“… Mi trovo ad allestire [“I puritani”] in un momento molto particolare, perché quando Bellini l’ha composta aveva la mia stessa età. Io trovo che ci sia una frase che rappresenta la chiave di volta dell’interpretazione del libretto, ed è una frase che si scambiano Elvira e Arturo nel III atto, quando lui torna dopo la sua assenza ed Elvira lo accusa in qualche modo di essere stato via molto tempo. Lui minimizza dicendo di essersi assentato solo per tre mesi, ma Elvira risponde che per lei quei tre mesi sono stati tre secoli.
Arturo nel I atto parte per una sorta di viaggio astrale ed il tempo comincia a scorrere diversamente e a muoversi su diversi binari per i diversi personaggi dell’opera. Per Arturo effettivamente sono passati tre mesi, ma per Elvira e per chi rimane intorno a lei sono effettivamente passati secoli. I raggi del sole che aprono l’opera sono questa forza che relativizza il tempo. Nel I atto quindi la vertigine prospettica di una cattedrale gotica incomincia a perdere smalto ed a rovinare su se stessa; una parte della volta vedremo che è crollata durante il secondo atto e nel III atto questa volta è completamente atterrata e ci troviamo in una sorta di spazio lunare, di limbo metafisico. Gli squilli di tromba del I atto rappresentano una sorta di tromba divina del giudizio universale e la preghiera che si sente all’interno è quasi una chiamata angelica, una chiamata metafisica verso queste anime che ancora non possono lasciare le spoglie terrene, perché rimane qualcosa da fare. Questo qualcosa, vale a dire la vendetta su Arturo si sta per compiere nell’ultimo atto, quando Arturo viene fermato, viene scoperto, e Riccardo ha quindi la missione di vendicare tutte le anime e quindi di liberarle. Succede però qualcosa, Riccardo proprio nel momento in cui potrebbe uccidere Arturo e quindi portare a compimento questa missione terrena, decide improvvisamente di perdonarlo. Questa forza del perdono, questa forza salvifica del perdono, è qualcosa di una portata e di significato fortissimo, e anzi io credo che sia proprio il perdono di Riccardo a diventare la missione che l’uomo deve adempiere per trovare la pace e quindi liberarsi dalle spoglie terrene.”
Fabio Ceresa, intervistato da “Repubblica TV”.
Ma cosa avrà voluto dire?
Partendo da queste premesse, come minimo, Ceresa avrebbe dovuto allestire “I puritani” alla luce di “Interstellar” di Christopher Nolan o quanto meno, ispirarsi alle immagini spaziali inviate da Samantha Cristoforetti; invece al posto di uno space shuttle o di una macchina del tempo in stile H.G.Wells, abbiamo una Elvira costretta a trascinarsi un paio di ingombrantissimi e decoratissimi costumi fucsia e candidi abiti da sposa dotati di una enorme molla rimbalzante cucita esattamente ad altezza fondoschiena; probabile omaggio del costumista Giuseppe Palella alle origini australiane del soprano ed al suo animale simbolo, il canguro.
Il “paesaggio lunare” auspicato dal regista è in realtà una frastagliata discesa ricoperta di tombe scoperchiate, altro omaggio inconsapevole a Lucio Fulci ed al disturbante finale del suo film culto “E tu vivrai nel terrore – L’aldilà”; tombe, dicevo, che a comando, per negromanzia immagino, si illuminano dall’interno di sinistra luce dorata oltretombale, alla quale si accoppia una intensa emissione di fumo e gas, talmente abbondante da gettare nella nebbia l’intera sala dell’Opera di Firenze, manco fossimo sul set di “Fog” di Carpenter.
Mi sarei aspettata che da quei avelli infuocati spuntassero gli eretici Farinata degli Uberti o Papa Anastasio II descritti da Dante, doveroso ammicco alla città ed al suo poeta; invece fuoriescono gli zombie del video “Thriller” di Michael Jackson, che al posto di ballare in stile anni ’80, si muovono a rallentatore e si azzuffano tra loro senza un perché, come ogni morto vivente dabbene.
Ad essere sinceri la scenografia disegnata da Tiziano Santi possiede una sua lugubre suggestione ed una interessante vertigine prospettica, valorizzate al massimo grazie alle spettacolari luci di Marco Filibeck, e potrebbe adattarsi molto bene ad opere come “Elektra”, “Penthesilea”, “Don Carlo”; “Ernani”, “Maometto II”, “Lucia di Lammermoor”. Il problema è che a mortificare la cornice ci pensa proprio l’ingenua realizzazione delle pochissime idee registiche all’interno di un allestimento altrimenti tradizionalissimo. Poche idee, ma molto confuse, di chi dimostra di non essersi preso la briga di comprendere l’opera nemmeno leggendone il riassunto su Wikipedia ed è stato colto da una scheggia della follia di Elvira.
