Francesca da Rimini, la più famosa opera di Zandonai, venne rappresentata a Torino il 19 febbraio 1914. Fu un successo immediato nel giro di un biennio era stata rappresentata nei maggiori teatri italiani ed americani. Approdò con un cast stellare (non che non lo fosse quello della prima assoluta) alla Scala di Milano il 1916. Opera amatissima dalla prime donne; opera per nulla popolare, tanto è che quando nel 1937 venne riproposta, sempre in Scala, con altro cast stellare si parlò dell’eccezionalità della ripresa. Facile ad indagare i motivi di rispetto e stima, che circonda Francesca e parimenti la scarsa popolarità presso il grande pubblico ed anche i direttori di teatro.
Le ragioni di questi ultimi sono scontate Francesca da Rimini prevede ben quindici personaggi di cui tre protagonisti ossia Francesca, Paolo il Bello e Giovanni lo sciancato cui si aggiunge ufficialmente secondo tenore, ma con parte vastissima Malatestino dall’occhio, il terzo fratello turpe, deforme e, per completarne la negatività spione. Quando diciamo che i più celebri Malatestino hanno portato i nomi di Giuseppe Nessi, Angelo Badà e Piero de Palma si capisce bene quali siano le esigenze di questo personaggio luciferino. A questo poi si devono aggiungere le donne di Francesca dove soprattutto Biancofiore e Smaragdi (la Schiava) non si limitano a “il pranzo è servito” e quindi questo è un primo handicap. Dobbiamo segnalare che alla prima torinese, sotto la bacchetta di Ettore Panizza una diva come la Besanzoni cantò Smaragdi e un illustre basso buffo come Pompilio Malatesta il giullare, personaggio cui, nella prima scena è affidato il compito di rammemorare le altre grandi tragiche passioni adulterine della letteratura cui la rappresentata è prossima (Tristano e Lancilotto).
Il secondo riguarda la scrittura vocale priva di arie per qualsiasi personaggio. L’incipit del duetto d’amore “inghirlandata di violette” e l’invocazione, tanto più erotica quanto più sussurrata, di Francesca “Paolo datemi pace” che, talvolta, viene eseguita come assolo poco hanno dell’aria d’opera in senso tradizionale. Non attraggono il cantante e non fanno presa sulla più parte del pubblico. Non dimentichiamo che le opere del post Verdi, Puccini e Giordano ovvero quelle che, etichettate come veriste, vengono maggiormente rappresentate hanno risorse melodiche e pagine solistiche, che attirano pubblico ed esecutori, i quali, poi, dimenticano il resto (un esempio solo lo strumentale di ogni titolo pucciniano di cui si ricordano con facilona superficialità le sole romanze). E in Francesca il limite (che tale non è affatto) è particolarmente grave perché intacca ampliamente il tenore. Non che in altri titoli come Adriana o la stessa Fedora l’innamorato non abbia posizione di sudditanza rispetto alla femme fatale, ma è ricompensato con pagine di aperta cantabilità, che consentono di lucrare applausi, di cui in genere i tenori sono paghi. Non per nulla andando alle prime rappresentazioni due tenori ebbero fama da Paolo il Bello e mi riferisco a Pertile che, maestro di canto sulla parola trovava nell’enfasi, nello slancio e nel languore del declamato riservato al giovane Malatesta quanto di meglio per esaltare le sue qualità e a Giovanni Martinelli che, primo Paolo a New York, all’epoca rincalzo di Caruso (che non cantò la parte….), doveva accontentarsi e mettere a frutto l’avvenenza fisica e la facilità con cui governava la scrittura tutt’altro, che agevole del giovane innamorato. Anche questo aspetto relativo alla scrittura vocale è motivo di riflessione sulla reale fama del titolo di Zandonai.
Eppure e qui entriamo negli spunti di riflessione veri e propri per ascoltare l’opera, Francesca contiene molti aspetti, che consentivano il compiacimento del pubblico del tempo e la fama del titolo.
