Grisiespo’ streaming. Turandot alla Scala e concerto in piazza Duomo.

2015-05-02 16.31.18Carissimi lettori, perdonate l’attesa che vi abbiamo imposto ( i vostri contatti al sito sia ieri che oggi sono stati davvero tantissimi ) ma le cose da dire sul concertone di piazza Duomo che sulla prima di Turandot erano talmente tante, anche di carattere generale e non solo specificamente musicale, che è stato necessario un certo tempo di rielaborazione. Del resto anche le presenze numerosissime nella nostra chat durante la diretta TV di Turandot dimostrano che questa prima era attesa al pari un 7 dicembre. Si è, infatti, inaugurata la stagione della direzione musicale di Riccardo Chailly, che il maestro ha promesso legata alla figura di Puccini ed, in parte, al verismo italiano mixando con eleganza ragioni culturali e commerciali ( i teatri ormai sono abbarbicati ai titoli arcinoti sennò non riempiono, in un vortice perverso che non allarga gli orizzonti e le competenze del pubblico ma, al contrario, li riduce diffondendo, di fatto, ignoranza ..). Il maestro Chailly spiega con sobrietà, voce pacata e nessun divismo, tecnico quanto basta da non scadere nelle filosofie o nell’autocompiacimento di sé, la sua visione di Turandot e di Puccini, che intende come capolavoro del novecento, fortemente legato al poi oltre che al mondo tedesco di Wagner, più intellettuale e meno spettacolare di quanto solitamente si intenda. E spiega il suo rapporto con la tradizione, la cui conoscenza è fondamentale anche per procedere, al limite, alla sua elisione, come nel caso del finale II di Alfano a favore di quello di Berio, da lui adottato perché, in buona sostanza, ritenuto più valido e presentato come punto di specifico interesse di questa nuova produzione scaligera. Questioni tutte interne alla musicologia che in altri campi artistici hanno trovato, grazie alla speculazione sul restauro sia architettonico che artistico, inquadramenti intellettuali assai più alti rispetto a quelli della musicologia odierna. Quello che l’autore ha avvallato, o che si è fortemente storicizzato nel tempo come l’operazione di Alfano, sfugge alle valutazioni estetiche per rientrare nel campo dei valori della storia: il migliore o il più bello non hanno senso come categorie di giudizio presenti, essendo risaputo, in questo caso, che l’opera è incompleta e che il finale di Alfano possiede una sua legittimità intrinseca. Essa vale per ciò che è, un completamento messo a punto da terzi che mai si è voluto spacciare per Puccini autografo, redatto secondo i criteri musicali del suo tempo. Berio è certamente più diverso perché ad altro mondo musicale appartiene, ma non è la maggiore o minore diversità rispetto al linguaggio musicale di Puccini che determina la legittimità di operazioni che sono comunque a posteriori del compositore, la cui Turandot è e resta uno dei tanti casi di opere incompiute della nostra storia artistica più o meno note, dalla Rondanini di Michelangelo alla Trasfigurazione di Raffaello, tantissime chiese o palazzi mai finiti, come il duomo di Siena etc, dall’Uomo senza Qualità di Musil qui citato dalla nostra Lily Bart, alla decima di Mahler stessa e così via. Una miriade di opere d’arte di ogni genere e tempo, pitture, architetture, sculture, sul cui completamento postumo a nessuno verrebbe in mente di pensare o discettare. Inutile qui aprire il tema del “completamento “ delle opere d’arte, o delle “aggiunte” come lo definirono nel XIX secolo. Diciamo solo che la legittimità dell’opera incompiuta è, al contrario, uno dei passi avanti più importanti del novecento rispetto al secolo precedente e non si vede il senso di amplificare oltremodo un dibattito che ha già percorso autorevolmente la sua strada all’interno della storia dell’arte. Detto ciò, legittima la scelta del maestro Chailly di adottare il finale di un compositore contemporaneo, Luciano Berio, come pure di preferirlo sul piano musicale a quello di Alfano, scelta artistica di spettanza del direttore d’orchestra che però non può costituire un parametro per valutare la qualità di una esecuzione musicale, in analogia ad altre questioni come quella dei tagli, che possono essere effettuati, criticati o apprezzati, ma che non possono essere, come oggi si tende miopemente o tendeziosamente a fare, un parametro di valutazione in meglio o in peggio di una prestazione esecutiva.
metropolis
Detto ciò, il maestro Chailly, coerentemente con quanto illustrato nella sua lezione agli studenti, ha diretto secondo la SUA visione, molto proiettata in avanti, al pieno novecento, la SUA Turandot, che per questo è risultata poco favolistica, poco monumentale, poco esotica e raffinata ed ancor meno suggestiva. Una lettura coerente anche con la visione proposta da Lehnoff nel suo allestimento, tutta giocato su misurati elementi Decò, ma sopratutto di avanguardia russa e di avanguardia cinematografica tedesca anni ’30. Il lato più apprezzabile del duo mi è parsa la coerenza logica dello spettacolo nel suo complesso e l’aver marciato in una direzione univoca che ha raggiunto la sua massima efficacia proprio nel finale di Berio. E proprio Berio, col suo clima rarefatto, il canto melodico dissolto, l’assenza di tempo e la vicenda d’amore sospesa in un clima quasi metafisico ha provato che la lettura così unilaterale scelta dal maestro Chailly non è adatta a Puccini, o meglio, non consente di restituirlo nella sua completezza. erte8 L’onirico, il favolistico, il monumentale, l’esotico, sono state vere componenti del Liberty come del Decò, anche quello più patinato, così come il popular è realmente l’altra faccia di Puccini intellettuale di livello internazionale. La componente teatrale di Puccini, quel suo senso straordinario della teatralità, il suo saper e voler fare anche spettacolo teatrale, è stato depurato come se fosse un aspetto deteriore e non una componente positiva del suo essere uomo di teatro. Eppure talvolta Puccini sconta letture intellettuali come questa, che pure ha ben funzionato, come se dovesse essere assoggettato a certe categorie volgarizzate della musica cosiddetta colta per cui il melodismo è cosa da superare, una concessione al popolino, la cantabilità un altro scotto da pagare ai melomani che vogliono prosaicamente sentire cantare, l’elemento favolistico e monumentale un’ulteriore concessione all’ottocento mentre furono tutte componenti riconosciute dell’arte di inizio novecento. Chailly ha saputo essere efficace anche perchè Puccini lo è di suo, fa tutto lui con l’orchestrazione, i mandarini, la corte, l’apparizione ultraterrena della coppia imperiale sono tutti minutamente descritti dall’orchestra. Il punto interlocutorio di questa lettura è stata la scena, di per sé straordinaria, dei tre ministri, al secondo atto, cui è stato negato dalla buca, oltre che dai tre barbari cantori e dal regista, il clima di favola, il racconto nostalgico del ripensamento alla quiete delle case agresti ed il respiro musicale che descrive la loro Cina oleografica, la nota di ironia sul loro destino di ministri di corte-ministri di morte. Sulla scena uno dei momenti più triti e deja vùe di Lehnhoff, con la rimasticazione del teatro espressionista tedesco o delle sue suggestioni grafiche di matrice suprematista, che non c’entrava nulla, così come tutto il trattamento del coro, i cappotti, le bende sugli occhi e il loro gesticolare parrocchiale con le maschere ora sul viso ora sulle ginocchia, che aprivano squarci sulla provincia tedesca post brechtiana di cui non ne possiamo proprio più.
Ha funzionato bene l’idea di illuminare la scena di uno stilizzato Lang di Metropolis con le apparizioni della coppia imperiale, Altoum a cavallo tra Ertè e lo stesso Lang, quella di Turandot tra Berdsley ed Ertè sia nel disegno del costume, bellissimo, che nelle cromie di quet’ultimo, i fondali piani ocra e rosso ceralacca. Proprio laddove Lehnhoff ha più citato il tardo Decò, quello sofisticato anni ’20, maggiormente ha funzionato la sua idea, come l’immagine perfettamente composta nella regia televisiva. Banale invece la risoluzione degli altri personaggi, Calaf, Liu e Timur. Insomma, diciamo che funzionava, ma con una certa cifra tedesca anni’70 che deve molto anche a Kupfer, soprattutto nella gestione delle luci e nella stilizzazione dei profili, che però continua a confermarci che siamo sempre più colonizzati intellettualmente oltre che economicamente dal nord Europa.
Questo allestimento e questa direzione avrebbero potuto sortire altri esiti se il palco, ossia il cast, fosse stato di alto livello, mentre è stato un luogo di naufragio cui è sopravvissuta, non senza mende, la signora Agresta, giustamente trionfatrice di una serata che sul piano vocale è stata semplicemente abominevole.
Disastrosa, ed aggiungo ben soccorsa dal finale di Berio che risparmia certe frasi scritte per spaccare le voci “Calaf davanti al popolo con me..”, la protagonista Nina Stemme. Solo un accumulo di difetti e di carenze assolute di tecnica che la costringono ad urla prese scoperte alla tedesca ed impediscono qualsiasi legato, qualsiasi colore della voce perché persino le più accreditate e crudeli Turandot avevano ben altre risorse. Per sentire una principiante basta ascoltare lo scivolone alla scena degli enigmi dove la cantante prima dell’ammonimento finale, che porta la voce al do5 ha letteralmente gridato. Altre grida scomposte all’invocazione al padre, un miracolo non quanto sonori in teatro i do sul coro al II atto. Silenzio costante del pubblico dinanzi a questo spettacolo provinciale. Come silenzio alla fine alle singole uscite quando, in epoca non colonizzata da gusti d’oltralpe, la cantante sarebbe stata riprovata.
Qualche riprovazione è toccata solo al signor Antonenko, che ha brillato per suoni mal messi e volgari, toccato gli acuti secondo la tecnica “io speriamo me la cavo”, perchè il dilettante solo così può provare a fare e sino a che la voce regge si tira avanti. Timbro morchioso, nessun intento espressivo, quadratura musicale talora latitante ma..tant’è, questo è il mercato internazionali delle grandi voci (!). Taciamo delle tre maschere: Angelo Veccia, Roberto Covatta, Blagoj Nacosky, la cui cose migliori sono state l’agir di gamba da avant – spettacolo, anzi, visto il clima, da cabaret di Weimer, ma il cantare uno e trino, che è la qualità della grandi maschere, proprio non c’era,
Liù a differenza di donna Leonora, Lucrezia Contarini Foscari o Norma conviene ai mezzi di soprano lirico di Maria Agresta, voce piuttosto vuota in basso, dove è continuo il ricorso a suoni tubati, non certo di smalto prezioso (tipo Maria Chiara, tanto per citare una grande Liù, ultima di una schiera di grandi Liù italiche che parte da Rosetta Pampanini ), provata in zona acuta, dove suona spesso falsettante, tanto che le filature sono poco sicure e tendono a rompersi. Cantare piano richiede un sostegno maggiore che cantare forte, dicevano i vecchi maestri ed i vecchi cantanti. Oggi si crede l’opposto, anziché appoggiare il suono oggi lo si “affonda” per ispessirlo, privando la voce di legato ma urlando in alto a piu non posso ed ecco fatta la fine di una scuola di canto. Abbiamo avuto una Liù di successo che certo non può competere, per materia prima ancor prima che per tecnica, con quelle della schiera popolata dalle Freni, dalle Chiara, dalle Tucci, dalle Stella, una fila indiana lunghissima di signore che se la Turandot non si nomava Nilsson soffiavano la serata alla protagonista senza tanta fatica.

