Sulla qualità musicale e teatrale della produzione di Aida, che in questi giorni sta ultimando il suo ciclo milanese, ci siamo già espressi. La rappresentazione di domenica 1 marzo offre però qualche ulteriore spunto di riflessione, a partire dalla tempistica, ovvero dall’orario in cui lo spettacolo ha avuto inizio. Fino a pochi anni fa il teatro ambrosiano sembrava avere dimenticato, o piuttosto coscientemente rimosso, la possibilità di proporre recite nei giorni festivi in orario diurno, non immaginando forse che potesse (ancora) esistere un pubblico capace di percorrere più di qualche chilometro, magari ricorrendo a quei mezzi pubblici che sono spesso, in Italia, considerati una risorsa da “inferiori” o comunque una ben misera alternativa al trasporto privato. Da qualche tempo a questa parte il vento è cambiato, cionondimeno proporre una rappresentazione operistica alle undici della domenica mattina è parsa, a prima vista, una scelta alquanto bizzarra. Poi la solita “analisi comparata” dei cartelloni teatrali, che la rete rende rapida ed elementare, ha chiarito il mistero: Zubin Mehta doveva, la sera di sabato 28 febbraio, dirigere a Napoli una recita del Tristano, nel tardo pomeriggio del giorno dopo, nel medesimo teatro, un concerto con musiche di Mahler. La recita scaligera, programmata per la domenica, doveva quindi cominciare e terminare a orari compatibili con gli spostamenti in aereo (in difetto di sistemi di teletrasporto!) del direttore, che aveva accettato di dirigere Aida in sostituzione del compianto Lorin Maazel. Alla luce dell’onerosa “schedule” del direttore indofiorentino (che, giova ricordare, è prossimo all’ottantesimo compleanno) viene da chiedersi se non fosse proprio possibile reperire, almeno per la recita del 1 marzo, un altro direttore, magari stanziale, capace di condurre in porto un titolo non certo estraneo al grande repertorio, oppure se non vi fosse modo di riprogrammare la data in questione, così da consentire alla bacchetta una maggiore serenità e concentrazione, che avrebbe forse contenuto le “svirgole” e gli scollamenti fra buca e palco, non infrequenti soprattutto nel secondo atto dell’opera. La cosa che più meraviglia, e non in positivo, è il comportamento di una parte, neppure tanto ristretta, del pubblico che (scarsamente) popolava le gallerie del teatro: gente che entrava a quadro già iniziato, spalancando porte e illuminando quindi a giorno interi settori del teatro, spettatori (non solo anziani o malati…) incollati a bottigliette di acqua minerale, come se la Scala in una giornata di fine inverno si fosse improvvisamente trasformata in una succursale del Sahara, altri che, vagando nella penombra alla ricerca di un posto più centrale, finivano per “impallare” la visione a quelle persone che, poverine, avevano pensato a trovarsi un posto prima che si spegnessero le luci e confidavano di poterne usufruire con assoluta tranquillità. Il tutto mentre le sempre solerti maschere della Scala passeggiavano nervosamente (soprattutto durante il terzo atto…), senza neppure tentare di reprimere o contenere i comportamenti succitati. Tralasciamo, ed è grazia che facciamo in primo luogo a noi stessi, lo spettacolo che alcuni spettatori hanno offerto nel foyer di seconda galleria al momento dell’intervallo, spettacolo per descrivere il quale occorrerebbe mescolare (e forse l’alchimia non basterebbe) le penne di Camilla Cederna e Natalia Aspesi, ma non possiamo non dire della sorpresa, anzi dello sbigottimento con cui certi stagionati habitué del loggione (occasionalmente promossi, per meriti sul campo, in “magnifica” ovvero in platea) hanno accolto le parche contestazioni che alla fine dello spettacolo hanno accolto l’uscita al proscenio di Salminen e della Lewis (il silenzio agghiacciante del teatro dopo i “cieli azzurri”, che evocavano quelli di Hiroshima, resta un unicum, non solo nella storia scaligera). Quello offerto dal massimo teatro milanese in questa domenica “fuori orario” è in altre parole lo spettacolo di un’istituzione allo sbando, che (per riprendere una felice definizione coniata dal collega Donzelli) è ormai ridotta a prodotto per turisti e circolo ricreativo per anziani. Un teatro in cui, letteralmente, può ormai succedere di tutto, come dimostra il susseguirsi, che sembra infinito, di forfait (“buon” ultimo, quello di Villazon, definitivamente scomparso, senza una parola di ulteriore spiegazione, dalla locandina del Lucio Silla, di cui avrebbe dovuto cantare le ultime tre repliche). In attesa di più ampia e sontuosa riparazione o consolatoria che dir si voglia, ascoltiamo e riflettiamo sul solido mestiere, l’onesta professionalità, l’incrollabile rispetto del pubblico di Caterina Mancini e Mario Filippeschi. – AT