Il primo risiede nel libretto, che non risente dei difetti di D’annunzio librettista. Ovvio.Francesca è famosa perchè il libretto è di d’Annunzio. Vero sino ad un certo punto. Il libretto è il risultato del “taglia e cuci” portato a termine da Tito Ricordi sulla tragedia del Vate. Lavoro indispensabile quello di Tito Ricordi: il drammaturgo è un mestiere e il librettista altro ed erano attuali i risultati infelici del drammaturgo in veste di librettista nella vicenda della Parisina di Mascagni, che si lasciò affascinare ( infinocchiare?) dalla verbosità del Vate, sino a mettere mano ad un testo drammaturgico immusicabile. Dall’operazione di Ricordi rimase lo spirito del drammone di D’Annunzio, che non voleva essere secondo al primo e supremo cantore del peccaminoso amore (dramma di sangue e lussuria lo definì d’Annunzio medesimo) sulle rive dell’Adriatico. È interessante leggere il testo drammaturgico del 1901 andato in scena con la Duse e la saggia riduzione di Tito Ricordi, che lasciò il linguaggio ampolloso del vate (con tanto di neologismi come il termine Figo, divenuto negli anni ‘70 eloquente traslato riservato ad uomini dal fascino prettamente fisico) le ricercate allitterazioni, ma offrì un testo dove le situazioni drammatiche non erano né annegate né soverchiate dalla lingua del drammaturgo.
Su Francesca, poi, aleggia il fascino, unico nella cultura italiana e soprattutto in quella del tempo, di Dante che nel canto quinto dell’inferno incontra gli amanti. Paradossale, ma interessante rilevare come d’Annunzio (che per bocca del giullare al primo atto cita il poema, che i due sventurati cognati leggono al momento dell’esplosione della passione) sia fedelissimo nella ricostruzione dantesca del rapporto fra i due personaggi. Dei due amanti incontrati da Dante è Francesca, che narra la vicenda d’amore e questo ci fa ben capire che è lei che “tira le fila del gioco”; nell’opera la seduzione e la provocazione erotica vedasi duetto all’atto secondo “ un’erba, un’erba io m’ avea per sanare in quel giardino dove entraste un giorno vestito d’una veste, che si chiama frode del dolce amore” è di Francesca, creatura, che sembra anche in Dante (scontato in D’Annunzio, attesa la definizione del dramma) negare ogni immagine femminile dello stil novo per dar ragione all’aquinate sulla equivalenza femmina – peccato.
Aggiungo e propongo per inquadrare epoca e ricordare l’interesse per Dante e la sua adultera creatura un testo dell’altro grande maestro della lingua poetica italiana ossia il Carducci de “la chiesa di Polenta”.
Il testo non è solo l’omaggio a Dante ed a Francesca, ben prima di Zandonai ed anche di D’annunzio (“Rime e ritmi” venne pubblicata nel 1898) è una acconcia descrizione dei luoghi dove l’immaginario del tempo nello studio delle architetture immaginava collocate ed ambientate. Per altro anche il libretto di Francesca, come quello di Amore dei tre re e di Parisina, contiene descrizioni dettagliate dei luoghi del dramma, che rispondono agli stilemi del tempo e che sono le medesime del testo poetico carducciano nel senso che si rifanno al medesimo ideale di Arte Medioevale.
Per altro Zandonai di questo Medioevo, che inspirerà anche i musicisti successivi, fa una sorta di omaggio proprio nella prima scena quando ricostruisce la corte dei Polentani, in attesa del matrimonio costretto ed ingannatore per la povera Francesca.
Altre alla fonte illustre ed amantissima allora ed al tentativo anche musicale di dar forma al Medioevo due credo siano gli elementi strettamente musicali, che hanno garantito a Francesca, ad onta delle oggettive difficoltà di allestimento, la fama.
