Con la scomparsa di Luca Ronconi, scrive la più parte dei quotidiani, scompare l’ultimo e uno degli ultimi grandi. Ronconi è stato per cinquant’anni regista di prosa e di lirica, spesso osannato, talora criticato e riprovato, da critica e pubblico, inventore di modi di riproporre la parte visiva dei testi teatrali e musicali, che ormai fanno parte del nostro bagaglio culturale e di cui molto di quanto oggi offerto può, con ragione, dirsi figlio o, in taluni casi figliastro.
A prescindere dai ricordi personali ci sembra che debbano essere messe in evidenza talune autentiche innovazioni nel modo di proporre il teatro. La prima riguarda quello wagneriano. Ronconi, supportato da uno scenografo e costumista come Pizzi, sostituì alla rappresentazione astratta ed atemporale che dagli anni ’50 connotava gli allestimenti wagneriani, il mito nibelungico visto con gli occhi della Germania contemporanea a Wagner. Gli dei non erano ancora diventati i ricchi borghesi della Germania, come sarà di lì a a poco a Bayreuth, ma si collocavano nel tempo. Era l’inizio del superamento della lettura di Wagner come Storia e non più come Mito.
Altri possono averlo affinato, perfezionato ed essersene poi presa la fama, ma la prima produzione fu milanese, realizzata in parte e portata a compimento poco dopo a Firenze sempre ad opera di Ronconi.
La Scala e la lunghissima collaborazione con Ronconi danno luogo per l’inaugurazione il 7 dicembre 1977 al famoso don Carlo. Tralascio qui la polemica sui costi dell’allestimento e forse va sottolineato che l’idea di fondo comune a regista e direttore, in questo figli del loro tempo di mettere in scena l’opprimente potere della Chiesa e il perverso e pernicioso rapporto fra Stato e Chiesa potrebbe anche essere una visione del don Carlo e non LA VISIONE del titolo verdiano (uomo, si sa fortemente anticlericale) La realizzazione però, anche qui supportata dall’abilità e dal grandissimo mestiere di costumiste e scenografi , con la precisazione che le scenografie erano poi i pesanti carri che si avvicendavano in scena, era assolutamente congrua e rispettosa dell’idea di partenza, Perché sull’idea di partenza nel caso del don Carlos si può anche discutere, ma sulla ineccepibile realizzazione assolutamente no. Poi alle prese con il mondo di Carlo V, Ronconi in Ernani, opera di cappa e spada e, quindi, priva di quei messaggi, che più interessavano il regista, offrì al pubblico scaligero uno spettacolo lento, pesante e farraginoso che venne pesantemente contestato. Perché le contestazioni sono parte importante della grande carriera di Ronconi. Le riprovazioni del pubblico, i fischi –condivisi con altri grandi del teatro italiano come Visconti o Strehler- nascevano talvolta dagli eccessi (dette nel gergo “ronconate” come accadde per una Elktra scaligera, che non evocava gli Atridi, la Grecia Arcaica, ma il macello di una grande città) perché lo spettacolo era sovrabbondante di macchine e comparse, perché si sapeva, che aveva sbancato il teatro come accadde per le Carmelitane reggiane, mai però si può dire che l’eccesso, la “ronconata” fosse fine a sé stessa, pensata e proposta perché quei conseguenti e ricercati fischi fossero il solo ed autentico richiamo per il pubblico, lo stantio mezzo per far parlare di sé, che oggi inspira gli attuali registi.