Se mi è consentito aggiungere qualche notazione. Posso preannunciare che la prossima volta che andrò alla Scala mi presenterò con la schiscetta dalla quale tirar fuori pane e bologna o meglio ancora un giustamente unto pane e frittata o i nervetti. Tanto con un pubblico che entra in loggione sistematicamente in ritardo per uscire in anticipo (neppure fossero tutti over 70 affetti da scarsa continenza) che tracanna (beve a canna per dirla con poca eleganza, beve alla bottiglia per dirla come la signora Olivero) acqua e semina le bottigliette pane e companatico stile street food ci sta bene ed in occasione della prima di Lucio Silla il foyer del loggione olezzava come la mensa aziendale in grazia di un bel soffritto di cipolla, presago di un risotto giallo, che mi auguro migliore del Silla. Il problema non è la bottiglia dell’acqua, il problema è un pubblico che non è più un pubblico ove per pubblico , massime del loggione si deve intendere chi ama l’opera, conosce titoli ed esecutori e viene per confrontarsi con l’esecuzione. Ma questo ormai fa parte del mondo dei sogni. Come oggi dalle colonne di un quotidiano molto controcorrente si dice che da quarant’anni la classe politica si è impegnata per distruggere coscienza e valori di un popolo, la stessa infame manovra è stata posta in essere nei teatri ad opera di direzioni artistiche, sovrintendenze e stampa amica. A riprova che non servono le leggi del 3 gennaio 1926 (mi auguro di ricordare bene) per distruggere libertà, dì stampa e minare quella di opinione. Un pubblico abulico, non reattivo, composto di turisti, tanto variamente quanto inopportunamente agghindati, l’assenza o il silenzio degli appassionati ricordano un dismesso cimitero. D’altra parte proponi prodotti scadenti oggi, riproponili domani, sino a che reggono (la stagione scaligera o è un lazzaretto o una mistificazione al limite della truffa o dell’abuso della credulità popolare) , insulta il pubblico se reagisce, sostieniti solo con stampa amica, distruggi il passato, stermina il dissenso in nome del solo profitto che è poi andare a dire che il bilancio è in pareggio (perchè neppure i capitani di industria che siedono in cda sanno far parlare i numeri dei bilanci) il risultato è la mortifera Aida. Per il pubblico che ormai diserta è ammessa a scusante che sul palcoscenico non ci sono più Bergonzi e Tucker, ma neppure Labò o Pedro Lavirgen. Per i tre grisini che hanno affrontato l’alba milanese c’è stata la consolazione di vedere il giorno sorgere ed illuminare una deserta e saviniana piazza del Duomo, attraversare una ripulita, ma asettica galleria Vittorio Emanuele per bere il caffè in un Mc Donald popolato di affranti e frastornati reduci dalla disco con vesti simboliche e nel reparto femminile abbondanti “scurlere” (smagliature) nelle calze. E poi mi lamento che il pubblico sopporta passivamente una pessima Aida. Forse il miracolo è che qualcuno compri ancora i biglietti per la Scala. – Domenico Donzelli
Mi associo senz’ altro ai commenti sulle maschere: nonostante il turistame (un capitolo a parte meriterebbe il tema ‘selfie in Scala’), i dandy cariati, i ritardatari, i tarzan che si appolaierebbero sulle spalle di chi hanno davanti pur di vedere un po’ di più (alla faccia dei ‘colli torti’) e gli ignoranti che si scambiano ‘ooh!’ di maraviglia quando arriva il Pezzo Forte e riconoscono il Coro Nuziale, il Nessun dorma ecc., le mie avventure scaligere non non mai state tanto funestate come dallo scalpitare e chiaccherare delle maschere, pur insignite di vistosi medaglioni e nettate con toilettes invidiabili.
Le ho viste intervenire solo quando, durante una Walkiria, la sindrome di Stendhal portò un signore allo svenimento: ma a parte questo caso estremo, non le ho mai viste rimbrottare nessuna delle vuccirie che tanto spesso incorniciano le rappresentazioni.
Vista l’ atmosfera da Woodstock che avete descritto, attendo con un sogghigno già predisposto l’ annuncio del primo joint acceso nella sala del Piermarini. Questione di tempo ma, se le cose stanno come voi dite, ci si arriverà… 😀
mio caro qui non è questione di Woodstock (e magari lo fosse!) ma di clima da festa dell’unità (o della lega, poco importa). Anche per fumare decentemente uno spinello ci vuole un certo stile, proprio quello che manca ai burini che frequentano ultimamente la Scala .
dopo aver postato quell’illuminante intervista di Lissnier ex sovrintende del’ tempio della lirica’ , non mi/ci stupisco/amo più di nulla . La scala è ormai un carozzone tenuto in piedi da una massa di incompetenti e mediocri e temo persino neanche appassionati
di musica