La prima è la presenza o forse si potrebbe dire sopravvivenza di situazioni e conseguente vocalità verista nel senso più tradizionale del termine. Accadrà lo stesso con il noir pucciniano del Tabarro. La violenza della scena della torre, dove la linea vocale di Francesca mette alla frusta le qualità della protagonista e la sua resistenza fisica, non che la scena prima del terzo atto quando l’inquieta Francesca attende l’arrivo del bel cognato ben sapendo quale sarà l’esito di quella “visita” sia da meno come tensione vocale, ancora lo scontro fra il lussurioso Malatestino e Francesca all’inizio del quarto atto e in generale la vocalità verista del crudele Gianciotto (anche se un famoso interprete, che proponiamo, fu Mariano Stabile, dicitore per eccellenza) con lo scontro davvero violento alla seconda scena del quarto atto quando il laido e respinto Malatestino svela la tresca a Gianciotto avviando il tragico finale. Non è solo una questione di vocalità, di peso orchestrale verista è soprattutto la situazione scenica basata sul realismo del dramma, sul realismo e sullo slancio bruciante del dramma, che fanno di queste scene uno degli ultimi e più forti prodotti del Verismo, un Verismo che specie nell’incontro fra i due fratelli sembra quasi sfiorare il realismo.
Qui del d’Annunzio inteso nel senso della verbosa ricerca, delle preziose assonanze non se ne vede se c’è una impronta del Vate è quello della cruda realtà delle novelle della Pescara, ma credo ci sia poco d’Annunzio in questi concitati dialoghi e molto Tito Ricordi, che ben conosceva le esigenza di un musicista nel mettere in scena ed in musica siffatte situazioni. Quando si parla di Zandonai come erede del Verismo e come ultima voce di questa corrente musicale (e letteraria) si devono aver ben presenti questi situazioni e forse un dramma di Zandonai dimenticato come Conchita.
Al contrario, però, nella Francesca abbiamo la più diretta filiazione di D’Annunzio e della lussuria della protagonista femminile, che irretisce il cognato, e lo fa con un testo già da solo musicale ed evocativo di situazioni e luoghi e stati d’animo della donna a partire dal finale primo con l’apparizione (si badi mera apparizione) di Paolo il Bello. Seguendo Wagner, altro nume dei compositori del tempo, Zandonai canta l’amore non con la voce, ma con l’orchestra e il commento corale, solo al secondo atto comincia la seduzione verbale e vocale della maliarda di Romagna, che il testo di D’Annunzio e le raffinatezze orchestrale novecentesche di Zandonai sublimano, anzi rendono l’esempio del proibito non solo musicale, ma sentimentale.
Mariano Stabile, Giuseppe Nessi “chi ha chiuso”
Linda Cannetti Butterfly ” che tua madre” 1912
francesca da rimini trieste 1961 duetto finale
francesca da rimini trieste 1961 benvenuto signore mio cognato
francesca da rimini trieste 1961 benvenuto signore mio cognato
francesca da rimini scala 1957
francesca da rimini rai 1958
LA CHIESA DI POLENTA[1]
Agile e solo vien di colle in colle
quasi accennando l’ardüo cipresso.
Forse Francesca temprò qui li ardenti
4occhi al sorriso?
Sta l’erta rupe, e non minaccia: in alto
guarda, e ripensa, il barcaiol, torcendo
l’ala de’ remi in fretta dal notturno
8Adrïa: sopra
fuma il comignol del villan, che giallo
mesce frumento nel fervente rame
là dove torva l’aquila del vecchio
12Guido covava.
Ombra d’un fiore è la beltà, su cui
bianca farfalla poesia volteggia:
eco di tromba che si perde a valle
16è la potenza.
Fuga di tempi e barbari silenzi
vince e dal flutto de le cose emerge
sola, di luce a’ secoli affluenti
20faro, l’idea.