Non solo don Carlo si inquadrava e si estrinsecava come la realizzazione di un ideale politico e culturale di chi l’aveva allestito, ma realizzava un altro dei caposaldi delle idee di Ronconi, idea ovviamente figlia della sua formazione ovvero che un titolo vuoi di prosa o musicale deve essere ben calato nel contesto artistico, che lo ha prodotto. Questa è l’idea di fondo dell’aspetto visivo dell’Orlando, testo che Ronconi iniziò ad allestire nel 1968 in piazza, realizzò per la Rai (allora ben lontana dalla TV tette e culi che da trent’anni anestetizza e rincoglionisce gli italiani su ben sei reti) e poi riprese in piazza del Duomo a Milano. Grazie alla stretta e preziosa collaborazione con Pierluigi Pizzi mise in scena, quali personaggi ariosteschi, ora la statua del duca Vespasiano Gonzaga, ora le pitture di Correggio e Parmigianino sino ai duchi estensi di Mochi (forse più tasseschi che ariosteschi). I personaggi su alte cavalcature, spinte da mimi pugnavano, lottavano fra un fremer d’armi e di volatili vestimenti. Ronconi aveva inventato il modo di realizzare l’estasi e la meraviglia barocca e che per un trentennio è stato il linguaggio visivo per il melodramma da Handel a Rossini. Poi Ronconi, assai attento alle architetture in scena, era capace di applicare questa idea a titoli variegati. Un incombente cupola del Bernini fu la scena per un titolo statico e principio del teatro di grandi scenografie come l’Orfeo di Rossi, mentre una cupola in prospettiva “sghemba” servì da scena per la Tosca di Puccini, opera di tutt’altro clima, ma con quel sovrabbondante e retorico, che spesso inspirava e positivamente Ronconi. Devo aggiungere però, che Ronconi alle prese con Rossini, a differenza dei suoi seguaci, mai pensò al mondo barocco, preferì il realismo più puro per la vicenda, sia di inspirazione cavalleresca, di Ricciardo e Zoraide ed anche per la recente (ultimo spettacolo operistico) Armida il richiamo fu più al realismo del teatro popolare dei pupi che all’astrazione. In un ambiente borghese di fine ottocento Ronconi ambientò Otello e per Cenerentola optò per un mondo onirico e temporaneamente astratto. A parte il Viaggio a Reims, dove Ronconi partendo dal presupposto che di evento si trattasse perché evento la riscoperta di uno spartito, perché evento la presenza di un cast stellare trasformò in evento mediatico lo stesso allestimento, lasciando al solo corteo finale, che irrompeva con tempi e movenze comiche alla fine della rappresentazione, il richiamo all’epoca di rappresentazione del titolo. Riproposto dopo trent’anni alla Scala e dopo aver subito le funeste inventive di sfasciate primedonne o di giovani guitte, lo spettacolo nella realizzazione dell’idea, che può anche non piacere, non mostrava segni del tempo e non poteva essere definito spettacolo datato.
Sono certo, onorando il defunto, che sarebbe un grande impatto se oggi venisse riproposto quel don Carlos, non perfetto, ma congruente e pensato. Virtù e qualità che oggi stentiamo, anche in grandi nomi a ravvisare.
15 pensieri su “Luca Ronconi (1933-2015)”
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Credo davvero che con la scomparsa di Ronconi – scomparsa ancora più amara perché il Maestro era ben lungi dal ritiro e, anzi, negli ultimi anni la sua creatività era più che mai fertile (gli ultimi spettacoli al Piccolo lo testimoniano, a partire da quel capolavoro che fu “La compagnia degli uomini”, “La modestia”, “Il panico” sino al debutto di questi giorni con quella “Lehman Trilogy” che sarà, giocoforza, il suo testamento teatrale) – scompaia l’ultimo gigante del teatro italiano. L’unico plausibile successore di Strehler (anche se i rispettivi modi di far teatro sono praticamente opposti). Impossibile riassumere in poche righe una carriera tanto ricca, sia nel teatro di parola che in quello musicale. Impossibile ricapitolare i ricordi di tanti spettacoli. Impossibile scindere il ricordo del regista dalle emozioni della “scoperta” (perché, anagraficamente, Ronconi ha accompagnato tutta la mia formazione teatrale). E’ già stato detto tutto – l’approccio architettonico alla scena, la reinvenzione della macchina barocca, l’estrapolazione del meccanismo teatrale anche