E del resto non abbiamo nemmeno più un Pavarotti per andare in piazza con i concertoni nazional popolari, quelli che ti consentivano di rappresentare la lirica italiana in tutto il pianeta, tanto che, a rabberciare la serata sostitutiva del 1 maggio organizzata last minute per il 30 Pereira ha chiamato Andrea Bocelli, che tenore non è, che carriera lirica non ha, bensì è un cosiddetto cantante “cross”, di quel pop che ammicca al classico con puntate commerciali come i dischi con il sempre disponibile maestro Mehta e tanto di corredo di fondazione benefica stile “live aid” facciamodelbene come si conviene agli idoli della musica leggera. Al signor Pereira non affiderei mai la predisposizione di un cast né l’organizzazione di un programma musicale culturale di alcun genere, ma l’allestimento di un “evento”, come lo intendono i guru della televisione commerciale e del business discografico, si. Se l’evento sta nell’audience, anzi nello share, e nel mandare su un palco qualcuno di fama planetaria, ci siamo riusciti certamente. Come, immagino, anche a farci non dico disprezzare ma quasi per la volgarità del presentatore prescelto, che ha iniziato la serata sbeffeggiando tutte le lingue straniere diversa dal romanesco nella fase dei saluti, di fronte ad una platea serissima di politici e autorità di tanti paesi, e continuando imperterrito, con la sua casereccia compagna di avventura, su un target di battutine ridicole, frizzi e lazzi adatti ad un cabaret o ad una trasmissione di tv locale piuttosto che ad una mondovisione planetaria dedicata alla musica classica, anzi alla lirica, quale simbolo culturale del nostro paese. Abbiamo forse mai sentito sfottere le lingue straniere all’inaugurazione delle olimpiadi? O ai mondiali di calcio? Uno sproloquio a ruota libera, inarrestabile, culminato nelle gangs con Lang Lang, nella presentazione di Diana “Darmiau”, nel continuo dar di sedere suo e della sua collega al bravissimo Armiliato, che fino a prova del contrario è un direttore che dirige nei più grandi teatri del mondo e non un servo di scena cui nessuno ha rivolto la parola in diretta. Sapevano chi è i due presentatori? L’acuto finale però l’ha fatto la regina dei pranzi serviti, quando ha esclamato un nitido “cazzarola!!” che in mondovisione chissà che effetto avrà fatto. E la catastrofe televisiva si è poi completata con quella massmediatica del giorno dopo, tutta incentrata sul grande tenore di fama planetaria, che tenore non risulta essere a noi come alla lirica intera ma, ripeto, è cantante pop, definito in termini entusiastici come il portavoce italiano della lirica nel mondo, quello che senza le foie dei melomani ci fa sentire finalmente la musica popolare italiana come ““O mio babbino caro” dall’Andrea Chénier o “l’asso nella manica del Vincerò dal Nessun dorma” ( cit. Il Giornale ) ed altri catastrofici strafalcioni analoghi di una massa di commentatori incolta, planata per un nanosecondo a dire assurdità sulla lirica e a distruggerne immagine e contenuti per le platee degli occasionali. Eppure i cantanti c’erano, buoni o cattivi. Si è salvata per un pelo la strillacchiante Diana Damrau, partecipante forse perché a Milano per il concerto di canto dei prossimi giorni, ma del duo Meli Piazzola…silenzio. Eppure i cantanti lirici, con la pessima signora Borsi, erano quei 4, almeno per il pubblico. Tutti asserviti al Bocelli show, a dover essere grati di 2 minuti di mondovisione, il povero Armiliato sullo sfondo, il più bravo di tutti a mio avviso, che ha rincorso e ripreso gli svarioni di Bocelli con l’orchestra ed il coro della Scala che hanno lavorato benissimo, pronti per il prossimo show cultural televisivo utile alla retorica politica …alla Malpensa!
La chiamano “cultura”, cari lettori, cultura. E siamo così incolti ed appiattiti da non avere più nemmeno il senso delle cose, come Mamma Rai ci dimostra. Abbiamo problemi di cultura vocale di base, come documenta il calderone infernale delle definizioni inadeguate, dello straparlare, del non mandare in tv le cose secondo ordine e gerarchie di valori, ma minestroni insensati come il concertone di piazza Duomo dove la parte migliore della lirica è stata schiacciata dalle pagliacciate, dalle inadeguatezze, dal dilettantismo ( non voglio parlare di come suona il signor Lang Lang perché non serve qui..), come già in altre occasioni, vedi Arena di Verona us o altre consimilia.
Mentre il maestro Chailly prova con raziocinio a parlar di musica e musicisti la presentatrice della mondovisione, nella diretta di un evento che è e vuole essere colto, in uno dei massimi teatri del mondo, il top dell’Italia, accosta alle interviste ai musicologi la clip sul gruppetto pseudofolk, che suona gli ortaggi (!!!!), perché uno che soffia in una zucchina e l’altro che batte un melone a tempo prima di farci un minestrone sono un gruppo musicale adeguato ad una importante performance di opera lirica, come se si fosse ad una sagra del tartufo ! Siamo la terra del canto lirico, quella che l’ha inventata e che ha segnato ogni angolo del territorio, ogni paese, ogni città, ogni palazzo aristocratico con un teatro per…cantare. Prima del calcio avevamo il canto, vissuto con la stessa identica e completa passione, abbiamo scritto musica per fare cantare i cantanti, e non il contrario. I musicisti hanno composto per la voce perché quello era un culto nazionale vissuto da tutti, ricchi e poveri, uomini e donne, di ogni genere e qualità. Abbiamo esportato il canto e la nostra musica e siamo sempre stati una delle terre più generosa di voci, ma ora non riusciamo più a produrne, come ci ha ricordato Jonas Kaufmann, quasi a fare il verso ai moniti di BCE!, E infatti Bocelli ha preso il posto di Pavarotti quale icona internazionale. Perché? Perché la cultura vocale oggi non esiste più, l’abbiamo distrutta asserviti ad altri modi di intendere la musica, anche lirica, come abbiamo visto troppe volte alla Scala. Oggi una trasmissione bellissima, Petruska, diretta dal signor Dall’Ongaro su Rai5, illustrava Turandot, ancora con il maestro Chailly. Ci sono stati ben 20 minuti circa dedicati al tema degli indovinelli, con un enigmista che discettava con il redattore sulla differenza tra quiz e indovinello, cosa assolutamente inutile ed irrisoria, ma di canto non si è parlato praticamente mai, o quando si è arrivati sul tema, abbiamo sentito cantare malissimo. Ed allo stesso modo i telegiornali che hanno omaggiato il successo della prima di Turandot hanno fatto sentire un solo cantante del cast, il tenore, che del trio era il peggiore. Non sono casi, ma circostanze che provano lo stato delle cose.
Senza una cultura del canto non c’è lirica possibile, saremmo sempre più una colonia e tutto il resto, direttori e registi si assoggetteranno allo snaturamento ormai del tutto completato dell’opera lirica come teatro di regia, come concezione direttoriale, come letteratura musicale, come filologia, come tutto quello che si inventeranno ancora ma non come arte vocale. Se in questi giorni avessimo avuto Pavarotti sul palco con la Freni, o la Chiara o Bruson, e in Scala una Dimitrova o un Corelli, ossia detentori di quella che possiamo dichiarare del tutto estinta, la PRASSI PROFESSIONALE, non pensate che sarebbero state giornate molto diverse? Io credo assolutamente di si.
La figura iniziale è il libretto di Turandot, ma quello originale del 1926, mica il tarocco, che hanno pubblicizzato ieri sera. Come originale e non tarocco è l’ascolto.