Ecco la chiesa. E surse ella che ignoti
servi morian tra la romana plebe
quei che fûr poscia i Polentani e Dante
24fecegli eterni.
Forse qui Dante inginocchiossi? L’alta
fronte che Dio mirò da presso chiusa
entro le palme, ei lacrimava il suo
28bel San Giovanni;
e folgorante il sol rompea da’ vasti
boschi su’ l mar. Del profugo a la mente
ospiti batton lucidi fantasmi
32dal paradiso:
mentre, dal giro de’ brevi archi l’ala
candida schiusa verso l’orïente,
giubila il salmo In exitu cantando
36Israel de Aegypto.
Itala gente da le molte vite,
dove che albeggi la tua notte e un’ombra
vagoli spersa de’ vecchi anni, vedi
40ivi il poeta.
Ma su’ dischiusi tumuli per quelle
chiese prostesi in grigio sago i padri,
sparsi di turpe cenere le chiome
44nere fluenti
al bizantino crocefisso, atroce
ne gli occhi bianchi livida magrezza,
chieser mercé de l’alta stirpe e de la
48gloria di Roma.
Da i capitelli orride forme intruse
a le memorie di scalpelli argivi,
sogni efferati e spasimi del bieco
52settentrïone,
imbestïati degeneramenti
de l’orïente, al guizzo de la fioca
lampada, in turpe abbracciamento attorti,
56zolfo ed inferno
goffi sputavan su la prosternata
gregge: di dietro al battistero un fulvo
picciol cornuto diavolo guardava
60e subsannava.
Fuori stridea per monti e piani il verno
de la barbarie. Rapido saetta
nero vascello, con i venti e un dio
64ch’ulula a poppa,
fuoco saetta ed il furor d’Odino
su le arridenti di due mari a specchio
moli e cittadi a Enosigeo le braccia
68bianche porgenti.
Ahi, ahi! Procella d’ispide polledre
àvare ed unne e cavalier tremendi
sfilano: dietro spigolando allegra
72ride la morte.
Gesú, Gesú! Spalancano fa tetra
bocca i sepolcri: a’ venti a’ nembi al sole
piangono rese anch’esse de’ beati
76màrtiri l’ossa.
E quel che avanza il Vínilo barbuto,
ridiscendendo da i castelli immuni,
sparte — reliquie, cenere, deserto —
80con l’alabarda.
Schiavi percossi e dispogliati, a voi
oggi la chiesa, patria, casa, tomba,
unica avanza: qui dimenticate,
84qui non vedete.
E qui percossi e dispogliati anch’essi
i percussori e spogliatori un giorno
vengano. Come ne la spumeggiante
88vendemmia il tino
ferve, e de’ colli italici la bianca
uva e la nera calpestata e franta
sé disfacendo il forte e redolente
92vino matura;
qui, nel conspetto a Dio vendicatore
e perdonante, vincitori e vinti,
quei che al Signor pacificò, pregando,
96Teodolinda,
quei che Gregorio invidïava a’ servi
ceppi tonando nel tuo verbo, o Roma,
memore forza e amor novo spiranti
100fanno il Comune.
Salve, affacciata al tuo balcon di poggi
tra Bertinoro alto ridente e il dolce
pian cui sovrasta fino al mar Cesena
104donna di prodi,
salve, chiesetta del mio canto! A questa
madre vegliarda, o tu rinnovellata
itala gente da le molte vite,
108rendi la voce
de la preghiera: la campana squilli
ammonitrice: il campanil risorto
canti di clivo in clivo a la campagna
112Ave Maria.
Ave Maria! Quando su l’aure corre
l’umil saluto, i piccioli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
116Dante ed Aroldo.
Una di flauti lenta melodia
passa invisibil fra la terra e il cielo:
spiriti forse che furon, che sono
120e che saranno?
Un oblio lene de la faticosa
vita, un pensoso sospirar quïete,
una soave volontà di pianto
124l’anime invade.
