L’Opera di Roma ha dedicato la recita di ieri sera alla memoria di Luca Ronconi, cui era stato affidato il compito di allestire una nuova produzione della Lucia di Donizetti. Premorto il genio all’impegno, questo è stato portato a termine dal suo rodato team che ha dato forma scenica ad un concept del testo interamente incentrato sul tema della pazzia di Lucia. Prevedibile scelta per un gigante del teatro di regia che alle prese con gli stereotipi del teatro romantico non si è mai rassegnato al banale o ai normali luoghi comuni, anche a costo di ritrovarsi al cospetto dei propri eccessi, come ieri sera. Come tante altre volte nella sua carriera qualcosa di questo spettacolo è destinato a rimanere, nella fattispecie il lavoro analitico condotto sul personaggio della protagonista, e gli eccessi certamente ad essere scopiazzati aggiungendo altre barbarie al teatro lirico moderno di cui Ronconi è un padre ed un patrigno al tempo stesso. Alludo in particolare allo spazio alienante ed alle gabbie da ospedale psichiatrico che arredano la scena del contratto nuziale. Le rigide stilizzazioni di Margherita Palli che spazzano via quel connubio natura – architettura che connota l’opera, musica e soggetto, con i fari da lager che pendevano dall’alto mi sono parse eccessivamente rigide, sostituendo al clima ed alle atmosfere donizettiane una dimensione disumana ed impersonale, con la natura fuori dalle pareti ma comunque invisibile, quasi un’assicurazione del regista a se stesso più che a noi che quella componente romantica tanto importante non era stata eliminata dall’opera, come di fatto è stata. Anche il finale nel castello dei Rawenswood, sulle tombe degli avi, uno spazio volutamente gotico e ruinista nel testo di Scott come di Cammarano, giustamente ricollocato in interno ma troppo, troppo astratto e ridotto a freddo simbolo per un siffatto prodigio musicale romantico e commovente, il momento più straordinario dell’opera ma forse, dal punto di vista di un regista come questo, troppo stereotipato drammaturgicamente per essergli di stimolo. Vive di vita propria il lavoro condotto sulla protagonista, paradossalmente in linea con la tradizione che ha fatto del titolo l’opera del soprano e della pazzia, al contrario del primo trentennio di vita dell’opera quando Lucia costituiva un must del tenorismo romantico, palestra dei protagonisti nostalgici e capaci di “una bella morte” o di una grande maledizione. La malinconica Lucia, personaggio dai connotati tutti eminentemente lirici, assume qui sfaccettature inaspettate, che finiscono per suggerire anche un canto più variegato perchè più vario è il percorso che conduce la protagonista al finale. Non solo una Lucia già disturbata alla cavatina, come già la Callas aveva saputo anche a parole illustrare, con il suo incontrare fantasmi di antenate, ma anche l’amante forte e materna del duetto con Edgardo, la sorella altera che si oppone con grande forza al fratello (“Il pallor funesto orrendo”) che poi si ripiega su se stessa (“Soffriva nel pianto”) nella malinconia che prelude al trionfo della follia. In questo, più che nell’esagerazione espressionista delle gabbie della scena del matrimonio, ho visto il senso del lavoro registico, che si traduce in azioni e movimenti del personaggio di cui la protagonista, in questo caso Jessica Pratt, si è avvantaggiata sul piano dell’espressione. Al contrario di quanto normalmente accade qui il teatro di regia non stava nelle scene stilizzate o nella durezza della lettura adottata, quella della storia della contrizione ed oppressione di una ragazza spinta alla follia dal contesto in cui vive, ma dalla gestualità, dalla regia in senso stretto, che normalmente è latitante anche nelle griffe più alla moda oggi che nulla suggeriscono ai cantanti.