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57 pensieri su “Grisiespo’ streaming. Turandot alla Scala e concerto in piazza Duomo.

  1. ““O mio babbino caro” dall’Andrea Chénier o “l’asso nella manica del Vincerò dal Nessun dorma” ( cit. Antonio Lodetti su Il Giornale )

    Che vergogna, anzi una vera borgogna. Sono illibato. Non si possono ammettere certi faldoni, o tempora o muori! Dissento, dissento e poi ancora dissento! Voglio qui rendere pubblica la mia profonda dissenteria!!! 😀 😀

  2. Mi spiace, ma non dissento per niente, lo abborro e basta, sono anni che mi compiaccio di non far più parte di un pubblico
    operistico, rifiutando anche la prosopopea della Rai (ahi ahi!) che non ha il coraggio di modificare la qualità sonora delle proprie riprese, quando ormai son dieci anni che analoghe strutture, vedi ad es. spagna e francia,perchè la rai deve strapagare divi e divette da oratorio, e quindi non avanza liretta per le strutture tecniche.
    Ribadisco abborro perder tempo a seguire falsi tenori e soprano,
    più preoccupati dei loro riccioli, che delle note che emettono, o delle loro terrazze senza fiori sperando di catturare consensi.
    Se ai miei tempi avessimo seguito tali accorgimenti, avremmo dovuto dire addio ad esempio ad un colosso vocale quale quello di una certa Anita Cerquetti. Eppoi non dimentichiamo che la Turandot per eccellenza tale Birgit Nilsson veniva ripresa solo di fronte, ma le note che emetteva farebbero invidia a mille Nina Stemme.
    Il seguire l’opera è seguire le note, e mi spiace ma debbo insistere
    quelle non provengono da riccioli, ne da seni prosperosi, ma dalla gola che deve esser preparata con studio.
    Chiudo condividendo al 100% quanto sciorinato da donna Grisi.

