Chiedo anticipatamente scusa ai lettori ed agli amici con cui condivido l’avventura del blog per la mia ignoranza ed incapacità nel recensire la musica sinfonica. Purtroppo lunedì scorso al concerto della Filarmonica della Scala dove Maria Joao Pires ha offerto al pubblico il quarto concerto di Beethoven è andato solo quell’ignorante di Donzelli e quindi Donzelli dovete prendervi. Scusate!
La Pires è una semplice signora portoghese, famosa, celebre e celebrata da almeno quarant’anni come esecutrice di Mozart, Schubert e Chopin. In Scala ha eseguito, invece, Beethoven. Famosa e settantenne era la seconda volta che si esibiva in Scala. Questo è per i Grisini un elevato titolo di merito perché abbiamo osservato come i maggiori pianisti oggi in carriera ed in carriera da almeno qualche lustro abbiamo fatto occasionali e sporadiche apparizioni nel massimo teatro milanese, che pure vanta una stagione sinfonica e concertistica. Preciso, sentendone urgere il dovere, che una cosa sono i concerti della Filarmonica e altra quelli della Scala. La Filarmonica è, ufficialmente composta da strumentisti della Scala, ma non solo ha sede, modalità di vendita dei biglietti e direzione artistica autonome rispetto a quelle della fondazione, ma è ente autonomo.
Sicchè in alcuni casi come quello di Maria Joao Pires la presenza della strumentista portoghese alla Scala è pari ad uno. Il concerto del 1995.
Se teniamo conto della celebrità sua, di Marta Argerich (n° 9 presenze in tutta la carriera, l’ultima delle quali nel 1999: e si consideri che suona in tutto il resto d’Italia, Cremona e Brescia comprese), di Alfred Brendel ( n° 8 presenze sino al 2009 anno del ritiro), di Radu Lupu (n° 7 volte soltanto, atteso che suona piuttosto frequentemente in altre piazze), di Evgeni Kissin (n° 4 presenze), di Perahia (che si esibisce domani al conservatorio, come riferirà il nostro Garcia, ma che alla Scala si è visto l’ultima volta nel 2002). di Zimerman (n° 6 presenze centellinata: l’ultima nel 2010, la penultima nel ’92), di Schiff con “ben” 2 presenze (nel 1976 e nel 1999), di Buchbinder (n° 6 presenze in totale: mentre al Conservatorio era ed è presenza fissa per 4 o 5 concerti all’anno) il quadro è davvero deprimente. E se torniamo indietro scopriamo che Gulda e Richter nelle loro carriere sono passati alla scala rispettivamente 2 e 3 volte (mentre Lang Lang in soli 3 anni si è visto ben 8 volte! …cioé otto volte di troppo). Che dire poi di pianisti più giovani, consacrati in tutto il mondo come interpreti straordinari e premiati da dischi e concerti: Paul Lewis – uno dei maggiori interpreti attuali di Beethoven – non è mai pervenuto e François-Frederic Guy (grandissimo virtuoso e interprete di Liszt e Beethoven) è passato alla Scala una sola volta nel ’95 in una serata riservata, peraltro, all’Esposizione Internazionale dei Mobili d’Ufficio (segno evidente che persino chi si occupa di archivi, sedie girevoli e scrivanie ha più gusto, fantasia e lungimiranza musicale dei responsabili artistici scaligeri).
I numeri non sono mai fini a sé stessi, i numeri vanno interpretati e dall’interpretazione la depressione e la delusione aumentano in modo esponenziale.
Un pianista a differenza del cantante d’opera può apparire solo con il proprio strumento offrendo un programma autonomo di musica scritta esclusivamente per lo strumento, programma pensato, preparato provato e riprovato nel salotto di casa: un pianista, che si esibisca in un recital di musiche scritte per strumento solista, non ha bisogno di prove se non “riscaldare le mani” prima del concerto. Insomma è sempre pronto può esibirsi anche tutti i giorni, non deve subire le torture di inutili prove di regia, tanto per segnare qualche differenza con i cantanti ed aggravare le responsabilità di chi non convochi ogni anno od a stretto giro solisti della fama e qualità della Pires o di quelli che abbiamo citati, che – preciso – non sono i soli che subiscono e hanno subito l’ostracismo o il semi ostracismo del teatro milanese, che, in compenso, ha convocato ben 74 volte Pollini e affidato ad uno svogliato e sovente impreparato Baremboin cicli impegnativi come quello beethoveniano e quello schubertiano. In molti casi con i risultati che sappiamo: e le contestazioni sono molto rare per le esibizioni degli strumentisti, atteso che il pubblico del concerto è più pacato e tollerante di quello dell’opera.
