurel senza età e sfinito nella sua saggezza quasi sacrale; la “Walkure” quando Pelléas invoca Mélisande, non presente, e viceversa, anche in questo caso meditazione sensuale e ingenua dall’agogica palpitante.
Gatti non si risparmia nemmeno nella violenza di certe scene intensificando fino al parossismo la potenza fonica: una minaccia non più simbolica, ma reale, brutale soprattutto se pensiamo che sia associata al personaggio di Golaud, colui che invecchia e resta vittima ferita dei simboli, degli oggetti invisibili, ma che ovunque è l’unico essere più vicino alle pulsioni umane e quindi commuove e fa paura. Così la scena con il piccolo Yniold, tante volte confinata alla descrizione di un sogno irreale, possiede una concretezza scabra e animalesca; la violenta reazione dell’uomo davanti a Mélisande è per entrambi un urlo di dolore; il suo dolore al V atto diventa palpabile e riconoscibile.
Meno riusciti, forse, i duetti tra i due fratellastri nelle segrete e alla luce, nelle quali il tono per il troppo gelo che l’impregna si fa eccessivamente monotono: peccato, perché l’ispirazione russa di Debussy, quell’ambiguo avvertimento di Golaud, avrebbero avuto un impatto ben diverso se l’orchestra avesse evocato ancora una volta la tenebra e la luce come nelle scene precedenti.
Il V atto, invece, è immerso in un denso limbo musicale, un piano/pianissimo di lacerante tensione, preludio dello spegnersi di Mélisande, ma che resta come sospeso e non chiaro, dall’effetto espressionista suggestivo e tagliente.
Molte volte si è associata Mélisande all’Elektra di Strauss: sorellastre contemporanee ed entrambe facce di quella medaglia che corrisponde all’isteria femminile; Gatti si discosta da Elektra (tra le sue direzioni più algide, tra l’altro) e avvicina la sfuggente e allucinata fanciulla di Debussy più all’Imperatrice della “Frau ohne Schatten”, colei che compie una maturazione interiore per autodeterminarsi e accettarsi. Una ottima intuizione a parer mio, ed un ottima direzione coadiuvata da un’orchestra in evidente stato di grazia, dal suono eccellente che ha salutato e ringraziato meritatamente il direttore.
Un gradino più basso il cast tutto italiano, dalla pronuncia buona, ma perfettibile, nel quale si apprezza il gioco di squadra ed il lavoro di affiatamento evidente.
Parte male il Pelléas di Paolo Fanale, cantante più bello che bravo, perché a voce fredda mortifica un timbro piacevole e da tenorino, con una emissione sonora, ma caprina, che solo più tardi, a partire dal secondo atto, si sistemerà leggermente.
La tessitura da baritono Martin viene padroneggiata meglio nel registro centrale, con qualche prevedibile sforzo in quello grave e lo risparmia dai parchi acuti. L’accento si adatta alla lettura adolescenziale di Gatti per mezzo di un fraseggio che coniuga la malinconia e la gioventù con discrezione.
Monica Bacelli, interpreta Mélisande: il timbro e l’emissione non sono rifiniti, gutturale, senile il primo, ingolato la seconda, ma la tessitura centralizzante è padroneggiata piuttosto bene, non fa ascoltare stonature, l’accento deve faticare e intensificarsi per tratteggiare la giovinezza di questa donna immatura, diafana e indifferente, eppure sa piegarsi alla soffice e misteriosa declamazione francese.
Un Golaud maturo, fragile e dunque brutale, appassionatissimo nei riguardi di Mélisande (il verismo è dietro l’angolo, ma tenuto a bada) solitario, si staglia un Roberto Frontali in buona forma e con il suo gorgogliante vibrato sotto controllo da una emissione più sorvegliata.
E se Scandiuzzi, organizzando quello che rimane della voce, fa ancora ascoltare il suo timbro da vero basso nonostante le oscillazioni ed i cali di intonazione, la Ganassi, nelle due scene destinate al personaggio di Geneviève fa ascoltare una voce spaccata in almeno due tronconi, borbottante fino al parlato in basso, e la tessitura scende spesso, e chiara al centro.
Deliziosa, corretta e partecipe Silvia Frigato nel ruolo di Yniold, rozzo e sgraziato Andrea Mastroni sia nei panni del medico che del pastore.
L’allestimento di Daniele Abbado ha il difetto delle scenografie astratte di Giovanni Carluccio che racchiude la vicenda all’interno di due ellissi concentriche e scomponibili, scena generica e un poco scomoda per chi deve agire (Scandiuzzi, Frontali e la povera Frigato appesi alle curve creavano un po’ di panico per la loro incolumità) e vista parecchie volte anche in anni recenti (“Tannhauser” di Arlaud, “Tristan” di Lehnhoff, “Parsifal” di Warner, “Lucrezia Borgia” di Martinelli, “Rusalka” di Schweigkofler, “Pelléas et Mélisande” di Vitez, etc.).
Le luci, sempre a cura dello stesso Carluccio, erano però estremamente curate, immergevano l’azione tra i bagliori dell’acqua, continuamente evocata da Debussy, tra le ombre affilate della foresta e tra evocative proiezioni che negli impasti di colori ricordavano da vicino artisti come Rothko.
Gesti estremamente naturali e logici, costumi vaporosi e cappottoni alla tedesca di Francesca Livia Sartori, davano rilievo ai caratteri e non creavano stacchi nell’azione, mentre la regia aveva il pregio di narrare la vicenda senza spiegarla troppo diffondendo chissà quale ardita implicazione sociale e filosofica. Interessante il non luogo finale immerso in un candore opprimente al cui centro si staglia la morente Mélisande posta su una tavola metafora della sua pietra tombale, mentre intorno gli altri personaggi, dimentichi di Pélleas, si aggirano spaesati e lentissimi come se fossero gli ultimi esseri sulla terra.
Teatro festante alla fine, ma visibilmente vuoto per metà. Un vero, grande peccato.