  3. Condivido quanto detto da M.me Grisi, ma mi fa un po’ sorridere la citazione di Pavarotti. Senza nulla togliere al valore artistico del grandissimo tenore, non posso dimenticare che certi “vezzi” sono stati valorizzati proprio nei tanti ultimi anni del suo regno. Non ci sarebbe stato Bocelli senza prima Pavarotti. La tradizione canora italiana è sopravvissuta al Di Stefano seconda maniera, ma non ai tre tenori, al loro mischiare repertori e generi, all’imporsi come modello attraverso le case discografiche e le loro “manopole”. Non ultime le manopole sui teatri. Lo star system comincia lì. La generazione successiva è stata sterminata e da lì non ci è più ripresi, con poche eccezioni non riconducibili al movimento artistico generale. E la tradizione canora si è poi portata nella tomba chi di voce e di opera ne capiva, in primis le bacchette e poi gli insegnanti. Seguono gli altri, tra cui i critici. Chiudo dicendo solo che, visto che oggi può cantare chiunque ma si fa tanto caso alla scenografia e alle luci, se proprio vuoi fare un concerto in piazza del Duomo, prova a valorizzarlo: non si poteva vede’.

    • Insomma è stato un tenore. Non mi pare che possiamo usare lo stesso termine per bocelli e Pavarotti, anche quello degli show ..quando il tenore era scomparso sotto lo showman. Di fronte all esibizione di bocelli dell altra sera i 3 tenori parevano cultura….!!!! ….il che è tutto dire no?

    • Insomma è stato un tenore. Non mi pare che possiamo usare lo stesso termine per bocelli e Pavarotti, anche quello degli show ..quando il tenore era scomparso sotto lo showman. Di fronte all esibizione di bocelli dell altra sera i 3 tenori parevano cultura….!!!! ….il che è tutto dire no?

  4. M.me ,Grisi, sono d’accordo al cento per cento.. Per me, la lirica è canto e cantare. Senza di quel elemento basilare è inutile andare avanti. Concerti inutili con microfoni e i presentatori imbarazzanti e inutili pure loro o opere senza il canto non m’interessano.
    Era tutto pietoso partendo da il canto. Non ho parole. Finché il pubblico e la critica pagata osannano questo schifo e i vari pereira di turno vengono confermati e riconfermati, non c’è speranza.
    I cantanti poi… Invece di spendere loro soldi su ripassatori di spartito inutili e in più casi incapaci, sarebbe meglio studiare un po’ di tecnica.
    Bah..

  5. D’accordo su tutto. Ma sento il bisogno di tornare sulla prestazione del signor Antonenko: e mi dispiace sprecare parole. Pure, ho trovato oltre i limiti dell’accettabile la sua voce ingolata, il suo provincialismo teatrale, la sua irresolutezza tecnica. Non mi è parsa soltanto la prova peggiore di quelle offerte da questo cast raccogliticcio, ma una vera parodia! Di Bocelli si sa, ma almeno cantava in un palesemente vergognoso concertone (bel)paesano e non Calaf alla Scala… O ormai è lo stesso?! È inaudito. Anzi, ahimè, troppo a lungo udito…

  6. Bocelli è purtroppo diventato una tale star che lo chiamano per qualunque tipo di inaugurazione, visto che non a caso fu a Shangai nel 2010. Ma cantasse ciò che sa cantare con qualche fugace puntata nell’ opera andrebbe anche bene e invece fa l’ esatto contrario. Inadeguato da giovane, adesso che ha superato da un pò i 50 e il declino inizia a farsi sentire, diventa inascoltabile

  7. Mettendo da parte per un attimo l’ ignoranza del povero Antonio Lodetti, che sul Giornale ha scritto il pezzo *vagamente leccacùlico* su Bocelli & “O mio babbino caro” da Andrea Chénier, mi soffermerei sul fatto che adopera il verbo “affronta”. Nel senso che è proprio un affronto, il fatto che Bocelli si ostini a voler cantare qualsiasi aria d’ opera al di fuori del suo box doccia.

  8. Mi sorge una domanda: esiste in Italia la possibilità di poter fare uno spettacolo in mondovisione Rai Mediaset o affini con conduttori all’altezza? Con artisti proponibili? Si nominano e rimpiangono sempre nomi di defunti o pensionati….c’è qualcuno che li possa sostituire? Un nome , per pietà un nome! Se mi guardo intorno il paesaggio è desolante. “Tutto è dunque finito?”
    Non amo fare complimenti, ma mi sono iscritto oggi e ho trovato l’intervento iniziale così coinvolgente e ricco di spunti come non ne leggo da anni. Grazie , “Giulia Grisi”.

  9. Un articolo del quale devo apprezzare molti e molti paragrafi, che se potessi usare un evidenziatore, evidenzierei, farei prima a dire dove non sono d’accordo ma forse è solo il fatto di mettere insieme nello stesso pezzo due eventi molto diversi. Meglio distinguere l’evento mediatico del Bonolis-birignau con tanto di “sei entrata con la marcia trionfale di Aida come quando entrano gli elefanti”. Battuta alla quale la Clerici avrebbe dovuto rispondere con un calcio alle … palline in modo da mettere subito fuori uso tale presentatore.
    Mi spiace che Meli e Piazzola siano stati coinvolti, ma come giustamente dice l’articolo, si sa mai che un appassionato d’opera si sintonizzasse in quel momento, avrebbe avuto occasione di prendere una boccata di ossigeno.
    Per la Turandot (della quale ho anchio una copia dello stesso libretto che avete pubblicato) purtroppo mi sa che i cantanti non lo hanno letto, lo cantano e basta, indifferentemente dal essere versi musicati da musica sublime ad essere lo scontrino del supermercato primo prezzo. Se fosse possibile condividerei i botta e risposta con gli stessi cantanti de “le tre maschere” con i quali non sono riuscito a veicolare che parole e musica sono ben altro che una pagliacciata.
    Cordialmente saluto e ringrazio per lo spazio.

  10. Sul concertone ho gia’ detto qualche cosa, a caldo, nell’altro articolo. D’altro canto a chi si rivolge, questo concertone ? A un pubblico che applaude a meta’ del duetto dell’Andrea Chenier, ritenendo cho fosse li’ terminato.
    TURANDOT: Antonenko, peggiore in campo, era chiaramente insopportabile. Ora, senza andare nemmeno a scomodare Corelli, pochi decenni or sono un teatro che volesse allestire Turandot poteva perlomeno contare su Martinucci. Non c’e’, sulla faccia della Terra, ora, un Martinucci ?
    Antonenko, per quanto mi riguarda, potrebbe anche rimanere Principe, ma di Persia.
    Pare comunque strano che un Teatro come la Scala, in un’occasione cosi’ importante non riesca a schierare un dignitoso terzetto di Ministri e nemmeno un dignitoso Mandarino. Almeno questo, l’anno scorso, il Regio lo aveva fatto, anzi il Mandarino era piu’ che dignitoso.
    Ora, pero’, qualche cosina vorrei salvarla: una parola di semi-apprezzamento per Tsymbaljuk (vedremo poi, fra qualche settimana, Raimondo) e un apprezzamento abbastanza convinto per Carlo Bosi-Altoum, il quale mi sembra un professionista abbastanza valido. Ma sbaglio, o per Altoum era previsto Giorgio Merighi ?

