Non sarà una novità se dico che a Berlino c’è una sovrabbondanza di cultura, nel senso migliore. Una persona con una sana dose d’interesse per musica, teatro e musei facilmente caderebbe in uno stato di schizofrenia davanti all’ampiezza della scelta fra vari concerti, rappresentazioni teatrali o esibizioni di altissimo livello. Perché per soddisfare la sua modesta curiosità questa povera persona dovrebbe asistere ad almeno un evento culturale ogni giorno dei mesi lavorativi, sicché non rimarrebbe neanche un secondo per mettere piede nei tre teatri lirici di Berlino. Poi, francamente, è piuttosto pratico seguire un semplice motto: uno spettacolo di prosa di Robert Wilson, ormai sempre uguale a se stesso, alla Berliner Ensemble o sperimentazioni provocatorie di Romeo Castellucci con attori che sanno il loro mestiere è sempre meglio di un’opera servita con un canto sistematicamente inascoltabile in uno dei teatri d’opera berlinesi…
Anyway, è nel contesto di una tripla offerta quotidiana da parte dei teatri d’opera che il veterano direttore d’orchestra polacco Marek Janowski si avventura a proporre al pubblico berlinese opere in forma di concerto. Per di più lo fa non nella sua sala di casa, cioè il Konzerthaus che ha dimensioni più contenute, ma nella grandiosa Philharmonie che dal 2010 al 2013 ha ospitato l’acclamato ciclo delle opere di Wagner diretto da Janowski con la sua fedele Rundfunk-Sinfonieorchester, ciclo di cui ho ascoltato dal vivo l’interessantissimo Tristan. Stavolta Janowski ha scelte due opere in un atto di Richard Strauss, la rara Daphne ed il capolavoro heavy metal Elektra, due lavori formalmente simili, perché sono simili durata (ca. 100 minuti) e provenienza tematica (mitologia greca), ma antitetici quanto più possibile dal punto di vista musicale e drammatico. Mentre la grande innovazione modernista che nel 1909 è stata Elektra colpisce ancora oggi l’orecchio con le sue armonie a tratti addirittura atonali ed un interminabile labirinto di tessuto musicale-psicologico davvero disturbante, Daphne, definita “tragedia bucolica”, è l’opera di un vecchio maestro ormai autocompiaciuto nel suo stile musicale “riaddomesticato” dopo le trasgressioni espressioniste e moderatamente compiacente nei confronti del regime politico, le cui leggi razziali avevano impedito allo scrittore Stefan Zweig di diventare il librettista di Daphne.
E’ triste sapere che il cammino artistico abbia portato Richard Strauss da un’Elektra ad una Daphne e non in senso contrario. Ma non si tratta solo di una svolta verso un certo conservatorismo musicale che diventa quasi un pendant logicamente necessario della sua compiacenza politica, facendo della musica e del teatro musicale un rifugio tanto più ipocrita e cinico quanto Strauss si dà consapevolmente a forme e tematiche romantico-mitologiche del tutto inoffensive che riproducono l’atteggiamento “apolitico” dell’artista-servitore del Bello. Daphne è anche un documento molto sobrio ed autoironico della fine del teatro lirico come spazio di attiva e attuale produttività, un dolce addio all’opera come lo sono quasi tutti gli ultimi lavori lirici di Strauss. E’ bella quest’eutanasia di una forma d’arte già molto museale ed anacronistica al tempo di Strauss, segnata da una musealità di cui Strauss è dolorosamente consapevole e che prova a parodiare ed omaggiare tante volte, dal Rosenkavalier fino ai ruoli di coloratura delle opere tardive, le autoriflessioni sui generi teatrali e sul rapporto parola-musica dall’Ariadne fino a Capriccio, ed un’inclinazione sempre più pronunciata verso una cantabilità (soprattutto per i ruoli da soprani lirici o lirico-spinti, come Daphne) il cui carattere imprescindibile fa dell’esecuzione di un lavoro come proprio la Daphne un’impresa molto più ardua e rischiosa oggi che non una Elektra o una Frau ohne Schatten con le sue scritture vocali dalle sovrumane esigenze fisiche.