E forse non è una coincidenza che, finalmente liberati dalla presenza dimenticabilissima del “maestro scaligero” part time (che poco o nulla lascerà nella storia del teatro milanese, salvo il brutto ricordo di routine mediocre, concerti imbarazzanti e miopia culturale) ed emancipati da chi dovrebbe forse pensare di aver già dato tutto e che, se proprio non vuole arrendersi alla dignità del ritiro c’è sempre il salotto di Fabio Fazio in TV, o quello parigino (rive gauche naturalmente) di Renzo Piano pronti ad accoglierne le memorie sessantottine (perché il tempo passa per tutti, come i soldalizi artistici e le imposizioni di segreteria), si iniziano ad ascolta – pur tra vergognosi ritardi e occasioni irrimediabilmente sciupate – i veri grandi pianisti.
Messa da parte la polemica devo dire della mia ammirazione per questa piccola e apparentemente fragile signora la cui precisione nell’esecuzione della scrittura del concerto è ammirevole. Le scale ed i trilli del primo movimento hanno una slancio ed una precisione oggi difficile a trovarsi accompagnate da un suono limpido e cristallini, coperto un poco solo nel primo movimento dall’orchestra. Nel secondo movimento, poi, i suoni sono pieni e sonori anche se ridotti a meno di un pp e la variazione dinamica è assoluta; dopo che hai sentito un suono che credi non possa rendersi più sottile ed evanescente ne senti uno che lo supera ancora per poi ritornare sonorità assai più piene. Un miracolo, che si rinnova poi al “rondò” finale dove slancio e controllo del suono e capacità acrobatica vanno di pari passo e non sai quale aspetto più ti colpisca ed affascini. Scusate l’ignoranza e la pochezza, valga una volta tanto l’approccio di uno spirito semplice!
Gli ascolti:
Ciao Donzelli, un bell’articolo su una grande pianista, precisa, cristallina, come tu hai ben detto, ma, soprattutto, interprete intelligente e sensibile, capace di dare introspezione e significato alla frase musicale. Come la Argerich, sempre a servizio della musica e non del culto della personalità, del divismo a cui tanto ci hanno abituato i cantanti lirici.
L’ho ascoltata in diretta radiofonica,molto brava,anche poi nell’intervista dopo il concerto
non c’entra nulla con il concerto ma dopo la fotografia del bombardamento della Scala e del nuovo bombardamento con la stagione prossima 2015-16, posto questo scritto della figlia dell’ing. Secchi (che ci ha ridato la Scala dopo il bombardamento del 1944.
La ricostruzione del Teatro alla Scala di Milano
L’Ing. Luigi Lorenzo Secchi Capo della Divisione Urbanistica del Comune di Milano nel 1932 ebbe l’incarico della costruzione della nuova scala degli specchi tra l’atrio della platea e il Ridotto dei Palchi. A questo seguirono altri lavori culminati nel 1936 con la costruzione del nuovo Ridotto dei palchi e nel 1937 del nuovo palcoscenico a ponti e pannelli mobili assolutamente innovativo e poi imitato in molti teatri d’Europa.
