Domenica sera ho varcato per la prima volta le porte della fiammante Opera di Firenze per assistere al concerto di Krystian Zimerman, già previsto per il mese di marzo e rimandato causa indisposizione del pianista. Quello che colpisce, del faraonico edificio in stile assiro-marziano (dotato, va detto, di un’ottima acustica), è il fatto che una parte della decorazione interna va già disgregandosi, nonostante siano passati meno di quattro anni dalla sua inaugurazione (o meglio, dalla prima di numerose inaugurazioni, che di volta in volta hanno dato lustro al politico o all’amministratore di turno). Un’immagine che è una potente metafora di un teatro (fedele specchio di una città) sempre più distante dal suo pubblico, che (stando a quel che mi riferisce l’amica Brandt) per il solito popola con moderato entusiasmo la sala e le sue immediate pertinenze. Fa quindi doppiamente piacere che il teatro si sia riempito per l’esibizione di un artista, notoriamente schivo e poco amante del marketing, alle prese con un programma non esattamente “popolare” nell’accezione più corriva del termine. Zimerman ha proposto, dopo le Sette variazioni facili in sol maggiore (la cui attribuzione a Schubert risulta, salvo mio errore, controversa), le ultime due sonate del compositore viennese, caratterizzate da un impegno virtuosistico pari a quello espressivo. Nella prima parte del concerto Zimerman è riuscito nell’impresa, che non sempre risulta agevole né, forse, auspicabile anche per i grandi interpreti di questo autore, di evidenziare la struttura della sonata D 959, di porne in risalto, per così dire, il meccanismo formale, esibendo un suono trasparente e un tocco distaccato, a tratti algido, quasi a voler prendere le distanze dal romanticismo esasperato, con cui solitamente viene resa l’estrema produzione pianistica (e non solo pianistica) di Schubert. Assistito una dinamica varia e sfumata (senza leziosaggini di sorta) e un virtuosismo tanto discreto quanto sicuro (come dimostra la perfetta esecuzione dei trilli e delle appoggiature), il solista onora il dettato dell’autore con un’esecuzione di perlaceo fascino, che attira maggiormente proprio laddove ricerca la distanza, come per contemplare meglio le supreme bellezze dello spartito. L’approccio muta leggermente nella sonata D 960, in cui l’esecutore risulta maggiormente coinvolto e opta per soluzioni dinamiche ed agogiche improntate a un maggior nervosismo, peraltro senza che il controllo tecnico venga mai meno o risulti anche solo parzialmente soffocato dal “trasporto” dell’esecuzione. Per quello che può valere, forse la prima parte del concerto mi ha convinto maggiormente, ma nella prima come nella seconda non ho potuto fare a meno di ammirare, oltre alla sicurezza dell’esecuzione, la tenace rinuncia a qualsiasi cedimento all’effetto, la capacità di proporre una lettura dell’opera che tenga conto della sua struttura complessiva e non (solo) dei singoli, bellissimi momenti di cui è composta (limite, questo, di tante esecuzioni, spesso assai brillanti sotto il profilo virtuosistico), in una parola la dedizione totale e senza sconti a un autore che è facile ridurre, per scarsa riflessione o eccessiva sicurezza nelle risorse dell’esecutore, a un buon melodista da salotto. Trionfo, e nessun bis. Non avrebbero, in effetti, potuto incidere più di tanto sull’esito, di per sé più che soddisfacente, della serata.