All’indomani della prima della recente Turandot scaligera è capitato di leggere alcune recensioni, un po’ ingenue, dove la signora Stemme veniva etichettata come una classica Turandot nel filone dei soprani wagneriani. Tale definizione fa sorgere spontanea la domanda se sia la signora Stemme a cantare come le grandi Turandot provenienti perlopiù da repertorio wagneriano oppure se fossero queste ultime a cantare secondo gli stilemi della signora Stemme, quindi con suoni duri al centro, urla in alto e suoni vuoti in basso. Preso dalla curiosità, ho pensato di rispolverare qualche vecchio disco, senza scomodare le solite Nilsson e Grob-Prandl, ma provando ad ascoltare nell’aria di entrata di Turandot Marianne Schech, soprano lirico spinto tedesco dal repertorio oneroso e dalla carriera forse un po’ offuscata dalla rivalità di colleghe più celebri, ma comunque di tutto rispetto.
La signora Stemme nella prima sezione dell’aria mostra un timbro senescente e una linea vocale dura e instabile, con più di una nota ballante non appena tenta di tenerle un minimo, primi segni di grida nel la di “e quel grido”, spinto e duro, mentre nello scendere al mi in primo rigo di “stirpe e stirpe” si sente una notevole difficoltà a legare la discesa al mi con il resto della frase centrale, sintomo di un primo passaggio non risolto e alquanto avventuroso.
All’incipit di “Principessa Lou Ling” sentiamo delle note tubate, mentre i fa3 di “l’aspro dominio” sono proprio vuoti. Ancora problemi sorgono al la di “Il regno vinto”, scoperto e duro, e nelle note centro-basse di “dove si spense la sua fresca voce”, in cui la cantante non sa cosa fare e risolve come può. Stessi problemi si ripresentano su “io vendico su voi, su voi quella purezza”, dove i sol acuti toccati anticipano i problemi crescenti di “quel grido e quella morte”, dove, più che l’incepparsi della cantante, come avvenuto la sera della prima, a destare stupore sono i suoni duri e ghermiti dei la acuti e del seguente si naturale, che dovrebbe essere svettante e raggelare nel ricordo dei fatti narrati, e invece è solo prova della fatica della cantante. Senza un centro sonoro e sicuro che sia collegato a un registro acuto veramente svettante, l’effetto di frasi come “Mai nessun m’avrà! Ah, rinasce in me l’orgoglio di tanta purità” e del seguente “gli enigmi sono tre, la morte una” si perde del tutto per lasciare il posto al canto faticoso di una Turandot timbricamente senescente e acciaccata. In tanta difficoltà risulta impossibile legare i suoni, perdendo l’effetto destato da tutte le forcelle prescritte da Puccini e dei continui segni di crescendo e diminuendo di cui il canto di Turandot è disseminato, tesi a rendere il mistero e il gelo di Turandot, in assenza dei quali è impossibile anche solo parlare di una benché minima delineazione del personaggio.
Infine allo scambio di battute finali fra Turandot e Calaf nessuna gara di acuti come la “becera” tradizione ha abituato, per lasciare da una parte una Turandot che ghermisce gli acuti ed emette suoni sgangherati e dall’altra un Calaf stile Tarzan.
Ma veniamo a Marianne Schech, soprano lirico spinto, di fatto categoria vocale alla quale apparterrebbe anche la signora Stemme, nonostante il repertorio praticato.
La prima cosa che colpisce della Schech, a parte il timbro luminoso e davvero bello, è la voce perfettamente avanti, composta in ogni suono, che rende la voce omogenea e salda in ogni passaggio, tanto da non percepire sostanziali differenze quando la voce tocca i la acuti di “E quel grido”, così come è perfettamente reso il contrasto col forte della frase precedente quando affronta il piano di “qui nell’anima mia si rifugiò”, rendendo il fine espressivo di tale contrasto con un semplice ripiegarsi della voce, così come bellissimo è il tono trasognato, visionario di “Principessa Lou Ling”, tale solo perché l’interprete sa cantare piano, mantenendo la voce sempre morbida.
Nella salita progressiva di “quel grido e quella morte” la Schech non conosce difficoltà di sorta fino ad un si naturale facilissimo e squillante. Ma bisogna sentire anche com’è raccolto e morbido il suono nello scendere ai re sotto il rigo di “mai nessun, nessun m’avrà”, possibile solo in presenza di una perfetta risoluzione del passaggio di registro inferiore.
Bravissima anche nella parte finale dove finalmente si può ascoltare Turandot salire agli acuti di frasi come “Ah rinasce in me” e “l’orgoglio di tanta purità” (e qui va notata anche la precisione della musicista che tiene il si naturale di “Ah, rinasce in me”, dove è presente un punto di corona, laddove il seguente si di “l’orgoglio” è tenuto secondo quanto previsto in spartito) con voce piena e sicura, squillante e luminosa, senza l’ombra di alcuna fissità di matrice tedesca o di note dal sapore nibelungico, al contrario personalmente trovo questa Turandot vicinissima ad un ideale straussiano di adesione al ruolo, dal canto strumentale e all’italiana.
4 pensieri su “Ascolti comparati. In questa reggia: wagneriane a confronto, Nina Stemme e Marianne Schech.”
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No, la Stemme no! Pietà!!!!
Al contrario, che brava la Schech! Un vero piacere sentirla.
Che bello il canto della Schech. Dimostra che si può cantare In questa reggia senza azionare tutte le sirene delle volanti della polizia. La Sig.a Stemme invece….. Io non sono esperto da poter individuare e descrivere la genesi dei difetti, ma certo il risultato finale lascia costernati.
Sinceramente, ho seguito la Turandot sino al completamento di “In questa reggia ” da parte della Signora Stimme dopodiché ho cambiato canale. Vorrei solo aggiungere che, oltre ai difetti di emissione già esaustivamente enumerati, la voce di questo soprano e’ irrimediabilmente brutta. Possibile che non ce ne fosse un’altra in circolazione, possibilmente italiana?