Certamente l’incarico più importante e oneroso fu la ricostruzione del teatro devastato dal bombardamento aereo del 15-16 agosto 1943. Mi piace a questo punto riportare le parole dirette di mio padre per quel momento terribile. “Nella mattina susseguente al quarto bombardamento a tappeto con ancora negli occhi l’amara triste visione della mia abitazione distrutta, mi incontrai sulla porta della Via Filodrammatici con Nicola Benois e Luigi Oldani, i cari amici con i quali ho condiviso tanti anni di lavoro scaligero. Non ci dicemmo una parola. Ci abbracciammo muti d’emozione. Chi non ha vissuto e lavorato per decenni nell’ambiente tutto particolare del Teatro alla Scala non può forse capire quanto profondo sia il grande amore, la passione che suscita in noi questo grande teatro. La grande sala splendente d’ori e perfetta d’acustica non era più: bombe esplose nel fastigio del muro perimetrale che dà forma alla sala, fatta una grande breccia nell’orditura dei palchi di sinistra, avevano sollevato le grandi capriate alla Palladio di circa trenta metri di luce, distruggendo d’un sol colpo il tetto e la volta centinata e questi precipitando nel vano della sala, avevano allargato lo scempio trascinando nel crollo tutta l’orditura della seconda e della prima galleria, l’intero proscenio con il prospettico arcoscenico a cassettoni, nonché lunghi tratti dei quattro ordini di palchi.”
La distruzione fu totale nella parte dei servizi dove le bombe incendiarie e dirompenti avevano distrutto le aule delle scuole elementari e di ballo, i saloni di coreografia, i laboratori ed i magazzini di sartoria, calzoleria e falegnameria, nonché i saloni dei cori e gli spogliatoi. Pochi danni subì invece il palcoscenico perché, al propagarsi dell’azione dirompente delle bombe, fece scudo il sipario metallico che divide la sala dal palcoscenico e che era rimasto, come sempre, abbassato alla fine dell’ultimo spettacolo.
Varie furono le reazioni di fronte a questa rovina: mentre Secchi fu da sempre sostenitore dell’idea che il Teatro dovesse essere conservato se non altro come cospicuo monumento cittadino, un gruppo di architetti e ingegneri ritenevano che i danni subiti dal complesso edilizio scaligero giustificassero la scomparsa di questa istituzione cittadina. Si chiedevano se avesse senso affrontare la ricostruzione della Scala senza attendere la fine della guerra e se la sala sarebbe stata ricostruita secondo i progetti originali del Piermarini o come si trovava al momento della distruzione, cioè con tutte le successive aggiunte? Inoltre a chi serviva la Scala? A chi servivano i vecchi teatri a palchetti? La Scala non è e non sarà sempre il teatro dell’aristocrazia? Il teatro di una minoranza di prediletti? Per tutto questo non è dunque la Scala un teatro scomodo, inutile, anacronistico e costosissimo?
Questi interrogativi avrebbero avuto una ragion d’essere se si fosse trattato di un’integrale distruzione del teatro, ma per fortuna ( o per sfortuna secondo alcuni) i danni erano gravissimi, ma non irreparabili e perciò un limitato ripristino, almeno per quanto riguardava la copertura e la chiusura della sala si imponeva e doveva essere iniziato con tempestiva prontezza per evitare che i danni divenissero di giorno in giorno maggiori. Pertanto, stando così le cose, ed essendo ancora il teatro per buona parte ancora valido nelle sua consistenza strutturale ed architettonica, cadevano le discussioni e gli interrogativi.
Nello stesso mese di agosto del 1943 vennero iniziate le operazioni di sgombero e la demolizione delle strutture pericolanti che richiesero l’opera di un centinaio di operai per circa 4 mesi. Per evitare che l’avanzare dell’inverno potesse rovinare le parti decorative e i fregi, i sei ordini sovrapposti dei palchi e delle gallerie vennero coperti con una tettoia anulare in legno e cartone catramato sorretta da una struttura di tubi in ferro. Il lavori dall’ottobre dal 1944 al maggio 1945 procedevano con una esasperante lentezza per chi progettava il ripristino per via del mancato finanziamento.
E’ importante rilevare che fu solo per l’opera fattiva e tenace dell’ “Ufficio Opera e Concerti” dipendente dal Comando Militare delle truppe di occupazione anglo americane rappresentato a Milano da due egregi artisti che la guerra aveva portato dall’America in Italia, il Maestro Capitano C. Petrillo e Sergente Hans P. Busch, sostituito poi dall’Ing. Magg. Chamberlain e per appassionato amore del Commissario Straordinario, Dott. Antonio Ghiringhelli, nonché per l’interessamento dell’Ing. Filippo Madonnini, Provveditore Regionale alle opere pubbliche, che arrivò il sospirato finanziamento che permise di dare un nuovo ritmo ai lavori.
