Una serata tranquilla. Il dittico proposto dall’Opera di Firenze, “Dido and Aeneas” di Purcell ed il balletto “Le jeune homme et la Mort” di Roland Petit, ha regalato al suo pubblico un’occasione piacevole e interessante, che forse avrebbe potuto essere anche più raffinata con minimi accorgimenti, ma che si è lasciata ascoltare e vedere con onestà.
Il “Dido & Aeneas” mancava dal palcoscenico fiorentino dal 2001: quest’anno era affidato alle cure del Maestro Stefano Montanari, studioso e prestigioso primo violino dell’ Accademia Bizantina di Ravenna e del complesso Estravaganza.
Ridotta l’orchestra ai soli archi, oboi, flauti e fagotti, Montanari ha deciso di seguire, in parte, l’edizione critica della Novello, ritenuta estremamente attendibile dallo stesso direttore, a cura di Margaret Laurie e Thurston Dart; i quali hanno messo a disposizione tutta la musica di Purcell ritrovata, le varianti maggiori e minori successive, le cadenze strumentali, le musiche consigliate da inserire per sopperire al vuoto lasciato negli intermezzi danzati, ed una pregevole ricostruzione del perduto Prologo nel quale apparivano allegoriche divinità e cori di ninfe, sempre utilizzando musiche che Purcell aveva impiegato per altre composizioni.
Dico “in parte”, perché Montanari ha preferito inserire al posto del Prologo, un lacerto del brano “The Gordian Knot untied” sempre di Purcell, una Ciaccona per liuto improvvisata dopo il coro “To the hills and the valees” ed una “Sarabanda” al termine del II atto del compositore napoletano Nicola Matteis, pare molto ammirato dal compositore inglese e vissuto nella seconda metà del ‘600.
Se la Ciaccona e la composizione di Matteis si inseriscono in maniera quasi indolore nel flusso dell’opera, è proprio “The Gordian Knot untied” che stona lievemente isolandosi in maniera netta dal contesto; ma sarebbe stato ben più interessante, vista l’esigua durata dell’opera (e della serata) provare a compiere un tentativo di ricostruzione più accurato, magari fidandosi delle indicazioni di Laurie e Dart per il Prologo, gli intermezzi e le danze; anche perché Montanari è riuscito a far suonare l’orchestra in maniera egregia e con una brillantezza che ho riscontrato in ogni approccio barocco proposto negli ultimi anni, e questo lascia pensare che solo davanti a direttori preparati, specializzati ed in grado di ottenere un certo tipo di suono e interpretazione, l’orchestra risponda con entusiasmo, laddove con Mehta ed altri si lascia andare a prove alquanto trasandate.
Il direttore si pone a metà strada tra la tragicità classica di Leppard e la solennità di Harnoncourt: una lettura seriosa, disincantata, la cui patina nobilmente melanconica uniforma le tinte ponendosi con sguardo sobrio verso la sottile intimità psicologica dei protagonisti. Certo, l’uniformità dei colori, il ritmo meditato, l’essenzialità del fraseggio, mai pedante, invano approfondiscono la diversa natura delle scene; ed è un peccato che, ad esempio, gli episodi delle streghe non si carichino di sinistri presagi o il canto del Marinaio di rilassatezza.
Josè Maria Lo Monaco era chiamata a tradurre nel canto la dolente regina di Cartagine, e lo ha fatto assecondando molto bene le intenzioni del direttore e sfruttando con una certa efficacia il timbro scuro del registro centrale, il suo migliore e più compatto, la buona dizione che le permette di interpretare una Didone dubbiosa più che appassionata, ma mancando le brevi incursioni al registro acuto (Sol diesis) coronati da suoni fissi o duri. In ogni caso meglio sarebbe per la Lo Monaco continuare ad approfondire ed esplorare il barocco, che affrontare con risultati per nulla esaltanti i ruoli rossiniani, donizettiani e verdiani.
Vocalmente e stilisticamente centrata, mai petulante, al contrario umanissima e radiosa nel suo timbro cristallino e nelle fluide colorature la brava Belinda interpretata da Francesca Aspromonte, sostituta della prevista Maria Hinojosa Montenegro; divertenti, volutamente macchiettistiche, e dalla vocalità arrochita, aperta, esacerbata il gustoso terzetto delle streghe composto dalla tenebrosa Adriana di Paola, Alessia Nadin e Anna Pennisi; se l’arietta del Marinaio ha fatto brillare il timbro delicato dell’onesto Paolo Antognetti, gli interventi della Seconda Donna, Irene Favro, e dello Spirito, Teona Dvali, svaporavano nell’inconsistenza di voci prive di corpo.
Il ruolo di Enea è scritto in chiave tenorile e grava tra il Mi diesis ed il Fa diesis; ma la tessitura è comunque bassa per una voce tenorile e la storia ha dimostrato come sia più agevole affidare il personaggio, incentrato sulla declamazione di raffinati recitativi, a voci baritonali duttili e magari anche dal timbro chiaro.