a discapito del singolo personaggio/attore, le scelte testuali complesse e inedite, la sottolineatura dell’ambiente in cui il testo viene composto o scritto, l’eccesso – eppure ci sarebbe da dire ancora molto. Ricordo che ogni suo spettacolo era davvero un evento, a prescindere, poi, dal giudizio o dalla riuscita. Sì, perché non sempre i suoi spettacoli erano immuni da critiche, ma anche quelli meno riusciti non lasciavano indifferenti e se pur si tornava a casa insoddisfatti o perplessi, poi, nei giorni successivi ci si ripensava, ci si ritornava con la mente. E questo è il massimo che un regista potrebbe sognare. Dicevo che la mia formazione teatrale ha avuto Ronconi come protagonista che mi ha accompagnato tra prosa e lirica, con spettacoli indimenticabili: perché portatori di forti idee. Giustamente scrive Giulia che a prescindere dai giudizi, la realizzazione era sempre impeccabile: vero. Penso all’Aida coi ruderi che spuntavano dalle sabbie del deserto (e che che riportavano all’Egitto reinventato dagli studiosi ottocenteschi), l’Ernani irrisolto, ma con momenti di grande fascino, il Tell genialmente statico ma immerso nella natura (quella natura che oggi sedicenti “geni della lampada” eliminano perché non è la page), la Lodoiska con le sue prospettive ardite, La Damnation de Faust, la meravigliosa Ariadne auf Naxos ispirata all’isola dei morti di Bocklin, etc… Ma l’opera è solo una parte del magistero di Ronconi. anche qui ripercorrerne le tappe è difficile e complesso. Non si può non citare, però, il suo impegno al Piccolo di Milano con spettacoli storici. “La compagnia degli uomini” spietata parabola della forza distruttiva del capitalismo (in uno spettacolo kolossal), “Fahrenheit 451”, “La vita è sogno” di Calderon de la Barca, “Il Ventaglio” di Goldoni (così diverso, corale, pensoso), il doppio spettacolo “Odissea”…sino alla produzione fiume di quello che è forse il suo capolavoro e uno dei grandi momenti del teatro italiano di ogni tempo: “Gli ultimi giorni dell’umanità” allestito al Lingotto di Torino, uno spettacolo fiume per un testo immenso ridotto a 18 ore di “recitato” svolto su più palchi contemporaneamente (e quindi impiegando 4 ore di spettacolo) e lasciando libero lo spettatore di camminare tra un palco e l’altro, come ad una mostra teatrale sulla Grande Guerra (dalla corte di Vienna alla redazione dei giornali, dai caffè borghesi al fronte, dalle casematte dei soldati alla piazza, dalla stazione ferroviaria (dove giunge su una vera locomotiva il feretro dell’Arciduca mentre sferza la pioggia sugli ombrelli neri dei dignitari imperiali sulle note del Requiem di Mozart) all’allucinata parata finale (ne fu trasmessa anche una riduzione televisiva – quando la RAI era ancora roba seria – reperibile facilmente i rete). Momenti di grande teatro che resteranno per sempre. Addio Maestro.
Fra le tante, bellissime, regie due ne ricordo come strepitose:
La già citata Lodoiska e il Giro di Vite . Riposi in pace
Non ho visto la Lodoiska. Concordo che la messa in scena del Giro di vite al Carignano di Torino era semplicemente strepitosa. Fenomenale, allo stesso livello, anche se diversissima (l’una intimista, l’altra grandiosa e spettacolare), quella del Sansone e Dalila fatta al Regio sempre negli anno ’90.
L’Ernani (visto solo in video) era tutt’altro che convincente, mentre splendida era la messa in scena (anch’essa vista in video) dei Vespri siciliani diretti da Chailly a Bologna con la Dunn, Lucchetti, Nucci e Giaiotti (cast che oggi è solo un sogno).
A me erano piaciuti molto anche il Mosé scaligero diretto da Muti (visto in video), ed il Ricciardo e Zoraide di Pesaro; un po’ meno convincente il Guglielmo Tell, dove, però, come già da altri sottolineato, Ronconi aveva giustamente sottolineato, con la proiezione dei paesaggi svizzeri, l’importanza dell’elemento della natura (il modo in cui la cosa è stata realizzata poteva o meno piacere, non disucto su ciò), cosa di cui Vick se ne è altamente fregato nella sua recente orrida regia.
Ti posso dire (e non so se fu colpa della pochezza tecnologica del palcoscenico scaligero) che il Tell faceva venire il mal di mare tanto ballavano le immagini proiettate durante lo spettacolo.