    • in effetti mia moglie continua a chiedersi se fosse nudo o in calzamaglia col filo interdentale; miei informatori riservatissimi confermano il filo interdentale (con dispiacere delle coriste poste di fronte, mi si dice)

  11. Mi sono appena iscritta per dire/scrivere/ urlare: grazie!
    Siete una boccata di raro, rarissimo, ossigeno nel soffocante mare di retorica di regine (anche e soprattutto culturale) e deprimente “collaborazionismo” sullo squallore dello spettacolo dell’altra sera.

  12. Antonenko… uno che fa Otello (di Verdi; o di Rossini che tanto è uguale, si legga Sette, inserto del Corriere della settimana scorsa), vi pare che possa fare Calaf? Lui ha sbagliato ad accettare la proposta (pecunia…), ma chi capperi gli ha offerto la parte??? Ho avuto il vero piacere di sentirlo alla Carnegie Hall a New York tre anni fa in Otello, con Muti e la CSO. Ingolato zero (o quasi), parte ben conosciuta, dizione buona; a volte i direttori fanno le prove e preparano le voci; a volte no (non mi risulta che Sciaiglì sia mai stato un mago su questo fronte). Calaf non doveva farlo, tanto che ho preso i biglietti per una delle recite col secondo tenore; avendolo peraltro sentito alla generale (o antigenerale) di domenica 26, devo dire che il giovane La Colla ha fatto la sua porca figura, anche se alla fine del secondo atto la voce gli si è sbiancata e il Nessun Dorma a inizio terzo è stato un op’ col freno tirato (farlo cantare dal balcone, poi… alla Scala POI, con la sua meravigliosa acustica… ecco, appunto); una voce forse un po’ leggera, ma in parte.
    Una chiosa sul finale di Berio: a me è piaciuto soprattutto per il senso di non-finito che dà alla fiaba: in fin dei conti un povero scemo si sposa con una stronza assoluta lasciandosi dietro una stra-povera scema morta per lui e un padre che ha maledetto la nuora di cui non si sa nulla… (padre cieco per tutti i registi ma non nel libretto, inoltre, giusto per la precisione; e poi perché non hanno torturato pure lui per sapere il nome del gonzo???). In effetti in una “Turandot 2” se ne potrebbero vedere delle belle!
    Nell’insieme a me è piaciuta la lettura 900esca, in parte già avuta con Pretre al posto del povero Sinopoli. Uno spettacolo “quadrato”, non perfetto ma venuto come lo si voleva fare, penso.

    • Caro otto, il problema dei fans di muti è credere che il maestro abbia potere taumaturgico sui cantanti, cosa che peraltro il maestro stesso ritiene. Purtroppo la realta è che antonenko come gia le fabbricini o gli eyvazov etc, non sono cantanti di valore ne prima ne durante ne dopo muti. E il pubblico di muti nella sua cieca fedelta non sente. Eppure il rssto del mondo si. Antonenko è tal quale quello di roma dell otello. Dunque , cari amici mutiani, rivolgetevi al mittente che tali cantori ha scoperto, avvallato e benedetto !

      • quelle acidité, madame Grisi. Antonenko nell’incisione dell’Otello (live) è bravo; poi che fine abbia fatto lo ho sentito tre giorni fa. Non ho mai detto che Muti abbia (avuto?) poteri taumaturgici, ma anche lui a volte si è trovato a lavorare con cantanti non necessariamente scelti da lui (ebbene sì, succede anche ai direttori di prima fascia), anche se non penso sia questo il caso di Antonenko, e sia riuscito a cavarne cose decenti invece di lasciarli affogare nel loro letame.
        Non sono cieco e nemmeno sordo, per cui so benissimo che ognuno ha fatto le sue belle porcate. Nell’insieme sono convinto che le cose belle superino le porcate, come lo penso per Abbado, Sinopoli, Pretre e altri. Nell’insieme, della Turandot in corso ho trovato insopportabile il tenorone, il resto in linea coi tempi attuali, anzi forse addirittura -e purtroppo…!- oltre la media.

        • No guarda ..I commentino te li tieni per te o li fai a tua moglie, d accordo? La fesseria Che scrivi è tale che pare quasi una provocazione. Di Antonenko sentii la Tosca per caso 5 ani fa in Germania. ….era orrendo, non lo applaudivano nemmeno i tedeschi di provincia. Sarebbe ora che la smetteste di ascoltare i cantanti coi filtri della pubblicità o, ripeto, i parametri di comodo dei vostri idoli musicali che inseguire acriticamente per ogni dove. E che antonenko cantasse male sin da Quell Otello mi pare sia stato scritto già all epoca.

          • qui l’acidità (de)cade in maleducazione. “i commentini te li tieni per te”, cara signora, lo potete dire ai vostri figli o nipoti, non a persone civili che -forse- si sbagliano, ma che non si permettono di dare lezioncine. ho sempre apprezzato i vostri commenti/critiche, nelle intenzioni anche se forse non sempre nei modi talora (solo talora) beffardi e sbeffeggianti. per esprimere il mio dissenso, posso fare solo una cosa: cancellarmi dal vostro interessante sito (e per essere chiaro: non sto ironizzando: interessante davvero); a quanto pare il saldo giornaliero tra entrate e uscite non vi va male per cui potete restare contenti lo stesso. Adieu, mes chers!

          • Non insistwre. Nessuna lezioncina….se dici idiozie ti prendi la risposta che tu guadagni. Cambiade un cantante impegna anni…ammesso si possa. Quella che con muti cantano bene o meglio è una idilzia che solo voi fan del direttore andate credendo e spacciando coprendovi di ridicolo. Anzi, sarebbe facile dimostrare che con muti si canta peggio perche questa è la fama del direttore scaligero suggellata da una moltitudine di barzellette seconda solo a quelle sui carabi ieri

          • In effetti il Sansone di Roma – un paio di stagione or sono – era altrettanto penoso di questo Calaf.