La prima difficoltà da affrontare fu quella per la ricostruzione del tetto: mancando le travi in larice di notevole sezione e lunghezza si doveva procedere a due soluzioni: struttura in cemento armato o in ferro. I Vigili del Fuoco propendevano per il cemento, ma Secchi riuscì a convincere che la struttura metallica, lasciando intatta la grande volta della sala, avrebbe poi consentito più facilmente di essere sostituita da una struttura in legno qualora ne fosse riconosciuta la necessità per migliorare l’acustica e inoltre era la struttura più economica. Anche dal punto di vista importantissimo dell’acustica la struttura in ferro era preferibile a quella in cemento armato perché il suo ingombro nella cassa armonica, costituita dallo spazio compreso tra il soppalco in legno e il tavellonato sottotegola , era assai prossimo a quello costituito dall’insieme delle capriate di legno.
Ma come è stara ottenuta questa misteriosa acustica che tenne tanto in ansia Secchi perché allora non c’erano strumenti che dessero la possibilità di una verifica che potesse indicare se il lavoro fatto fosse buono o meno? Infatti la conferma che la ricostruzione della volta era stata eseguita perfettamente l’ebbe solo dal Maestro Toscanini, la sera del famoso concerto di inaugurazione del teatro l’11 maggio 1946, quando nell’atrietto della platea non ancora ultimato, Secchi si sentì dire a proposito della domanda rivolta al Maestro sull’acustica: “è come prima, meglio di prima”.
Come si era potuta realizzare questa misteriosa acustica esaltata dai più grandi artisti che hanno avuto occasione di cantare alla Scala e che hanno scelto questo teatro rispetto ad altri per l’incisione dei loro dischi?
Un giorno dell’anno 1936 era giunta al Podestà Pesenti una lettera circostanziata nella quale si denunciava che gli spettatori rischiavano di essere sepolti dal crollo del tetto pericolante. A questa si aggiunse una lettera scritta dopo alcuni mesi al Podestà dal Prefetto per cui fu riunita una Commissione di tecnici di cui faceva parte anche Secchi, come architetto del Teatro, che ebbe l’incarico di fare una verifica statica della struttura portante del tetto. Proprio grazie a questo rilievo Secchi ebbe, dopo il crollo, la fortuna di avere una documentazione preziosissima ed indispensabile per riconoscere i frammenti delle centine e per ricostruire il profilo del soffitto della sala indispensabile agli effetti dell’acustica. La volta è costituita da 42 centine costruite con una doppia serie di tavole di pioppo tra loro accostate e inchiodate e sagomate secondo il profilo indicato dai rilievi e controllato su elementi di centine recuperati dalle macerie subito dopo il crollo. Le centine sono sospese con tiranti di legno, muniti alle estremità inferiori di due cavallotti snodati, ad un sistema di travi, pure in legno fissate alle catene delle capriate. All’intradosso delle centine furono inchiodati listelli di castagno, operazione molto difficoltosa che richiese l’opera di un canestraio della Brianza dai cui boschi furono fatti venire questi tondelli ancora verdi che con uno speciale arnese e con molta abilità dovevano essere spaccati per il lungo con una sezione dello spessore di circa un centimetro. Per inchiodarli alle centine furono fatte rifare alcune migliaia di chiodi uguali a quelli usati dai carpentieri del Piermarini: chiodi con la capocchia sfaccettata irregolarmente, larga un paio di centimetri e col gambo rettangolare strozzato all’apice. Ma non fu impresa facile perché ai primi colpi di martello vibrati dai carpentieri sulla testa dei chiodi con l’usata energia, i listelli si spaccavano in due e ricadevano sul tavolato dell’alto ponte steso sulla platea. Dopo vari tentativi si capì che bisognava che il gambo rettangolare avesse il lato maggiore parallelo all’andamento delle fibre dei listelli e che per conficcare i chiodi nei listelli si doveva procedere con piccoli colpi leggeri, arrestandosi al punto giusto corrispondente alla strozzatura presente nel gambo del chiodo. Le difficoltà però non finirono perché altro problema fu l’intonacatura dei listelli che, data la loro irregolarità, richiedevano un intonaco di spessore rilevante. Dopo vari tentativi finalmente si giunse all’esecuzione perfetta: il muratore doveva colmare il suo fratazzo di malta dosata ad hoc e doveva premere con tutta la sua forza contro i listelli muovendosi lentamente in modo che l’impasto si incastrasse abbondantemente tra gli interstizi dei listelli e rifluisse al di sopra degli stessi. In tal modo Secchi riuscì a ridare all’intonaco lo spessore originario e al soffitto l’originaria consistenza, cosa l’una e l’altra di enorme essenziale valore per l’acustica.
