Quando teatri di gran nome, cospicua tradizione e congrui foraggiamenti stentano a portare in scena versioni di minimale decenza di titoli come Carmen e Lucia di Lammermoor, sarebbe follia pretendere l’eccellenza da piccoli teatri, che spesso vivono o meglio sopravvivono soprattutto grazie a contributi volontaristici (non ultimo quello che proviene degli spettatori non provvisti di ingressi omaggio). Anche se il titolo in questione è, magari, Bohème o Elisir d’amore, insomma una di quelle opere che anche sui piccoli palcoscenici non hanno mai conosciuto oblio di sorta e di cui, magari, sono state proposte, proprio nella profonda provincia, esecuzioni memorabili. Per averne un saggio basta consultare il sito La casa della musica, che riporta le cronologie del Teatro dapprima Ducale, poi Regio di Parma, dal 1829 ai primi anni Duemila. È una lettura interessante, perché dimostra come tradizione, ricerca, amore per la cultura e attenzione al botteghino possano felicemente coesistere. In alcuni casi bastava la presenza di un grande cantante, anche non più nel pieno della forma, ma sostenuto da validi colleghi, anche e soprattutto dal podio. È il caso di Tito Schipa, che a Parma fu Nemorino nel 1933 (con un cast di contorno di assoluto lusso: Capsir/Carosio, Biasini, Cirino, direttore G. Podestà) e di nuovo nel 1950, sotto la bacchetta di Molinari Pradelli.
Non meraviglia pertanto che la magra, anzi, quaresimale stagione 2015 del teatro parmense si apra con una produzione di Elisir d’amore, in cui l’unico cantante di qualche rilievo è il protagonista maschile. Né ci si può stupire che il pubblico locale dimostri, ancora una volta, un amore per il teatro, che richiama la devozione di certe mogli a un marito notoriamente infedele, che torna, però, regolarmente a casa con mazzi di fiori e gioielli “riparatori”. Quel che meraviglia, anzi lascia interdetti è l’atteggiamento di certa critica professionista, che a quel pubblico si accoda e si accorda, ora abusando dello sciroppo della perifrasi, ora spendendo espressioni altisonanti, metafore ed iperboli per uno spettacolo che, a definirlo parrocchiale, si rischia di far torto a quei membri del clero, operosi animatori di tante iniziative a beneficio dei fedeli.
Modesto, forse naif, certo non memorabile ma neppure da biasimare lo spettacolo di Marcello Grigorov, che riprende scene e costumi confezionati quasi trent’anni fa per un allestimento di Francesca Zambello. Ha, se non altro, il pregio della semplicità, nella speranza che all’apparente minimalismo non siano corrisposti esborsi economici degni delle più faraoniche zeffirellate.
È il resto della produzione che, semplicemente, non si regge in piedi. Il difetto principale sembra risiedere nel manico, ovvero nella direzione di Francesco Cilluffo, fin dal pestato preludietto e da un’introduzione, che fa dubitare, al pari di tutti i numeri in cui compare il coro (e la corifea Giannetta), che il medesimo abbia effettuato un numero sufficiente di prove. Che il gesto del maestro Cilluffo non sia il più chiaro possibile lo dimostra anche il fatto che, nei concertati, i solisti stentano regolarmente a entrare a tempo e si ritrovano spesso a improvvisare improbabili rappezzi, come fa Celso Albelo (che pure dovrebbe essere assai pratico del titolo) nel finale del primo atto. Si taccia della velleità di aprire i tagli di trazione, quando si ha un coro che incespica alla frase “qualche grande che corre la posta” all’entrata di Dulcamara, una banda interna che “canna” l’attacco all’introduzione del secondo atto e più in generale quando si accompagnano con la medesima asetticità, pesantezza e predilezione per tempi slentati le numerose scene di colore, l’ammiccante duettino Adina-Dulcamara, la vanagloria di Belcore e le trenodie del protagonista. E la cosa sorprende non poco, visto che parliamo del medesimo direttore che la stagione scorsa riuscì, pur alle prese con un titolo non semplice come Tancredi e una compagine non meno raccogliticcia di quella udita in Parma, a trovare colori e atmosfere in linea di massima pertinenti.
Non stupisce invece, alla luce del Melitone ultimo scorso, la prova di Roberto De Candia quale Dulcamara. Più che cantare, parla. Si potrebbe obiettare che la componente principale del ruolo è per l’appunto la declamazione. Senza dubbio, ma il “parlante” di Dulcamara, vuoi alla presentazione dei prodotti all’uditorio o a singoli potenziali clienti, vuoi alla barcarola al secondo atto, richiede una voce perfettamente a fuoco, in grado di scandire il testo, sottolineandone le ironiche fanfaronate, trovando colori e inflessioni che valorizzino la retorica del ciarlatano e ne rendano plausibile la figura. Nel caso presente: voce senza punta, grigia, nessuna autentica verve, personaggio non pervenuto.