Da un lato, è stata una decisione saggia e molto naturale di fare prima, ossia il 5 maggio, Daphne e di chiudere il 7 maggio con Elektra, è stato però un passo chiaramente falso a svantaggio di Daphne lo scritturare per quest’opera raramente eseguita cantanti poco conosciuti, mentre Elektra prevedeva un cast “di lusso” (lasciamo a parte la reale qualità di questi “star”…) persino nel ruolo di Egisto, prevedendo il tenore wagneriano-straussiano Stephen Gould che in mezzo al deserto totale gira ancora su un livello di minimale udibilità. Se, malgrado nomi come Catherine Foster (ultima Brünnhilde a Bayreuth), Waltraud Meier, Camilla Nylund e Günther Groissböck (Sarastro indubile alla Scala), la sala della Philharmonie non si è riempita per Elektra, la Daphne eseguita con giovani nomi del tutto sconosciuti, ha visto una sala vuota almeno per un buon quarto.
Troppa cultura. Inoltre, i berlinesi (ed ovviamente anche le orde di touristi di cultura) preferiscono sempre i Berliner Philharmoniker con il peggior Rattle che il Rundfunk-Sinfonieorchester con un solido maestro come Marek Janowski. E’ anche vero che l’orchestra di Janowski è condannata a rimanere la seconda scelta, perché non può mai avvicinarsi al suono dei Philharmoniker che diventa per sé oggetto di ossessione narcotica, ma il trattamento della Rundfunk-Sinfonieorchester da “matrigna” da parte dei berlinesi è sicuramente causato anche dal fatto che con Janowski l’attenzione è sempre esclusivamente portata alla musica e non a qualche gag o speculazione pubblicitaria. Si sa che fare solo musica oggi è poco, troppo poco. Per dire tutta la verità bisognerebbe magari aggiungere che questa completa dedicazione di Janowski alla musica va sempre con una bizzarra dose di auto-oblio, cioè una naturalezza e fluidità musicali incomparabili in cui sommerge il direttore come personalità ed individualità artistica. Da un lato, dovrebbe essere un grandissimo pregio, ma spesso risulta controproducente. Bisognerebbe anche comprendere se è un’iniziale mancanza di una personalità più aggressiva a causarla questo cosiddetto oblio o se è un risultato volontario di una personalità artistica troppo sovrana per abbassarsi perfino ad un livello minimamente sano di esibizionismo e divismo.
In ogni caso, nella Daphne Janowski ci ha fatto sentire un lavoro minuzioso su uno spartito decadente che spreca oro ed argento, miele e latte dalla prima all’ultima nota, un tappeto orchestrale a tratti molto cameristico e misurato che non si stanca di intrecciare ornamento su ornamento. Ha del voluto e dell’artigianale, ma, malgrado un libretto ed una struttura drammaturgica non sempre convincenti, rimane un capolavoro che Janowski mette nella luce più vantaggiosa, creando un flusso inarrestabile, per di più a un ritmo abbastanza veloce seppur non frettoloso, il ché aiuta molto i suoi cantanti. All’orchestra manca quel suono caloroso e saturato da vero tardo romanticismo tedesco in cui possono compiacersi i Philharmoniker, ma potrebbe anche essere una scelta consapevole che inoltre favorisce la massima chiarezza della fattura musicale di uno spartito molto complesso come quello di Strauss. Cosi nel celebre finale della Trasfigurazione di Dafne in un albero, Janowski punta su un’interpretazione che evita qualsiasi superflua esaltazione demagogica e riveste il brano con una calma continua tenuta in un delicato mezzo forte. Davanti a tanto canto strumentale non può che essere raccapricciante l’assenza della minima scuola vocale fra i cantanti, cominciando dai ruoli secondari fino ai protagonisti. Gemente il nominale