“In caso di mal di testa, nausea, senso di vertigini, affaticamento visivo o altri stati di disagio si raccomanda l’immediata sospensione dell’utilizzo sin dal manifestarsi dei primi sintomi”. Questa “avvertenza”, stampata sugli occhialini 3D distribuiti agli spettatori, potrebbe con non minore esattezza applicarsi allo spettacolo nel suo complesso. In primis alla direzione musicale.
Non sappiamo per quanti giorni o settimane lo spettacolo sia stato provato. Neppure ci interessa saperlo. Nel momento in cui, esaurito il ciclo delle prove, si propone una rappresentazione ad un pubblico pagante, questa rappresentazione deve essere perfetta, nel senso letterale del termine, ossia compiuta, completa, esattamente definita. Poi si può discutere della qualità di questo prodotto, delle scelte che sono state compiute e delle ragioni che hanno spinto gli esecutori a optare ora per questa, ora per quella soluzione. Quello che non è accettabile è proporre, come ha fatto, per l’ennesima volta, il teatro bolognese, uno spettacolo in cui all’abborracciata componente visiva si associa una condotta musicale in cui lo scollamento fra palco e buca, per tacere di quello tra le diverse sezioni dell’orchestra e di quello tra i membri dei cori, costituisce non già l’eccezione, bensì la regola (il punto di massima “dispersione” è, in questo senso, il terzetto Pamina-Tamino-Sarastro). Lo stesso può e deve dirsi per le sistematiche stonature di alcuni solisti (capitanati dalle tre Dame, dai tre Geni e dall’Oratore), che avrebbero dovuto vivamente caldeggiare, nel corso delle prove, la rimozione dei medesimi e il reperimento di più adeguati esecutori. Questo è, o dovrebbe essere, l’abc, il minimale rispetto, se non già del pubblico pagante (pubblico che per certi teatri costituisce quasi un male necessario, come dimostra la di fatto inesistente disponibilità di last minute degni di questo nome), almeno dell’autore, il cui nome campeggia in locandina accanto a quelli di direttore e regista (cassati invece, e non è la prima volta, i cantanti).
Tutto ciò premesso, il Flauto magico “di” Michele Mariotti si caratterizza, come già i suoi Puritani (felsinei o tauriniensi), per una spiccata predilezione per tempi slentati, letargici, senza però che il suono orchestrale abbia quella componente solenne e ieratica, che per buona parte informa questa musica. Che siano in scena gli adepti dei culti isidici o gli schiavi di Monostato, che si svolgano le prove iniziatiche di Tamino e Pamina o le rocambolesche disavventure di Papageno, gli accenti sono sempre quelli di uno slavato intermezzo settecentesco, con abbondanza di marcette evocanti il teatro dei fratelli Colla. Contenuti, per una volta, gli eccessi bandistici delle code, almeno se si prende come riferimento il Tell dell’anno scorso. Curioso poi come l’esecuzione dell’unica pagina in cui l’evocazione della farsa sarebbe legittima e opportuna (aria di Monostato) venga sciupata da un volume orchestrale inopinatamente elevato, laddove la partitura prescrive “sempre pp” e “come in distanza”.
Analoga indifferenza stilistica, del tutto simile inadeguatezza e approssimazione denuncia la messinscena firmata da Luigi De Angelis (Fanny & Alexander): scena sostanzialmente vuota, con proiezione di filmati in 3D che risultano, però, egualmente fruibili anche senza ricorrere agli appositi occhiali monouso. Sullo schermo che costituisce la parete di fondo scorrono immagini di boschi e bambini che giocano con un teatro in miniatura, draghi giocattolo, flauti che dovrebbero “balzare” in faccia al pubblico (peccato che gli effetti 3D siano, come detto, risibili e inefficaci) e altre amenità. Qualche gioco di luce a illuminare di rosso e blu la sala del Bibiena et voilà, ecco servita la regia: nessuna magia nelle scene fantastiche (piuttosto deludenti, in particolare, quelle della Regina della Notte, priva di qualsiasi fascino demoniaco o, almeno, ambiguo), atmosfera da veglione in parrocchia per i passaggi farseschi (malgrado l’impegno di alcuni solisti), indifferenza, monotonia, noia in quantità industriali per i momenti patetici (ma su questi ultimi ha inciso, in maniera decisiva, la modesta qualità del canto, oltre che della direzione musicale).
Tra i solisti, meglio i signori delle signore. E tra i signori l’unico che dimostri sufficiente preparazione, dignitosa presenza scenica e, se non altro, un canto minimamente sorvegliato e attento al testo, è Nicola Ulivieri quale Papageno. Accanto a lui il Tamino di Paolo Fanale si segnala soprattutto per la generosa natura, che gli permette di risolvere con qualche fiato corto e suoni solo occasionalmente schiacciati l’aria (un mezzo disastro, per contro, il monologo che segue il confronto con l’Oratore). Mika Kares è un Sarastro ingolato e di scarsa cavata e autorevolezza, nella media comunque della sua corda in parti di questo genere, almeno per il panorama attuale. Peggio dei summenzionati Gianluca Floris quale Monostato, di voce piuttosto importante, ma fastidiosamente nasale. Christina Poulitsi (la Regina) stenta nel registro centrale, in difetto di appoggio, lega con difficoltà alla prima aria, mentre i sovracuti risultano, benché intonati, marcatamente fissi. Maria Grazia Schiavo ha una voce di una certa consistenza, ma impostata, o per meglio dire, non impostata nel rispetto dei più rigorosi canoni baroccari, emette al centro suoni fissi e fischianti, che le impediscono di salire ad acuti di minimale tenuta. Permane misterioso come faccia a esibirsi quale Lucia di Lammermoor una cantante, che nell’aria di Pamina non riesce a eseguire la scala che arriva al si bemolle acuto senza che la voce risulti chioccia e in procinto di spezzarsi. E si taccia della cosiddetta interpretazione, improntata a un costante bamboleggiare. Merita infine una chiosa Anna Corvino, ex (?) allieva dell’accademia bolognese, già interprete nel medesimo teatro di ruoli quali Gilda e Adina, qui una Papagena sottodimensionata rispetto alle richieste della parte (che consta, giova ricordarlo, di un solo duetto). Tutti i solisti avrebbero poi bisogno di un corso intensivo di lingua tedesca, atteso che i parlati fanno pensare a un Flauto magico ambientato non già nel mondo delle fiabe, ma in qualche enclave turca nel bacino della Ruhr.
Un pensiero su “Die Zauberflöte a Bologna: Mozart alla prova.”
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Chi è causa del suo mal pianga se stesso, recitava un vecchio adagio, che si adatta perfettamente agli spettatori del Mariotti direttore.
Non c’è altro da dire.