Tra i solisti di canto il migliore, o se si preferisce il meno inadeguato, forse perché quello più “fresco”, è Julian Kim. La giovanile baldanza di questo sergente si esprime soprattutto tramite l’imitazione di un modello assai amato in Parma, ovvero Leo Nucci. Ne deriva un canto caratterizzato più da volume che da autentica ampiezza, acuti stentorei, mancanza di legato e di un canto a fior di labbra, che consenta un’esecuzione meno approssimativa delle fioriture della cavatina. Che il cantante si avvalga soprattutto della dote naturale emerge con chiarezza nel secondo atto, quando la “benzina” comincia a scemare e il baritono, dopo avere arronzato il duetto con Nemorino, chiude l’atto con uno smalto considerevolmente ridotto rispetto all’avvio della serata. E parliamo di una parte non lunga e, con l’eccezione di un paio di passaggi, di certo non impervia.
Celso Albelo si presenta vistosamente dimagrito nel fisico e, purtroppo, anche nella voce. Finché la scrittura gravita in zona centrale (ad es. nella prima sezione del Larghetto del finale primo) le cose, più o meno, funzionano, benché la dinamica sia limitata a un costante mezzoforte (i tentativi di smorzatura nel duetto con Adina danno luogo a suoni spoggiati e chiocci, spesso anche stonati, come nella romanza, peraltro bissata a furor di loggione) e manchi un legato degno di questo nome. La salita agli acuti è, per contro, molto faticosa e dà luogo a suoni spinti e nasali, in una sorta di caricatura dell’ultimo Kraus. Ovviamente al duetto con Belcore vengono eseguite ben due puntature, che scatenano l’entusiasmo del pubblico. Lo stesso entusiasmo che suscita l’exploit finale di Jessica Nuccio, inconsistente vocina di soubrette che per tutta la rappresentazione pigola e squittisce e al rondò sfodera (come già alla chiusa del finale primo) acuti e sovracuti fissi e vetrosi, da Olympia in procinto di sbriciolarsi. Trionfo anche per lei, con richiesta e concessione del bis di prammatica. Per il resto la coppia di amorosi canta, come suol dirsi, “in ciabatte”, ovvero esegue quasi di malavoglia i passi concertati (in molti casi il coro è lasciato da solo, mentre i protagonisti tacciono, vuoi per riprendere le forze, vuoi per la difficoltà nel cogliere le indicazioni provenienti dal podio) e brilla (si fa per dire) nei passi solistici, per la delizia di un pubblico che reagisce all’acuto “sparato” con riflesso pavloviano, facendo per contro passare sotto silenzio pagine come “Quanto è bella” e “Adina credimi”, che hanno il torto di chiudersi senza acuti di sorta.
Al termine della rappresentazione alcuni interrogativi si impongono. Il primo: come farà Albelo ad affrontare titoli come Bolena e Puritani in teatri in ogni senso incommensurabilmente più grandi della bomboniera parmigiana? Il secondo: come può la signorina Nuccio, voce e tecnica da studentessa di Conservatorio (e non fra le prime del corso), avere già affrontato Violetta e Liù non a Busto Garolfo o Sesto Imolese, ma a Venezia e Valencia? Il terzo: fino a quando rimarranno disponibili su Youtube i video della prima, che impietosi documentano il livello di una produzione del genere e smentiscono peana amicali e pietose bugie di campanile?
Ascoltati gli exempla dell’Elisir “ducale” posti come pertinenze del commento, è difficile dissentire da Tamburini.
Direi che questo Elisir RAI in bianco e nero anni ’60 è tutt’altra cosa (soprattutto se si paragonano le 2 Adine ed i 2 Dulcamara):
https://www.youtube.com/watch?v=z0EMDioqFF4
Che pena la scena di Adina del secondo atto della Nuccio… vergognoso quel che fa alla ripetizione della cabaletta dove semplifica e spiana ogni agilità, cioè il contrario di quanto andrebbe fatto, e emette in compenso berci su berci, sforzati e fastidiosi. Indecente.
Non amo la Devia in questo ruolo perché è totalmente inespressiva e manca del tutto di verve comica (a differenza della Serra e della Gruberova), ma è vocalmente su un altro pianeta. Ed era il 2003.