mezzosoprano Daniela Denschlag nella parte bassissima di Gaea che richiederebbe un autentico contralto con un registro di petto completamente spiegata. Più sovrano e sonoro il basso Sorin Coliban nel ruolo di Peneios, ma comunque stomacale nell’emissione e, logicamente, soffocato negli acuti. Molto problematici anche i due tenori: Daniel Behle al limite del udibile nella parte più lirica di Leukippos, mentre Stefan Vinke, tenoraccio wagneriano di routine, un tempo voce sonora dura e nasale (quasi un pendant tedesco di Lance Ryan), lascia sentire un Apollo dalla voce ormai esausta, del tutto sbiancata che ha poco in comune con il dio della Luce per cui Strauss ha scritto una di quelle parti tenorili spietate, come l’Imperatore nella Frau, Bacco nell’Ariadne, che si reggono solo quando si è un Helge Rosvaenge. E’ più positivo il bilancio per il giovane soprano austriaco Regine Hangler quale Daphne, ma solo perché si tratta davvero di una giovane che sfoggia uno strumento sonoro da vero lirico ancora molto fresco, dotato di una notevole facilità in acuto. Le manca però la minima base di preparazione per non spoggiare sistematicamente quando prova a cantare mezza voce, è magrissima nella parte inferiore della voce; si sentono inoltre parecchie stonature, manca il legato e la lunghezza del fiato con cui eseguire con massima efficacia le ampie arcate vocali che il vecchio Strauss orna cosi spesso con “deviazioni” vocalizzanti, trasformando questa sua scrittura vocale tardiva in una melodia lussuosa che, quasi al pari di quella rossiniana, “nasce e si sviluppa ornata”, come direbbe il nostro Donzelli. Un tardo e nostalgico omaggio alla gloria che è stato il canto lirico per la cultura umana.
Dopo il trionfo molto entre nous (vista la scarsità del pubblico ed un’inevitabile sensazione d’intimità nella vasta Filarmonica) con questo problematico capolavoro, il maestro polacco ci ha fatto subire un’Elektra di rara potenza, violenta fino ai limiti del fisicamente sopportabile, chiara e differenziata fino nei minimi dettagli, rinforzando tutta la modernità dello spartito nel sottolineare pure quelle dissonanze e figure polifoniche che di solito possono scappare all’orecchio (ovviamente grazie anche al fatto che l’orchestra si trovasse sul podio e non nella fossa). C’era una sensazione di totale freschezza, come se lo spartito fosse stato scritto ieri. A tratti ho provato, però, la mancanza di abbandono e di morbidezza soprattutto nella commovente scena del riconoscimento. Sembrava che Janowski non volesse concedere neanche un attimo di dolcezza in mezzo a tanto horror che l’orchestra sputava come sprizzi di veleno mortale usciti dalle riserve inesauribili dello stomaco di un serpente gigantesco. L’eruzione dell’orchestra dopo il grido di Elektra quando riconosce il fratello è stato anche il momento in cui Janowski pare abbia perso per la prima volta il controllo sull’orchestra, accelerando inutilmente il ritmo e permettendo un raro momento di totale disequilibrio fra gli archi e le varie sezioni degli fiati. E’ stato però diretto con suprema maestria tutto il resto, di cui la danza finale non poteva che essere una logica culminazione. Unendo una lentezza e pesantezza poco comuni ad un fraseggio duttile che dava addirittura la sensazione di volare, l’effetto sorprendente di questo culmine musicale-drammatico dell’opera è solo stato rinforzato da una coda brusca e veloce che il maestro ama cosi tanto, come per gettare l’ascoltatore (che dopo tanta ampiezza aspetta accordi finali solenni e largamente tenuti) in uno stato di risveglio choc.