Il Tell l’ho visto solo in video, non so, pertanto, dire come potesse essere dal vivo.
ti assicuro che dal vivo i problemi del tell non erano l’aspetto visivo, ma ben altro a partire dal maestro a proseguire con l’imposta Matilde etc. poi aggiungo che allestire tell e pretendere di allestirlo integrale senza sapere che i cantanti hanno bisogno di aiuto e sostegno e che magari qualche sconto se non nei numeri nella modalità esecutiva può essere utile è prova di insensatezza, per usare un eufemismo!
Non sono affatto d’accordo: l’epoca dei praticoni e delle opere smozzicate ad uso della pigrizia dei cantanti è – grazie al cielo! – finita – il Tell è e deve essere un evento e come tale rappresentato, senza sconti. Francamente, poi, tutti questi problemi (a parte Matilde) non li ho affatto percepiti, a cominciare dalla bacchetta che con Rossini segna uno dei suoi più felici esiti. Trovo poi incoerente come talvolta ci si straccino le vesti per un acuto (magari pure non scritto) omesso o perché vengono tagliati alcuni balletti di Aida e poi si auspicano addirittura tagli e scappatoie. Domenico, il Tell non è Semiramide (per te purtroppo, per me per fortuna)! In generale, però, ho la sensazione che ogni volta che si parla di Rossini sembra che tutti sbaglino: cantanti, direttori, registi, musicologi, filologi, editori…tutti senza esclusione. Mi chiedo qual è il Rossini per te corretto e, soprattutto, se quel Rossini è mai esistito. Insensato non è eseguire il Tell integralmente (e possibilmente nella sua unica lingua originale), ma pensare che si possano applicare i trattamenti degli anni ’50 (con tagli, modifiche, aggiusti ed estetica o verista o verdiana) solo in nome di una imprecisata “tradizione”.
A me Merritt piacque moltissimo : Il finale, così come lo dirige Muti, mi sembra splendido e giustamente “panico” come voleva l’autore . Concordo con Duprez , però, che il Tell DEVE essere cantato in francese:
La grandezza registica di Ronconi mi è sempre sfuggita. Un mio limite, probabilmente. Parlo del teatro d’opera, poco conoscendo il Ronconi alle prese con quello di prosa. Alcuni allestimenti sono a mio avviso stati di ragguardevole bruttezza e/o totale inutilità ( per esempio Ernani, Guglielmo Tell, Trittico ), altri esageratamente esosi ( sempre per esempio: Les Troyens costarono un ingiustificato sproposito ), altri francamente sopravvalutati ( il Viaggio a Reims in primis ). E’ uno di quei registi che ho più subito che amato e di cui – con tutto l’umano rispetto per la recente scomparsa – francamente non sentirò la mancanza.
sul viaggio la penso anche io così. avrei voluto un allestimento oleografico e fedele a tempi e luoghi visto che di opera non si trattava. se poi guardo anche gli ultimi allestimenti incensati ed osannati allora mi piacciono anche le vasche del lontano 1984. erano bellissimi due costumi ovvero Madama cortese e Marchesa Melibea.
il finale Verdi “Don Carlos” Teatro alla Scala 1978 ,non mi piace per niente ,troppa confusione,e abbastanza insulso
molto brava, Cristina Deutekom nel ruolo di Abigaille
Io ricordo Ronconi per una regia stupenda: quella dell’Orfeo di Gluck al Comunale di Firenze, con Muti, la Cuberli ed altri.
Anche se nella sua carriera operistica avesse fatto solo quella regia, avrebbe fatto un capolavoro assoluto e sarebbe bastato.
Chissà se è possibile vedere la registrazione di quella rappresentazione !
Voglio ricordare il Caso Makrropulos e La Damnation de Faust a Torino nei primi anni ’90 con le mitiche scene di Margherita Palli!!
Poi ci sono stati anche allestimenti molto meno belli come il Tell (almeno in video) e l’ultimo Barbiere di Pesaro.
Io di mitico nella palli trovo assai poco francamente. Dopo pizzi e damiani la palli mi pare un gradino sotto. Ma un bel gradino….