          • Beh, Otto, devo dire che quell’Otello – penso tu ti riferisca all’incisione live con la CSO – è uno dei più bislacchi della sua discografia. Il cast è totalmente sballato, all’ascolto, con particolari note di demerito a tenore e baritono. Muti è qui nel pieno della sua parabola discendente che l’ha portato, oggi, ad essere uno dei direttori meno interessanti da ascoltare (e mi spiace, dato che è un musicista che apprezzavo molto e che molto ho rivalutato ripensando anche agli anni scaligeri). E’ diventato il monumento di sé stesso, incapace di rinnovarsi e rinnovare: così il suo Otello, privo di una vera cifra interpretativa, ma come inchiodato nell’intenzione – non realizzata – di essere L’Otello così come dovrebbe essere, come se Verdi in persona dall’aldilà l’avesse incaricato di tale missione (il solito Verdi “che pianse e amò per tutti”). Non è molto diverso da quello, famigerato, scaligero, solo meglio suonato (ovviamente) e più d’effetto. Ma un effetto superficiale. Antonenko, lì (non ho sentito questa Turandot), era davvero pessimo: solo potenza brada.

          • Antonenko la sera della prima era stonato, ingolato, inespressivo e scenicamente grottesco. Sono riuscito persino a rimpiangere Bonisolli!!!

  13. La Turandot del 1° maggio si stà rivelando lo spettacolo dei rimpianti: chi Martinucci,chi Bonisolli,chi persino altri direttori. Un vero monumento allo spreco. Una cosa non riesco a capire: gli articoli entusiastici di Giovanni Gavazzeni, con tale cognome cosa abbia da entusiasmarsi è un “enigma”.

  14. Non entro nel merito dei due spettacoli milanesi: me li sono felicemente persi entrambi e mi bastano i resoconti dettagliati di chi ha visto ed ascoltato (nonché le cronache degli eventi) per essere ancor più soddisfatto della mia scelta. Mi voglio soffermare, invece, su un tema da sempre affascinante e stimolante: l’opera incompiuta. Non concordo, infatti, con Giulia quando mette sullo stesso piano letteratura, arte, architettura e musica. E neppure – per restare al campo musicale – quando accomuna il finale di Turandot alla Decima di Mahler (o, come è stato detto, al III atto di Lulu). Con questo non si vuole negare il valore dell’incompiutezza che si storicizza e diviene essa stessa elemento dell’opera d’arte, ma vorrei affrontare le differenze tra le discipline secondo le loro peculiarità. E’ chiaro che nessuno si sogna – oggi – di rimettere le braccia alla Venere di Milo, perché commetterebbe un falso, così come nessuno si sognerebbe di completare la Pietà Rondanini perché non ci si può sostituire a Michelangelo (anche se, nell’ubriacatura delle cronache dall’EXPO ho sentito e letto attribuire la scultura a Leonardo o, persino, a Rondanini…perché purtroppo l’ignoranza di chi scrive d’arte non si limita agli strafalcioni sull’opera). Si tratta però di una tipologia artistica che comporta un diverso grado di fruizione da parte del pubblico e che a tale pubblico si rapporta senza mediazioni. E’ museo e archeologia. La musica è differente: il pubblico non si limita ad osservarla passivamente, leggendola sul rigo, ma vi assiste attraverso un lavoro di mediazione che è esso stesso arte e ri-creazione dell’opera. Una sinfonia, un melodramma, una sonata…sono organismi vivi e si possono fruire solo attraverso la mediazione di un’altro artista. Ecco perché la musicologia è così diversa dagli studi sulla pittura o l’architettura. Ecco perchè la filologia può solo indicarci una guida attraverso il testo e la sua esecuzione, ma non può prescindere dal fattore umano e dall’apporto dell’interprete (direttore, cantante, solista, orchestra…). Se si applicasse all’opera musicale lo stesso approccio che oggi si applica ad un’opera architettonica o ad una scultura, non si dovrebbe più rappresentare Kovancina, o la versione di Ravel dei Quadri da un’esposizione, o il III atto di Lulu o, appunto, il finale di Turandot (qualsiasi finale, dato che quello di Alfano resta un arbitrio). Ovviamente non è così. Innanzitutto perché la questione dell’incompiutezza e dei completamenti non c’entra nulla con la musicologia o con la filologia: Alfano o Berio non partono da prospettive musicologiche o filologiche, ma completano – secondo la loro sensibilità – un’opera altrui valorizzando le differenze; così come fa Henze quando orchestra i Wesendonck-Lieder o Il ritorno di Ulisse in Patria, o Orff quando rivede L’Orfeo. Poi possono convincere o meno, possono piacere o meno, ma non sono né illegittimi, né “falsi” perché non si pongono sullo stesso piano dell’opera originale, non nascondono la differenza, ma espressamente si dichiarano come autonomi. E neppure, la loro adozione, è funzionale ad una maggior facilità esecutiva – se Berio, ad esempio, è più semplice vocalmente, pone al cantante altre difficoltà e non si può negare che su 100 Turandot eseguite, il 90% ricorre al finale tradizionale (gli stessi interpreti scaligeri l’hanno così in repertorio e continueranno a farlo così) – ma semplicemente è una scelta interpretativa legittima e interessante: poco importa che a me piaccia o meno il finale di Berio (francamente non mi convince), ma eseguirlo non è sbagliato. Non è un “tradimento”. A cosa poi? A quale tradizione? (la tradizione è di per sé mutabile e incerta). Diverso è il caso di altre opere che, appunto, vanno tenute distinte da Turandot, per cui un finale era ed è necessario. E’ diversa la Decima di Mahler: non è vero che esiste solo l’adagio introduttivo (anche il II e il III movimento sono completi, ma non compiutamente orchestrati, mentre il IV e il V sono abbozzati su partitura ridotta), le ricostruzioni, dunque, si basano su materiale corposo (ovviamente manca la revisione finale di Mahler). E’ diversa la Nona di Bruckner, il cui IV movimento è ricostruibile quasi interamente. E’ diverso il III atto di Lulu che era completo pure delle indicazioni per l’orchestrazione (e che solo l’ostinazione della vedova Berg vietava di far completare). Ma ancora diversi sono i casi delle fantomatiche Decime di Beethoven e di Schubert, o Il Gustavo III di Verdi scritto da Gossett: in questi casi, sì, è come attaccare le braccia alla Venere di Milo. Insomma io credo che non si possa mettere tutto nello stesso calderone ed estremizzare sempre il discorso: o bianco o nero, o giusto o sbagliato. Le cose sono più complesse.

    • Credo che l analogia più calzante sia con l architettura, disciplina artistica segnata dall’uso quotidiano secondo ragioni più cogente di quelle musicali, essendo che a volte l architettura non può essere fruito se incompleta mentre una turandot incompleta si..come.opera incompiuta. È proprio lì che la disciplina ha maggiormente teorizzato secondo vie che abbondantemente superano quelle della filologia musicale. E riferita ad essa valgono le considerazioni che ho espresso nell articolo al pari della storicizzazione degli interventi di restauro da Boito alle teorie giovannoniane sul completamento a quelle del restauro critico sino alle attuali concezipno onservative etc. Le polemiche sulle operazioni di derestauro operate ad esempio in Francia su certi edifici medioevali sarebbero Buona base di partenza per arricchire la questione musicale.
      Vorrei aggiungere che la musica ha invece altra specificità rispetto alle altre arti, ossia il fatto di essere forma artistica che non vive senza il medium dell interprete. Quella è la sua vera specificità. Il che allarga inesorabilmente i margini di relatività del giudizio estetico nella musica al ruolo dell esecutore, sia che sia chiamato ad operare scelte come quella sul finale di Turandot …edizioni o versioni….sia sui tagli..che sugli aspetti strettamente interpretativi. La faccenda si complica li ed i piani su cui agiscono i valori della storia, che sono molteplici, oltre a quelli estetici, si complica in modo che va ben oltre le rappresentazioni commerciali che siamo soliti.leggere nelle riviste o nei Booclet dei dischi.