Quando non si ha la minima scuola di una corretta impostazione della voce non è necessario che il direttore sia Christian Thielemann per venire impietosamente sommerso dall’orchestra wagneriano o straussiano. E’ cosi che Waltraud Meier quale Clitemnestra e Camilla Nylund quale Crisotemide sono rimaste letteralmente inudibili durante l’intera serata, la prima essendo una cantante definita mezzosoprano, ma che non ha mai avuto un centro e dei gravi degni di un vero mezzosoprano, esibendo solo suoni tubati e soffocati, la seconda essendo un soprano che “star” è stata sempre solo sulla carta e che ormai canta con voce stridula, ballante, stonata e difficilmente udibile persino negli acuti. La Meier ha almeno avuto il buon gusto di non trasformare il suo personaggio in una donnaccia grottesca stile Brigitte Fassbaender e si è presentata in un vestito giallo elegantissimo, il giallo simbolizzando forse lo stato malato di Clitemnestra. Günther Groissböck mi è apparso più sonoro rispetto al suo Sarastro scaligero di qualche anno fa, ma la voce rimane sempre ingolata ed artificiosa. A Catherine Foster va l’unico merito di avere cantata la parte micidiale di Elektra senza i tagli tradizionali ed avercela fatta fino alla fine della serata. Vuota in basso ed insipida come la gastronomia britannica sul piano espressivo, ha comunque dimostrato un registro acuto abbastanza pastoso e resistente, anche se sempre grigio, con cui è arrivata a produrre l’unico momento vocale riuscito dell’intero concerto, ossia la fine della sua scena di confronto con Clitemnestra. Sono momenti simili che ti fanno chiedere se sia possibile sopravvivere ad una rappresentazione di Elektra se alla direzione di un Janowski si aggiungessero protagonisti non geniali, ma almeno dotati di una minima energia espressiva e potenza vocale stabile.
Chiudo con un’ultima considerazione che riguarda tutti i cantanti che si sono esibiti sia nella Daphne che nell’Elektra. A dispetto di ogni blablabla ideologico sulla superiorità della scuola nordica di canto in quanto all’articolazione verbale, questi cantanti hanno dato prova di un metodo di (si fa per dire) canto che sistematicamente impediva una chiara pronuncia, ad esclusione dei passaggi in cui parlassero letteralmente. Cioè, qui non siamo più nemmeno al livello del peggior Sprechgesang.
Elektra (1909)
Rose Pauly – “Allein, weh, ganz allein” (30 settembre 1936, Vienna, Knappertsbusch)
Rose Pauly – “Orest!” (Vienna 1936)
Daphne (1938)
Ludwig Weber – Entrata di Peneios (17 settembre, Buenos Aires, E. Kleiber)
Rose Bampton – Trasfigurazione (Buenos Aires, Kleiber)
Ho ascoltato una buona oretta di questa Elektra alla radio. Anche a me è parsa ottima, anche se un po’ fissa, la direzione. Sarà interessante sentire Janowski dirigere il Ring l’anno prossimo a Bayreuth. Per me la Foster ha dimostrato una totale incapacità di trovare un solo accento interessante. Il suo “Traeumst Du Mutter?” è stato deprimente.
Comunque qui a MIlano con l’Elektra l’anno scorso siamo stati viziati.
U
Grazie per l’articolo assai interessante e gli ascolti
Personalmente amo molto Strauss, anzi, è l’operista tedesco che prediligo, e ammetto di avere un debole per le opere più “classiche” del compositore, quelle che qui vengono definite, credo giustamente, museali e anacronistiche. Daphne, in particolare, è davvero un goiello e l’edizione di Bohm con la stupenda Gueden e Wunderlich è una delizia
Sarebbe interessante se gli autori più versati nel repertorio tedesco dedicassero una rubrica anche a Strauss, una sorta piccola guida all’approccio delle sue opere, come se ne sono state fatte per altri compositori 😀
Articolo davvero interessante e ottimo spunto di riflessione: in particolare per quanto riguarda il passaggio tra lo Strauss “rivoluzionario” di Elektra a quello “normalizzato” e più borghese di Daphne. Ci si chiede spesso il significato di tale evoluzione (o involuzione) di linguaggio: ripensamento stilistico o rifugio nel classicismo in funzione difensiva? Adesione – seppur da prendere con cautele – di una certa visione politica o autoisolamento per sopravvivere all’attuale ricreandosi un mondo fittizio ispirato ad un’idealità estetica? E’ il problema del rapporto tra arte e potere. Conflitto o complicità? Quali margini di libertà creativi sopravvivono in un regime autoritario? E ancora: l’adesione ad una certa visione politica permette di fare arte? Non si tratta solo di Strauss, ma anche di autori italiani del periodo o di quelli sovietici (giganti come Sostakovich e Prokofev). Senza dimenticare che Strauss rivestì una carica onorifica solo per un breve periodo e il suo unico contributo alla musica di regime fu l’inno olimpico per i giochi del ’36.