Così dopo gli zombie, abbiamo un Riccardo, evidentemente necrofilo, che bacia con passione il sarcofago che presumibilmente conserva le spoglie di Elvira e credo, ma non sono certo vista la poca chiarezza di Ceresa, che tutto lo spettacolo sia un suo flashback. Così tra puritani che indossano e trascinano a fatica lunghi e scuri cappottoni con strascico sopra eleganti armature sbriluccicanti, “plagiate” pari pari dagli spettacoli di de Ana e Kupfer, e puritane col chador, evidentemente convertite alla fede islamica, abbiamo anche ragazzotti che invece di festeggiare con vini e champagne le nozze tra Elvira e Arturo, o organizzare un addio al celibato, si baloccano con un velo nero stile Fafner di pezza e ballerini partorito alla Scala dal contorto “genio” del famigerato Cassiers; personaggi evidentemente daltonici che parlano continuamente di velo candido sul capo di Evira ed Enrichetta quando esso è nero lutto; e tra balli sociali latino-americani che si scatenano tra i coristi, Riccardo e Giorgio durante il “Suoni la tromba”, abbiamo anche una fantasmatica Elvira travestita da Azucena e circondata da prefiche-spettro e l’inspiegabile, comica, morte di gruppo finale, dovuta alla noia immagino, che lascia in piedi il solo Riccardo.
L’unico momento riuscito e commovente è rappresentato dalla follia di Elvira, la quale smarrita e lacerata cerca tra i coristi il suo Arturo a cui restituire il mantello abbandonato al proscenio durante la fuga, ed è realmente toccante, così intrisa di disperazione, al secondo atto, la “seduzione” con la quale la fanciulla circuisce il povero Riccardo, che letteralmente si lascia travestire da Arturo pur di condividere l’illusione di un barlume d’amore con colei che avrebbe dovuto sposare e che ora è solo una larva.
Il cast ha sofferto una serie di sostituzioni, anche dell’ultima ora, che l’ufficio stampa dell’Opera di Firenze ha reputato bene di non far notare al pubblico pagante, come sempre in questi casi, quando soprattutto si pretende da esso l’applauso facile, teatro pieno ed un rapporto di fiducia, prontamente boicottato dal teatro stesso.
Via Sagripanti, sostituito appunto da Beltrami; via Yijie Shi, in favore di Siragusa; via il secondo soprano previsto, per Maria Aleida. Non esattamente Bonynge, Matteuzzi e Mariella Devia, insomma.
In comunione di intenti con la regia, la direzione d’orchestra di Matteo Beltrami si allinea allo standard dello spettacolo. Una direzione quanto più lontana dallo spirito di Bellini, quanto più lontana dal suo stile, che affossa e affonda impietosamente l’orchestrazione del compositore, così essenziale ed elegante, l’elettrizzante utilizzo psicologico dei singoli strumenti atti ad esaltare la teatralità di un’azione o una scena, l’utilizzo così poetico dei temi e delle melodie che tornano a sottolineare una subitanea invocazione o uno stato d’animo, la ricerca di un’epica romantica.
Nulla di tutto questo nella lettura di Beltrami, troppo occupato, si capisce, a insistere su tempi a rompicollo (il preludio) alternati a dilatazioni temporali che lasciano francamente sgomenti nella loro grigia monotonia e nella totale assenza di dinamiche o di brillantezza. Interminabili il primo ed il terzo atto, massacrati da tempi a strappo e da sonorità bandistiche che martellano sulle voci invece di sostenerle e avvolgerle nelle atmosfere della partitura; la mancanza di fraseggio orchestrale disattende ogni prescrizione a sfumare o alleggerire o a rendere sfaccettati i momenti scenici, complice un’orchestra che se alla prima possedeva una parvenza di suono ottimale, con qualche sbavatura negli strumenti a fiato, già alla seconda quel minimo sindacale di decorosa routine si era già sfilacciato in quasi tutte le sue componenti; e se gli archi continuano a reggere solitari, per i fiati, i legni e gli oramai spernacchianti ottoni sui quali si è già detto, infierito e confermato tutto il peggio, oramai non c’è più alcuna speranza di dignità. Un bellinicidio.