Quasi nessuno sa che l’11 ottobre 1944 fu eseguito un concerto, di cui esiste ancora la locandina con il programma, sul palcoscenico della scala diretto dal Maestro Weisbach perché la volta era già ultimata, diversamente da quanto più volte è stato affermato e scritto che il lavori di ristrutturazione iniziarono dopo il 25 aprile 1945, cosa che avrebbe reso impossibile l’apertura del Teatro l’11 maggio 1946.
In accordo con la Soprintendenza Secchi procedette poi al ripristino della Sala come era dal 1830 in poi, quando per “ Sovrana munificenza” la sala si rinnovò, ad opera del Sanquirico, architetto dell’epoca, nell’ornato della volta e delle logge con una decorazione stile impero che ancora oggi si può notare, nonché con il gran palco reale e del proscenio, e cambiando stile mutò radicalmente l’aspetto che le aveva dato il Piermarini con l’ausilio di due decoratori, il Lovati e il Reina.
Per quanto riguarda la decorazione della volta, in accordo con la Soprintendenza ai Monumenti fu deciso di riprodurre con assoluta fedeltà e accuratezza, senza ricorrere ad interpretazioni stilistiche non documentabili, la preesistente decorazione del 1879 che era quella rimasta fino alla distruzione bellica.
Il Pittore Fratino, valente scenografo ed insegnante di prospettiva fece il grande tracciato prospettico della decorazione sull’intonaco bianco della volta e quattro pittori lombardi Albertazzi, Jemoli, Migliavacca e Scaglioni, esperti al restauro delle decorazioni a fresco e a tempera ripeterono la decorazione dell’ignoto pittore del 1879.
Il grande lampadario sospeso alla volta che pesava ben 30 quintali era stato smontato durante la guerra prima della stagione autunnale dei concerti del 1940 e portato nei magazzini della Bovisa dove fu colpito dal bombardamento del 1943 e ridotto al fusto in ghisa dell’epoca dell’illuminazione a gas e ad un mucchietto di cristallo fuso. Come si poteva ricostruire? Attraverso una rete di amicizie e di conoscenze Secchi riuscì ad avere un piccolo ritaglio di una rivista di radiotecnica che riproduceva in formato 5×7 cm. nitidamente plafoniera e lampadario. Allora preso come rapporto di misura il superstite fusto nudo ebbe inizio l’interpretazione paziente della piccola fotografia dalla quale fu possibile rilevare la suddivisione dei bracci e delle catene di cristalli di Boemia. Il resto fu disegnato da Secchi col ricordo del vecchio lampadario. Quello nuovo, pur ottenendo lo stesso risultato, pur conservando le sue 352 lampade, pur essendosi arricchito di cristalli, pur avendo maggiore solidità, pesa 22 quintali meno del precedente.
Tutta la struttura della sala è in legno e per ricostruire i pilastri su cui appoggia il solaio a sbalzo dei quattro ordini di palchi e delle due gallerie e per rifare la banchina a ferro di cavallo su cui appoggiano le centine della volta non c’era a disposizione che legname di abete (era appena finita la guerra) poco stagionata che dava preoccupazione per le probabili deformazioni che avrebbe potuto subire. Secchi pensò allora di utilizzare quelle travi di larice che per lungo tempo erano rimaste accatastate attorno all’aiuola del monumento di Leonardo da Vinci. Grazie a un bravissimo artigiano, Bovolato, che si assunse il compito non facile di segarle nelle sezioni volute privandole dei chiodi e delle schegge che si erano incastrate all’interno durante l’esplosione e il crollo e per l’abilità di alcuni carpentieri abituati a costruire navi, a colpi d’ascia si riuscì ad inserirle nella trama superstite della ossatura portante.