Pochissime prove, almeno stando al calendario di questi giorni della cantante, sono bastate alla Pratt per dare la prestazione migliore offerta in questo titolo da quando canta. Si è presentata in bella forma fisica e vocale, con una voce sempre più modesta al centro rispetto al registro acuto e sopracuto, ma pulita da suoni spessi o spinti ed in grado di correre e di avere buona sonorità anche alla cavatina. Spariti certi vezzi e certi manierismi vocali, come certi suoni presi da sotto o portamenti gruberoveschi, ha cantato fluidamente e con bella varietà di accento. Forse una certa mancanza di suono alla scena col fratello, ma insomma per il debutto di una nuova produzione preparata in condizioni di superlavoro è stato anche troppo ed oltre le aspettative, dato anche l’handicap della bacchetta. Non è possibile infatti che si debbano ascoltare in un teatro importante come l’Opera di Roma prove scadenti tecnicamente ed interpretativamente come quella offerta ieri da Roberto Abbado che ha inficiato tutta la parte musicale. O fa chiasso o ammorba, a seconda dei momenti, ma di certo non dirige, non concerta, non sa dove và. Andare a tempo, col coro in particolare, è stata un’impresa, dalla scena del matrimonio al finale, con i solisti uomini pure. Con un cast di voci modeste, ha rovesciato ondate di decibel sul palco e su di noi appena poteva, dato che al sestetto abbiamo sentito giusto gli acuti del soprano ed i berci di Alisa. Il duetto d’amore un’agonia assoluta di tempi e pesantezze, il duetto della torre uno slalom per i solisti che faticavano a stare con lui. Atmosfere zero, introduzioni alle grandi scene, da quella della torre a quella finale zero assoluto. Si è preoccupato di avere una glassa armonica, bravissimo solista fatto venire apposta da Dusseldorf, ma non si è fatto alcuna domanda filologica circa le adeguate tonalità originarie per questa protagonista che per sua natura vocale non può che gradire la scrittura originaria: ma che filologia è allora? esegue i da capi con code per il baritono ma non per il soprano. Esegue la cabaletta del baritno con le code ma senza da capo ed altre amenità del genere…Perchè? la glassa armonica dunque è stata solo un ridicolo e costoso vezzo per dare un falso spolvero ad una direzione catastrofica ed inadeguata, a suo tempo premiata a suon di bu alla Scala, quando persino la Devia faticava a stare a tempo con lui. E mentre la serata scorreva ripensavo ai suoi Rossini tragici diretti come marcette, al quel Vampyr di Bologna che pareva un ‘operetta, e di nuovo ancora una Lucia che non si capisce di quale compositore possa essere. Dirige tutto e tutto senza cifra e con poca tecnica e di questo finiscono per fare le spese i cantanti, che spesso non sono all’altezza e necessitano di essere soccorsi e non messi in difficoltà. Stefano Secco è un cantante ordinato che raramente ricorre alla volgarità o alle gigionate ma ha il punto debole negli acuti che ora non riesce a girare, tutti emessi indietro con fatica. La voce a tratti era anche fioca, come al sestetto, o davvero in affanno, come al finale, che, stravolto, ha eseguito come se accennasse. Una prova modesta ma meritava di avere qualche presa di fiato più comoda e come lui pure Marco Caria quale Enrico, voce impoverita rispetto ai miei ascolti parmigiani, di scarso volume, pochi armonici e che alla cavatina mi è parso cantasse in affanno. Male la prima scena di Carlo Cigni Raimondo, ma molto meglio quella che precede la pazzia: per tanto così, tanto valeva non riaprire il taglio per far finta di fare della filologia.
Insomma un’altra serata sulle spalle di Jessica Pratt che continua a non trovare partners adeguati e nemmeno direttori in grado di dare un senso non solo solistico alle sue prove. Non è possibile però che la parte musicale di un’opera si regga su un solo cantante mentre la buca annienta il lavoro di un intero palcoscenico. Per un volta ha avuto una regia che ha dato un senso al suo lavoro ma l’opera, purtroppo, funziona solo in team…….altrimenti non siamo nemmeno in concerto!