A Beltrami va dato atto di aver, quanto meno cercato di rispettare l’integralità dell’opera praticando minimi tagli.
Sulla stessa lunghezza d’onda di regia e direzione il Riccardo di Massimo Cavalletti.
La presenza di Cavalletti dimostra quanto poco si creda in questo repertorio, ed in modo particolare in Bellini e incarna senza rimedio la poca lungimiranza, per non dire la scelta scriteriata, con la quale i cast vengono assemblati: timbro sgradevolissimo, orchesco, emissione rozza, addirittura brutale con quel vezzo di cambiare costantemente vocale in base alla nota per cercare di farla girare meglio col risultato di accentuare le già evidenti disuguaglianze, stile dozzinale e pedestre, puntature all’acuto lanciate allo sbaraglio ogni due frasi, tanto da far apparire Bonisolli un timido risparmiatore di note, La bem scaraventati a forza di decibel sul pubblico, fissi, sforzati e calanti senza un senso logico o un legame con Bellini, fraseggio da villain del verismo di terza scelta. L’antibellini.
Un po’ meglio le cose vanno con i bassi a patto di restare in materia di accento e di musicalità, perché sia il Giorgio Valton di Salvatore Buratto sia il Lord Gualtiero di Gianluca Margheri possiedono dei centri timbrati e buon gusto nel conferire ai loro personaggi nobiltà e austerità paterna, ma l’emissione è impastata in gola e se la tessitura si alza o si abbassa la voce tende a strangolarsi o a sparire. Riccardo Zanellato, Giorgio nel secondo cast, nonostante la voce piccola ed un vibrato in zona centrale, possiede un’emissione più leggera e controllata, una padronanza più scaltra dello stile ed un affiatamento maggiore con il soprano. Approfondire questo repertorio e lasciar perdere Verdi sarebbe auspicabile per una voce così delicata.
Dignitoso e corretto il Bruno Robertson di Saverio Fiore e un po’ troppo Mamma Lucia la Enrichetta di Rossana Rinaldi, che comunque ha dei gravi di tutto rispetto ed un buon volume.
Ammetto senza problemi la mia allergia alle voci appartenenti al registro di tenore contraltino così come ci vengono proposte soprattutto oggi dai vari Florez, Osborn, Spyres, Brownlee, Shi, Breslik, Korchak, Camarena, Albelo e compagnia cantante: sopporto molto poco quel vibratino caprino nella seconda ottava; quel vezzo di emettere gli acuti e sovracuti caricando la “E” e infilando il suono nel naso per cercare maggiore ampiezza che puntualmente si muta in insopportabili vagiti infantili; quell’emissione ingolata se la voce insiste troppo al centro o deve andare sotto il rigo con il risultato di tramutare un timbro già da Topo Gigio in qualcosa di gutturale e sgradevole; quell’alternanza di canto al fior di labbro con inflessioni da cantante neomelodico; quel fraseggio trasandato perché troppo preoccupato della nota, della puntatura o di non apparire troppo legnoso nella coloratura o nei vocalizzi. No, non fa per me, e Siragusa conferma la regola con l’aggravante che nei terzetti, nei quartetti e in duetto con il soprano tende a sparire o ad essere spazzato via e almeno ha la saggezza di risparmiarci il Fa sovracuto.
Nonostante la tradizione voglia “I puritani” opera per tenore, come accade spesso, soprattutto in mancanza di un protagonista ragguardevole, ecco che l’attenzione viene calamitata dalla primadonna, in questo caso una protagonista di rango: Jessica Pratt.
Non pensavo di trovarla così in forma, imponendosi con autorevolezza su cast e sul direttore e portando da sola sulle sue spalle il peso dello spettacolo, impresa non da poco non potendosi giovare di un direttore di vaglia.
Per dovere di cronaca devo riportare che alla prima recita la Pratt, purtroppo, a causa della bassa tessitura, durante il duetto con Giorgio spariva risucchiata dall’orchestra, era davvero inudibile, e che il terzo atto la vedeva leggermente stanca, anche a causa dei tempi indugianti, con evidenti acuti emessi sotto sforzo; alla seconda, dove era riuscita a risolvere pienamente il duetto con lo zio, durante il canto interno al II atto la Pratt è incorsa in una papera che l’ha bloccata per qualche secondo attaccando “Qui la voce sua soave” al posto di “O rendetemi la speme”, errore dal quale si è ripresa senza tradire nervosismo.
Sorprendente, vibrante, elegiaca, ricca di trasalimenti, l’Elvira della Pratt si configura come l’incarnazione più soave e completa di questo personaggio che oggi possiamo ascoltare.