A poco a poco il teatro riprese la sua forma e il suo aspetto. Con i calchi degli originali che erano in carta pesta, vennero rifatte le parti mancanti dei fregi dei parapetti a grifi, a putti, trofei e fogliame del Sanquirico. Lo stupendo vano della sala risorse pure nei suoi colori originali dominanti: bianco, oro, rosso. Furono ripristinati anche i pochi palchi elencati tra le opere d’interesse monumentale e fu ripristinato dai molti , ma non gravi danni anche il ridotto fatto da Secchi in tre mesi nel 1936 per privata munificenza.
L’arredamento della seconda galleria era anacronistico e inadeguato e pertanto anche il “loggione” venne rinnovato curando di dare la stessa dignità estetica del resto del teatro. Fu poi anche attuato l’impianto di condizionamento estivo e invernale,
L’attività gratuita di Secchi continuò anche negli anni successivi alla ricostruzione in quanto Conservatore degli Immobili con vari lavori all’interno della Scala tra i quali ricordiamo nel 1955 la costruzione del nuovo monumentale ingresso, il Ridotto della Platea, attuato a Scala aperta in due mesi, nel 1957 la costruzione del Ridotto delle Gallerie e delle due scale di accesso allo stesso, nel 1965 la Sala prefabbricata per i concerti , nel 1969 il rifacimento in un mese del soffitto della volta centinata sopra la platea, nel 1975 la costruzione della nuova biglietteria sotterranea del Teatro e altri lavori di carattere tecnico concernenti impianti di condizionamento, elettrici ecc.
Mi piace a questo punto terminare con le parole di Paolo Grassi che ebbe una grande amicizia e una grandissima stima per Secchi e che lo esortò insistentemente a scrivere il libro, (1778-1978 – Il Teatro alla Scala- Architettura tradizione, Società, Milano, Electa editrice,1977) dalla cui prefazione sono tratte queste parole. “..l’ing. Secchi ha considerato nella nobiltà indistruttibile del suo sentimento, l’incarico di Conservatore degli Immobili un servizio civico, senza nulla chiedere in quasi mezzo secolo e dando viceversa un contributo infinitamente prezioso con una purezza e dedizione di sentimenti che considero una delle fortune di questo teatro e un onore di cui la Scala e Milano possono ben vantarsi”.
Purtroppo in epoca recente pochi hanno saputo apprezzare questo “ Hobby durato mezzo secolo” (1932-1982) come mio padre definiva il suo lavoro alla Scala, Infatti nel 1997 forti pressioni economiche finalizzate alla rivalutazione immobiliare dell’ex area Pirelli, grazie alla costruzione del Teatro Arcimboldi che sostituisse la temporanea chiusura della Scala, avallarono la distruzione del vecchio palcoscenico perfettamente funzionante e non obsoleto. Nonostante la strenua battaglia per la sua conservazione attuata dai macchinisti e dal loro capo meccanico, da valenti scenografi come Luciano Damiani, Pier Luigi Pizzi, Franco Zeffirelli ecc. che avevano sperimentato la validità del palcoscenico nella messa in atto delle loro scenografie, e l’appoggio di 25.000 firme raccolte dalla sottoscritta con il semplice” “passaparola” da cittadini e personaggi della cultura italiani e stranieri, la struttura, esempio unico di ingegneria meccanica teatrale, fu demolita e questo contribuì ad aumentare l’oblio dell’unico vero artefice della ricostruzione del Teatro.
Luisa Secchi Tarugi
la signora Luisa Secchi Tarugi, gradirebbe un riconoscimento ufficiale alla memoria del padre da parte del comune di Milano o della Scala stessa. Intestazione di una piazza, una strada o quantomeno una lapide, un busto. Senza l’Ing. Secchi, non ci sarebbe piu’ stata LA SCALA DI MILANO. Io ho scritto , riscritto ancora scritto SENZA MAI ALCUNA RISPOSTA. Ci vorrebbe un’azione congiunta di tutti noi scaligeri, per far dare a questa sublime figura d’uomo, artista, tcnico, una giusta meritata luce.
Domenico Tassi