Leonardo Cortellazzi ha una formazione ed un repertorio da tenore lirico se non addirittura contraltino (Rossini delle farse, Mozart lirico, Monteverdi, Donizetti, Beppe, Alfredo e Fenton, Rota del “Cappello di paglia”), quindi sarebbe virtualmente inadatto ad un ruolo che tende a farlo sforzare continuamente nei registri centro-grave. E’ interessante questo Enea dalla voce adolescenziale, ma resta un Enea che se la cava, pur nella sua estraneità stilistica.
Preparazione, nettezza negli attacchi, pulizia di suono, ottimi cromatismi, così si presentava il coro diretto molto bene da Lorenzo Fratini.
La regista Marina Bianchi, la scenografa e costumista Leila Fleita, la coreografa Maria Grazia Garofoli dovevano avere le idee molto confuse alla lettura del libretto.
Un guazzabuglio di trovate, un coacervo di situazioni frammentarie e balorde, in un contesto a metà strada tra un’ estetica riciclata da “La terza Madre” di Dario Argento ed un party hollywoodiano anni ’50, tra le colonne corinzie della casa di una protagonista, strano ibrido tra Doris Day depressa e Amy Winehouse in perle.
Il coro sembrava balzato fuori a casaccio da uno di quei film color pastello in technicolor ed interpretava sia i cartaginesi che le streghe del coro con eco (eco effettuato mettendo una mano sulla bocca: che tristezza); discutibile il costume bianco e oro affibbiato al povero Aeneas, come, d’altronde, le streghe raffigurate banalmente come dominatrici sadomaso con frustino, bocchino e sigaretta, che piombavano in scena tenendo al guinzaglio una moltitudine di maschietti vogliosi in mutande: in un periodo in cui furoreggiano le ipocrite, edulcorate, cretine “50 sfumature di grigio”, bisognava proprio ricordare al pubblico l’equazione sesso = male, risolto con una ironia abbastanza sfuggente e manchevole.
I maschietti dominati, poi, ci deliziavano con un balletto su tacchi a spillo: invidia di ogni donna, certo, ma coreografato abbastanza malamente, e ballato anche peggio, con evidenti sfilacciamenti ed errori nei bislacchi movimenti del corpo di ballo, come ogni singolo balletto che invadeva la produzione, chiaro riferimento al genere “Masque” inglese, di cui “Dido & Aeneas” fa orgogliosamente parte, ma il risultato mediocre non sortisce l’effetto.
Durante il canto del Marinaio, i troiani pronti alla partenza sfilavano in divisa bianca, improvvisavano un can-can e salutavano lieti e baldanzosi le gaudenti cartaginesi travestite da contadine; le streghe, ubriache, partono con i suddetti marinai; beati loro che si divertono!
Il tutto intervallato da proiezioni di volti, di onde in burrasca e dipinti barocchi e dagli interventi irritanti dell’attrice Ermelinda Pansini. Per me un incubo!
A parte il fasciante abito bianco che a malapena le permetteva di muoversi; a parte la candida parrucca spelacchiata; a parte le occhiaie da panda; la Pansini appariva ogni fine scena per declamare, microfonata, le lettere che Didone ha dedicato ad Enea presenti nelle “Eroidi” di Publio Ovidio Nasone, recitate come se fossero le pagine della sceneggiatura di “Centovetrine”, con uno stile ed una dizione a metà tra Gollum e Fiorenza, la ragazza alternativa di “Un sacco bello” di Carlo Verdone. Un delirio! Il mio crollo personale è avvenuto alla rivelazione, ricattatoria, che Didone fosse incinta di Enea al momento della morte…
Il balletto di Roland Petit “Le jeune homme et la Mort” (1946) su soggetto di Jean Cocteau e su musica di Johann Sebastian Bach (Passacaglia e Fuga in Do minore BWV 582) è la storia di un ragazzo annoiato che nel chiuso della sua stanza, danza con una fatale donna vestita di giallo e guantata di nero che lo provoca e lo respinge con violenza fino a spingerlo al suicidio: nel finale l’anima del giovane e la donna, in realtà la Morte, continueranno a danzare sui tetti di Parigi.
Bravissimo il ballerino Denys Cherevychko, che affronta la particolare coreografia ripresa da Luigi Bonino, con il furore di un atleta e permettendo all’energia di sprigionarsi lentamente attraverso il nervosismo di gesti che sembrano tic e movimenti che oscillano tra una rude virilità annoiata, ed una attrazione impulsiva e distruttiva; Alessandra Ferri, in un ruolo meno impegnativo fisicamente, ma interessante nell’espressione, continua a suscitare ammirazione grazie ad una padronanza del corpo e dei gesti dai quali promanavano fascino e innegabile carisma, arricchiti da un look che la fa somigliare ad una Juliette Greco Ape Regina e predatoria. Già viste alla Scala le splendide le scene di Georges Wakhevitch che trasformano la stanza del giovane e la Parigi vista dall’alto in una citazione intensamente colorata di certo cinema espressionista tedesco e appropriati e scenografici i costumi di Karinska. Mediocre e particolarmente impreciso l’accompagnamento all’organo di Andrea Severi.
Applausi tiepidi per “Dido & Aeneas”, maggiore calore verso i quattro protagonisti ed il direttore, mentre “Le jeune homme et la Mort” è stato salutato, al termine, da un successo fragoroso e da svariate chiamate alla ribalta per i due ballerini.