Un canto, il suo, che può giovarsi di una buona dizione, di un ottimo controllo del fiato, di un emissione solida, leggera, soprattutto al centro, negli acuti e nei sovracuti, che le permette una coloratura fluida e fosforescente, un legato curato, fantasia nelle variazioni come quelle brillantissime della “polacca”, forse fuori stile, ma credibilissime, cantata nella sua sublime interezza, o nella follia del II atto, attacchi puliti e messe di voce che si rinforzano o affievoliscono rimanendo timbrate, sovracuti che scintillano intonati.
E se il timbro è gradevole ed i gravi deboli, appropriato è al contrario il fraseggio che cerca di donare la massima credibilità all’evoluzione psicologica di Elvira.
La tensione dubbiosa del I atto è coronata da una “polacca” di innocente femminilità, così come lo smarrimento con il quale si conclude l’atto e l’onirica follia del II sono scene valorizzate da una voce sana, sobria nello stile, che si arricchisce di colori nell’immaginare l’estasi amorosa e la delusione dell’abbandono. Il III atto vede la voce della Pratt arricchirsi di elegiaco languore mentre accompagna la canzone del trovatore e la successiva agnizione con Arturo. Una interpretazione di grande spicco, che mi auguro di ritrovare ancora altre volte, magari approfondendo ruoli belliniani, donizettiani, rossiniani, del repertorio francese così fascinoso di possibilità, del Mozart più lirico, e del barocco.
Successo personale per lei, alla prima, incandescente alla seconda recita, applausi cordiali, ma un po’ fiacchi, per tutti, con condivisibili contestazione per Cavalletti, Beltrami e verso gli autori della parte scenica.
Aridatece Ferruccio de Ceresa……
Mi stupisco ancora di come siamo ridotti alla fame …se per allestire un opera ci si debba ancora servire di queste pseudo-presentazioni del regista che ovviamente ritiene gli spettatori (degli ignoranti e dei beoti)
Vabbè che nell’ora presente son poche le persone che conoscono l’intero testo o libretto. Però seppur per brevi tratti chi va a teatro di solito almeno il titolo lo conosce: I puritani e i Cavalieri.
Comunque almeno ci fa note le elucubrazioni mentali di coloro che studiano (non l’opera) ma come farci fessi!
Nelle opere belcantiste la trama serve a creare l’atmosfera per sciorinare con perizia le note sopratutto dei due protagonisti e predisporre lo spettatore a gioire delle bellezze e arditezze di chi canta, e quì casca l’asino. Negli ultimi decenni (purtroppo) i cantanti capaci di far questo si sono talmente assotigliati da rendere pressocchè impossibile abbinare almeno due voci (tenore e soprano) tralasciando il baritono e/o il basso
Anche il sottoscritto ha dovuto attendere un po’ d’anni prima di assistere a dei puritani di qualità (1985 Martinafranca) anche se a dirigerli era un veterano: Zedda il cast era coi fiocchi :Devia,Surjan, De Corato,Bertolo. Sì Bertolo! perchè tolto il fa sovracuto del terzo atto (irrealizzabile comunque al giorno d’oggi) per il tenore occorre una voce chiara; e lo spazio dell’atrio del palazzo ducale per Bertolo era sufficiente.
I Puritani li riascoltai a Bologna stesso cast dir.Campanella nel 1986
poi la Devia li cantò a catania nel 1989 con Matteuzzi.Nuovamente a Bologna con Merritt,Coni,Surjan e Zedda.Indi a Genova nel 2001 e a Sevilla nel 2000.
Mi fa piacere che ricordi Bertolo. È un cantante che mi piace molto. Anche se l’Arturo migliore per me resta il Kunde degli anni ’90, capace DAL VIVO di eseguire senza forzature e falsetti il Fa sopracuto di “Credeasi misera” (o di reggere la stratosferica tessitura di “A tanto duol” da Bianca e Fernando).
Sulla recensione sono d’accordissimo come si ha avuto modo di discutere in chat per la diretta radiofonica.
Duprez anch’io come te credo che Kunde sia stato un eccellente Arturo, oltre che molto plausibile (vista la proverbiale difficoltà dei ruoli) come Tell e Raoul e molti altri personaggi. C’è sempre il suo porgere elegante e una grande sicurezza, si vede che ha sempre studiato tanto e interpreta spesso bene, anche se la voce non è mai stata così bella o in tutto adatta ai ruoli affrontati.