Taccion le fiere e gli uomini e le cose,
roseo ’l tramonto ne l’azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti
128Ave Maria.
Bella presentazione, Donzelli, se si vuole conoscere il decadentismo liberty bisogna conoscere questa opera ( che io, non me ne vogliano i mascagnani, preferisco a Parisina).
Oggi non mi sembra condivisibile il duro giudizio di Mila (” cosparge d’uno spolvero di modernita’ a buon mercato, e tale da non inquietare il pubblico,la struttura fondamentalmente verista delle sue opere….”), piuttosto forse e’ da sottolineneare la difficolta’ per Zandonai di tradurre i versi del vate in espressioni teatralmente valide (senza nulla togliere a D’Annunzio che io apprezzo molto, i suoi libretti sono , come tu dici “verbosi” e al limite della non musicabilita’: “la finestra imbertescata”, ” l’arcadore in gualdrana/va trendo vivanda” ad ex…). Tra le tante cose da apprezzare ricorderei l’uso del violoncello solista-Zandonai ha composto anche una Serenata medievale per violoncello e orchestra-.Infine propongo di riprendere, accanto alla Francesca da Rimini, anche I Cavaliri di Ekebu’che contiene scene superiori alla Francesca stessa.
Massimo: ah i Cavalieri di Ekebù che io non riusciì a vedere a Cremona negli anni ’80, ma di cui conservo ben 2 edizioni. La prima 1983 con Gavazzeni, Lando Bartolini,Cossotto,Gina Longobardo Fiordaliso,Mario Luperi (Fonit-Cetra) e Catania 2006 Callegari, con Dario Volontè,Luciana D’Intino,Patrizia Orciani e ancora il Luperi.
Chissà se un sovrintendente come l’attuale della Scala sa che esiste!
Zandonai operista, almeno per quel che concerne la Francesca e I cavalieri di Ekebù, non mi ha mai convinto molto.
ciao visto il nick name devo dedurre che il tuo preferito sia Mascagni?
Sì ho una predilezione per Mascagni.
Anche se a dire il vero sono interessato a un pò tutta l’opera italiana del novecento.
Da autori ancora abbastanza famosi anche se poco rappresentati (esempio: Respighi) fino a compositori ormai obliati (esempio: Pedrollo).
Per chi come me ama profondamente Francesca un grazie per l’articolo di Donzelli, davvero fatto bene e assolutamente opportuno. Vedo con mio grande piacere che vengono rammentati i Cavalieri di Ekebù. E’ privo di plausibile senso che un’opera di tale livello sia praticamente mai rappresentata ( salvo qualche eccezione nella mitteleuropa e nei paesi scandinavi ): tuttavia Francesca è un’altra cosa. Meno sperimentale ed estrema di Parisina Francesca è comunque un’opera splendida, dal fascino unico e irripetibile. Innegabilmente il capolavoro di Zandonai. Nel 1983, centenario della nascita di questo grande musicista italiano, qualcosa si fece, da Genova a Verona al Met. Nel centenario di Francesca ( 2014 ) il silenzio più desolante. Solo il Centro Studi Zandonai di Rovereto con iniziative nel corso dell’anno e un convegno di notevole livello ( ne saranno pubblicati gli atti ed esiste un sito che invito tutti a visitare, basta cercare con google). A Jor vorrei dire che anch’io apprezzo quei suoi musicisti, da Respighi a Pedrollo ( e magari a Peragallo, che rifà – con Ginevra degli Almieri – una Francesca imparentata con Gianni Schicchi ) : mi riesce davvero strano che non riesca comprendere l’arte Zandonai.
La mia è una semplice opinione personale che riflette i miei gusti (che poi potrebbe anche mutare nel tempo come già successo altre volte).
Le qualità dell’orchestrazione della Francesca penso siano indubbie.
Le due opere di Peragallo che ho avuto modo di ascoltare non mi sono piaciute ma anche qui de gustibus.