      • Ma proprio perché la musica vive altre specificità e necessita della mediazione di un’altra forma d’arte per poter essere fruita, si deve tener distinta dalle altre discipline. La musica consente di preservare sia il torso, sia il completamento, così come in essa sopravvivono le diverse versioni di un’opera compiuta e tutte fruibili autonomamente. Nella musica si possono distinguere varianti, lavori preparatori, versioni alternative. Cosa impossibile con un quadro o una statua. E quindi il completamento dell’opera incompiuta non ci fa perdere irrimediabilmente il torso originale, col suo fascino e la sua indeterminatezza. Il completamento si aggiunge e si toglie, si innesta e si elimina, si cambia, si modifica…senza intaccare l’originale. Il completamento è autonomo. Non dovrebbe mai essere inteso in senso qualitativo assoluto (certo ciascuno può legittimamente preferire l’uno o l’altro), perché risponde ad altre esigenze che, appunto, non sono né filologiche né musicologiche – almeno nel caso di Turandot. Ma prendi ad esempio il più affascinante esempio di opera incompiuta: il Requiem di Mozart. Quanti completamenti sono stati predisposti? Immediatamente dopo la morte dell’autore almeno 4: Eydler, Sussmayer, Freystadler e Neukomm. E su queste hanno lavorato Beyer, Levin, Landon, Maunder, Druce…ultimamente pure Suzuki: ciascuno con ottime ragioni. Qual’è il vero Requiem di Mozart? Nessuno di essi ovviamente, ma il bello è che possiamo ascoltare tutte queste versioni senza perdere il torso mozartiano.

        • Non ho mai negato il tuo primo assunto salvo quando sinfanno operazioni illegittime ed antistoriche come quella di gossett sul ballo o quella di proporre porzioni di opera cestinare dallo stesso autore . Il punto è l assolutezza dei giudizi estetici…questo è meglio rispetto a quella, come nel caso di Alfano 2 rispetto a Berio. Alfano 2 bello o brutto ha anche una sua lettimita storica dato che nessuno all epoca si picco’ di scrivere altro e diverso finale. Berio ha fatto una sua operazione non più legittima. Il punto poi è che tutto parlare di ciò che Puccini avrebbe o non avrebbe voluto si arena nella palude.delle supposizioni. Finale monumentale o non monumentale, non vi è certezza alcuna perché si è nel regno delle ipotesi. Il finale non è stato composto. Ne Berio ha ritrovato un corpus di musiche ulteriori per suffragare la sua versione che è e resta la sua, punto e basta. La storia si fa coi fatti. Un completamento sarebbe nato solo dal ritrovamento di un corpus di carte completo. Quelle sarebbero le sole braccia legittime per la Venere di Puccini, le altre sono restauri. Solo che non siamo abituati a vedere l opera monco mentre accettiamo la Venere di Milo monca. Così è la storia, la si fa coi documenti. Berio resta composizione artistica soggettiva e sua. Alfano un completamento d epoca, commissionato al momento e parte della vicenda compositiva di turandot, finalizzato alle esigenze sceniche del tempo fondato, nel remake toscaniniano, sulla prassi professionale dell andare in scena. Prassi che lo stesso Puccini sapeva esser parte del loro modo di lavorare e della genesi artistica e lo prova laddove accetta anche con contrasti le modifiche a fanciulla del grande direttore. Sin tanto che non si prova che quelle modifiche Puccini non le gradisse o non le volesse, fanciulla resta quella data alle stampe da ricordi perché editata col beneplacito dell’autore che non chiese mai il ripristino del suo autografo. La musica per teatro non ha genesi avulsa dalla realtà del teatro ma è figlia anche di convenienze, contingenze e ripensamenti. Oggi si fa anche della confusione tra ciò che ha un senso sul piano filologico e ciò che è solo artificio commerciale per creare interesse i lucrare diritti d autore. Il vaso di fanciulla è il tipico esempio di artificio commerciale atto a creare interesse laddove la prassi si sa Che latita

          • Vorrei anche dire che trovo paradossale contraddizione l idealismo latente in questo modo purista di vedere la composizione musicale come un assoluto…il culto della prima esecuzione asolutmente depurata da ogni corpuscolo incongruenze di realtà è realismo…e il non preferire la rappresentazione dell opera non finita. Quella si che è pura…..e la possiamo fruire anche così come la Venere. Erano i committenti di Puccini che non potevano accettare uno spettacolo monco e.necessitavanp di un finale. Che per forza di fatti ha finito per diventare parte dell’opera e della storia di turandot che ora stiamo a criticare per avallare Berio che più ci piace. Ma quel che piace a noi è funzionale a noi e non al senso di turandot ed alla sua storia. Facciamolo ma l operazione resta relativa al nostro tempo e funzionale a noi e basta. Quindi turandot non ha alcun problema esecutivo. Semmai abbiamo questioni di interrelazioni storiografica o di ricostruzione storica ma nessun problema ad andare in scena che è altra cosa. Quale finale ? È domanda che non avrà mai risposta migliore di quella che.ha già.

          • Ma tu sposti il discorso su un approccio che non è quello corretto: ossia sul piano filologico. Non c’entra nulla la filologia. Nessuno – tranne Toscanini all’epoca – si è preoccupato del fatto che il completamento fosse più o meno fedele. Non lo ha fatto Alfano e non lo ha fatto Berio. Entrambi hanno operato come musicisti indipendenti su un materiale esistente. Nessuno poi, credo, ha parlato di più bello o più brutto (sono concetti antistorici), ma semplicemente di diversità e di legittime preferenze. Se nell’82 non si fosse riscoperto il finale originale di Alfano probabilmente oggi nessuno parlerebbe di Berio. Ma proprio perché la storia non si fa con i se, quel finale è stato trovato e il confronto è legittimo. Berio non vuole sostituirsi a nessuno, non fa un’operazione musicologica. Non vuole imbrogliare nessuno. E soprattutto nessuno vuole e ha mai voluto “riattaccare le braccia”. Non deve esserci sempre dietro una convenienza spiccia. O del marcio a tutti i costi. La pratica e la tradizione esecutiva, poi, è molto meno “assoluta” di quanto dici perché soggetta come le mode al mutamento e ai cambiamenti storici. E comunque ripeto che c’entra la filologia (scienza comunque necessaria in ogni disciplina)?