Grazie per l’ascolto del per me ignoto Umberto Urbano che trovo magnifico nella difficile cabaletta in cui io, personalmente, ho sentito sempre tutti affogare o essere in difficoltà più o meno evidenti.
Ho assistito ier sera alla rappresentazione con il II cast. La prima volta che mettevo piede nel nuovo teatro. Grande senso di spaesamento e rimpianto per il vecchio Comunale. Ricordo i Puritani del ’74 o ’75 con Muti, Deutekom e Gedda. Altre emozioni !
Condivido tutto quanto scritto sopra, compreso il fumo che mi sono visto arrivare in faccia e che a un certo punto mi ha fatto temere per un attacco di panico, tanto era intenso. La cosa che più mi ha colpito è stata l’assoluta mancanza di legato e di struggimento tipica di certe arie , duetti, concertati dell’opera.
Un esempio per tutti quel bellissimo momento ” Ah vieni al tempio …” di Elvira. Magistrale e straziante la Gencer della registrazione dal vivo di Buenos Aires. Ecco, quella che ho ascoltato ieri sera non era neanche parente alla lontana! Anche se la Aleida e mi è sembrata, come la Pratt, la cantante migliore della serata. Il tenore, secondo il mio modesto parere a parte alcune belle note, mostrava problemi di intonazione.
Regia cervellotica, bravi i mimi al rallentatore! Ma che c’entrassero, non l’ho capito.
Bella la cattedrale gotica. Ma le tombe che si aprono, che cosa significavano! Boh!
Il direttore. Povera creatura! Ha distrutto un capolavoro.
Caro Sedjemef, i Puritani con Deutekom, Gedda e Muti risalgono al dicembre del ’70. Indimenticabili, anche se Gedda per tre volte su quattro non imbroccò il re bem. di “A te o cara”.
Marco Ninci
recita 5 febbraio
Se il regista ci ha messo del suo ,POCO per la verità,
il direttore ha compiuto il capolavoro!
Bisognava essere sordi per non sentire gli
strafalcioni che arrivavano dall’orchestra ed in particolare dai
fiati …
Tutto slegato con tempi o troppo lunghi o troppo serrati
quanto ai concertati ogniugno andava un pò per contro
suo una specie di ‘anarchia’ ad libitum
Il buon Siragusa ha tenuto testa ad una partitura impervia
La Pratt è stata la reginetta della serata, nonchè maestro concertatore si Lei; nel finale del 1^ atto è riuscita a dare i tempi
a legare col coro e con l’orchestra ed è stata brava ideatrice
di bellissime variazioni nitide e di gusto
Anche il resto del cast mi è sembrato all’altezza .
Il peggiore è stato Matteo Beltrami che si stenta a
credere abbia diretto l ‘orchestra ed i cantanti
che sono state le sue vittime . Lui horror director
Quanto al giovane regista , pluri assistente di nomi di gran lustro e purtroppo anche di tale Tcherniakov (Cernobylia per gli amici)
che ha costruito una lugubre storia d’amore che però non ho
trovato così repellente come da voi scritto.
Atmosfere cupe , nebbiose e nebulose che avevano una loro
dimensione ..bellissimo l’incontro tra Arturo ed Elvira nel 3^atto
giocato su un contrasto cromatico scuro con l’ingresso della Pratt
come ombra …
Splendidi i costumi .
Teatro vuoto : platea non presidiata all’intervallo dalle maschere
per consentire di riempire buchi vistossisimi di pubblico.
Questo gioiellino costato intorno ai 100milioni di euro 200miliardi delle vecchie lire comincia già a perdere qualche stucco qua e là
Ma come dice l’ebetino non facciamo i gufi .
Sono invero d’accordo con i commenti dei miei chiarissimi precedenti:si potrebbe dire in sintesi che questo passa il convento…però fortunatamente c’è Jessica Pratt…che DONNA!Ho avuto anch’io la fortuna di vedere la Gencer,la Devia artisti sublimi.Mi pare che la Pratt sia la migliore della compagnia di ieri sera al Maggio.Permettetimi poi una “volgarità”:negli anni 80 mi ricordo dei Puritani a Bregenz con Edita Gruberova,Salvatore Fisichella,Giorgio Zancanaro e un giovane basso greco Kavrakos credo si chiamasse.Il podio lo teneva con una certa nobiltà il maestro Masini spremendo al meglio l’ Orchestra della Opernhaus di Zurigo.Insomma voglio dire che tutti gli artisti erano nel ruolo.Una banalita forse per quegli anni ma una rarità adesso.Scusatemi ancora se ho abbassato il tono della discussione.