4 pensieri su “Lucia di Lammermoor all’Opera di Roma: una storia di vera follia”
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Recensione che condivido in pieno anche se con gli altri cantanti forse sarei stato più duro: si sentiva l’impegno e non cercavano di strafare, ma non erano all’altezza, specie il tenore che alla fine stava morendo sul serio.
La Pratt magnifica, pur coi limiti evidenziati e qualche acuto un poco gridato e qualche sospiro di troppo nella follia, ma davvero peccati veniali. Bravissima e migliorata enormemente dalla Lucia veneziana
PS: I portamenti gruberoviani sono un marchio di fabbrica e sono stupendi e sensati anche interpretativamente solo se prodotti dalla Edita in quel modo e con quella sovrabbondanza le altre che ci provano naufragano o sono pallide imitazioni…
Ho ascoltato alla radio la prima romana,e mi ha colpito sopratutto la direzione. Sembrava, il direttore, andare per conto suo,irrispettoso dei problemi dei cantanti: un solo esempio per tutti,il finale con il tenore alle prese con i terribili ” bell’alma innamorata..” tutti sul passaggio, Secco era allo stremo, ma l’orchestra continuava a tutto volume.. Imbarazzante anche la scena prima dell’atto terzo, Enrico-Edgardo, sembravano andare, i due e l’orchestra ognuno per conto proprio.
Anche il famoso sestetto sembrava fatto apposta per contraddire il maestro Giulini che sosteneva la melodia dovesse scorrere.
Hom apprezzato, coi limiti da voi segnalati, la Pratt, la quale, come suggerito da qualcuno di voi, dovrebbe inserire in repertorio questa Lucia con questi suggerimenti di regia.
recita del 1 aprile
posto 11 fila 17 AHAHAH IL 17 e poi dicono di non essere superstiziosi.!
Sciagurata produzione orribile messinscena noia e noia continua;
direzione sghangherata , coro fuori tempo ..tempi impossibili
tenore sfiancato nel finale senza più voce ! La povera jessica pratt
star della serata , ha dovuto combattere con una direzione ed una
messinscena che le avrei suggerito una imporvvisa ‘non puedo cantar ‘ di caballe..ttiana memoria!
Uno spettacolo così inutile , alienato completamente dal libretto e dall’azione scenica ;
nella scena della pazzia la poveretta risale una rampa di scale tipo passerelle ferrovie nord ! ovviamente dopo essere svenuta!
con codazzo di tutti… il coro chiuso negli scatoloni extralarge
agghindato tipo i matti di mombello !
Ero senza parole è purtroppo alleggerito di 105euro !
Ma che schifezze che si vedono in giro per i teatri?
Ma questo quà (il parente del noto Abbado Claudio ) ha mai ascoltato un disco d’opera ? Non glielo hanno mai detto che
le voci si accompagnano e si suona forte solo dopo l’esecuzione
dell’aria e che non si coprono le voci con l’orchestra/banda ma che viceversa vanno aiutati i cantanti anche rallentando e/o all’uopo accelerando ? pressapochismo da capitale del terzo mondo
altro che eccellenze italiane ….bisogna coprirsi le ‘vergogne’ come
dicono i siciliani !
dei ragazzi alla mie spalle, assai volenterosi, leggevano il riassunto dal programma di sala per capire cosa stesse succedendo ed erano assai perplessi…
E qualcuno aveva avuto da ridire dell edizione scaligera (regia) ?
Oro colato quello spettacolo !
Ricordiamo Ronconi per ben altri spettacoli; su tutti il Viaggio a Reims , Fetonte, Lodoiska, una splendida Cenerentola del Rof
e tanti altri non per sta schifezza… chiamiamo le cose col loro nome!
ahahahaah……posto 11 fila 17….