          • Francamente non trovo differenze tra la legittimità di Alfano e quella di Berio: entrambi intervengono dopo la morte di Puccini, entrambi non sono Puccini, entrambi hanno una loro identità musicale. Quanto al modo in cui intervengono le modifiche sul lavoro creativo, beh, bisogna distinguere caso da caso, perché non tutto ciò che finisce nella partitura a stampa è frutto di reale convinzione (senza contare, poi, gli errori comuni – in epoca precedente intendo). Il caso di Fanciulla è uno dei tanti, ma non è da risolvere in modo così tranchant: abbiamo a disposizione il testo licenziato da Puccini e le modifiche imposte. Perché non possono convivere? Come le tre versioni di Butterfly, ciascuna legittima e ciascuna fruibile. Nessuno vuole dire che una sia meglio dell’altra, ma se vi è la possibilità di ascoltarle credo sia doveroso riproporle.

          • Alfano ha avuto una committenza che fu la stessa che ebbe puccini, berio si è autocommissionato a distanza di piu di 50 anni. E poi sono operazioni che nascono pensando ai festival, ai diritti d autore, al rapporto congemporaneo repertorio, al moderno he cerca di catturare il vrande pubblico senno nessuno li va a sentire…….etc etc….non sono condizioni paragonabili.

          • non cambia nulla. Che c’entra la committenza? a me sembra solo pregiudizio. Critichi Berio a prescindere. Se tutto va inquadrato storicamente anche i presunti dogmi dell tradizione vanno ridiscussi e contestualizzati. Perché oggi non sarebbe lecito fare quel che si faceva allora? E poi spiegami perché questo purismo lo applichi solo ad un certo periodo e invece accetti, ad esempio, gli interventi fantasiosi e arbitrari che si facevano 70 anni fa col barocco. Perché è lecito l’Handel liberty della Sutherland e non Berio? Perché sarebbe lecita la riscrittura di Bonynge dei Contes d’Hoffmann ad uso della consorte e non Berio? Credo che il motivo sia solo il tuo gusto personale. Legittimo ma non certo dotato di crisma di verità.

          • Sì chiama storicizzazione….il tempo che passa. Il.fatto che nel 26 turandot era presente. Oggi è un prodotto del fare musica passato di quel momento. È la differenza tra un contemporaneo che scrive un tocco per rendere un lavoro rappresentabile ed un musicista di altro tempo che ci attacca il suo. Alfano ha scritto coi modi del suo tempo che era in continuita con Puccini. Berio scrive col suo tempo che ha altri linguaggi. Questa è la grande differenza. Che si chiama in sintesi ….storia. La musica vive e rivive per il medium dell interprete ma è opera composta nel tempo e te con la storia ci devi fare i conti. Il repertorio è quella cosa che fa da spartiacque tra produzione e consumo secondo la moda e la sincrona fruizione della musica passata come facciamo noi oggi. Questo è ciò che separa noi come ascoltatori di repertori variegati e Berio da Alfano Toscanini e il loro pubblico che fruivano la produzione del loro tempo e solo in parte alcune cose del passato. La nostra ricerca sui compositori di ieri di ogni tempo era loro quasi ignota. La storia è la nostra coscenza storica è ciò che distingue le due vicende. Anche Berio si storicizzera ma come vedi non sostituisce Alfano. …resta un esperimento della modernità su un qualcosa di diverso e lontano a differenza di Alfano, che pure ritengo non riuscito resta fortemente connesso a turandot. Senza la moderna coscenza storica non cinsarebbe nemmeno quella filologia musicale che tanto ti appassiona. La musica ha un tempo di composizione ed uno di.vita.hic et nunc che sinrinnova ogni volta che la suoniamo. Questo è il tempo dell interprete però, non dell autore.

          • Certo, ma Berio non sostituisce Alfano. Diciamo la stessa cosa. Però dato che oggi il nostro rapporto con l’opera è diverso da quello del 1926 (o del 1840 o del 1785) si deve tener conto di questo mutamento: proprio perché non è più il tempo dell’autore, ma il tempo dell’interprete (e del disco) non possiamo fingere che ci si debba rapportare a Turandot come nel ’26. Oggi tutti noi conosciamo l’opera (a teatro, alla radio, in disco), non c’è alcun rischio di snaturare o destoricizzare… Il medium non è solo il cantante. E il medium non deve riprodurre un linguaggio in modo asettico, ma nella rappresentazione si confronta con un presente diverso dal tempo della composizione. Quando Bach scrisse le variazioni Goldberg non pensava certamente al pianoforte o a Gould…eppure tu stessa apprezzi quello che fa Gould con Bach e che consiste nel sovrapporvi un altro linguaggio, un altro tempo, un’altra dimensione. Tra Gould e Berio non c’è alcuna differenza. Fermo restando che è sempre possibile tornare all’originale (al cembalo come all’Alfano II): però se ritieni il finale di Berio un esperimento della modernità, allo stesso modo devi considerare Bonynge che scrive intere parti dei Contes d’Hoffmann in un linguaggio che Offenbach non avrebbe MAI usato. Anche se alla fine non importa molto: la dimensione esecutiva è diversa da quella editoriale. Piuttosto ci si deve chiedere se le riscritture di Bonynge o il finale di Berio funzionano. Secondo me no (soprattutto Berio) per vari motivi. Resta il fatto che l’esecuzione di Berio è e rimarrà sempre limitata alla scelta di alcuni interpreti (Chailly per esempio), non sostituirà mai Alfano II (così come non lo sostituirà mai neppure l’Alfano I). Quindi alla fine parliamo solo di teorie e di occasioni rarissime.

  15. Da tempo seguo i vostri articoli, che condivido pienamente spargendo “un’avara lacrima” sul costante assassinio in atto della nostra amata musica lirica. Mi sono adattata a chiudere gli occhi, a teatro, davanti alla folli regie di individui evidentemente evasi da istituti per subnormali e che noi paghiamo con del denaro buono. Durante la Turandot del 1 maggio, sono state le mie orecchie e non solo i miei occhi ad implorarmi di chiudere il televisore dopo ” in questa reggia”. Una cosa sola era apprezzabile: aver vestito come pagliacci i tre ministri, decisione ammirevole per la coerenza con questo allestimento che è stato una invereconda pagliacciata!!!

  16. Qualcuno oggi ha sentito “La barcaccia” su radio tre? E’ stato piacevole constatare che praticamente i conduttori hanno detto (su Turandot e megaconcerto bocelliano + altri) più o meno le stesse cose che hanno pensato e detto tanti e tanti “grisini”…
    la tarantella di Rossini “à la Bocelli – Lang Lang” era una cosa che non si può descrivere.

    • oggi sul Corriere interesante recensione di Paolo Isotta sulla Turandot, come non dargli ragione (anche su Chailly e sulle sue mazzate orchestrali che affossavano i cantanti, anche su quella patacca che è il finale di Berio, musicista stimabile ma “restauratore” pucciniano detestabile…)

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