Talvolta, forse per caso, la provincia italiana, oggi rappresentata dal Teatro comunale di Reggio Emilia insegna alle istituzioni cui preposta la filologia ed il recupero delle prassi esecutive antiche. E non poteva essere differentemente quando si disponeva di un titolo che ad un approfondito intervento filologico si presta come i Capuleti e i Montecchi ad opera di un direttore che allora era il faro dell’esecuzione filologica ed una coppia protagonistica che da quel 1981 ed almeno per un decennio realizzò il modello del cantante tecnicamente irreprensibile, rifinito musicalmente e, pertanto, disponibile alle più ardite operazioni filologiche: Lella Cuberli e Martine Dupuy. Erano allora all’inizio delle loro esecuzioni in coppia che di li a pochi mesi avrebbero fatto sentire mirabilie in Semiramide (Genova marzo 1981) e del pari sarebbe stata frustrata nel settembre successivo dall’imperizia direttoriale di Maurizio Pollini, cui nel ruolo di direttore artistico del ROF il medesimo Zedda non aveva forza e l’autorevolezza di imporre quei principi, che praticava sul podio.
Tutti sappiamo che i Capuleti e Montecchi dispongono, sotto il profilo della tradizione musicale di un esempio di come gli spartiti venissero rimaneggiati e riscritti alla bisogna, grazie alle varianti di pugno di Rossini della cabaletta di Romeo “la tremenda ultrice spada” il passo dal più elevato tasso rossiniano dell’opera, trattandosi del tempo veloce della cabaletta del contralto en travesti.
Da lì partì l’operazione di Zedda, che intervenne per le due protagoniste ed in misura inferiore per l’antagonista, ruolo affidato a Dano Raffanti allora all’inizio di una carriera brevissima.
Partì per predisporre interventi tutti fondati sul principio che ogni volta che si ripete un tema musicale deve essere, se non vi abbia provveduto l’autore, riproposto variato, ossia ornato, ossia abbellito, non solo con assoluta fedeltà applicò l’altro indiscusso principio che in presenza di un punto coronato, sempre che l’autore lo abbia fatto su sua mano, si deve intervenire con l’inserimento di una cadenza e da ultimo che note di una certa durata (come gli attacchi del primo tempo dei duetti) debbano essere diminuite. Solo che per realizzare questi principi non basta scrivere le note, ma disporre di chi sappia realizzare le scritte, le inserite e dare a tutto questo senso. Dare senso nel caso dei Capuleti significa da un lato cavarsi di impiccio nei passi acrobatici , soprattutto Romeo, ma più di tutto dare il senso alle melodie lunghe di Bellini, che piange e fa piangere i suoi personaggi raggiungendo la massima espressione delle melodie di chiara eredità napoletana. Oggi i Capuleti sono opera di repertorio, lo divennero nei teatri italiani e francesi per merito di Martine Dupuy, che trovava nel personaggio triste, elegiaco e nel contempo eroico del giovane esule veronese la possibilità di estrinsecare le doti di interprete e di vocalista. Non per nulla, e forse mi ripeto,in occasione dei Capuleti torinesi del 1994 Angelo Foletto, in un moto di assoluta sincerità e libertà di espressione paragonò l’identificazione del mezzo marsigliese con Romeo a quella della Callas con Norma. Poi sono arrivati molti Romeo e molte Giuliette, alcune e mi astengo dal nominarne con una carriera ed una fama, cui mai la coppia reggiana è arrivata, nessuna però ha cantato i due infelici amanti ed emozionato il pubblico sotto tutti profili del sentimento di come fecero nelle nebbie del gennaio 1981 Lella e Martine. Il pubblico, che se ne fotteva di conventicole e parrocchie e della loro frequentazione le chiamava così e per quelle che erano le applaudiva. E tanto!
Bellini
I Capuleti e i Montecchi
Capellio, principale fra i Capuleti, e padre di Giulietta – Enrico Fissore
Giulietta, amante di Romeo – Lella Cuberli
Romeo, capo dei Montecchi – Martine Dupuy
Tebaldo. partigiano dei Capuleti, destinato sposo a Giulietta – Dano Raffanti
Lorenzo, medico e famigliare di Capellio – Luigi De Corato
Direttore – Alberto Zedda
Orchestra Arturo Toscanini dell’Emilia Romagna
Coro del Teatro Municipale R. Valli di Reggio Emilia
Sicuramente il mio intervento verrà contestato, ma credo sia utile discutere su alcuni spunti che il pezzo di Donzelli propone:
1)“Tutti sappiamo che i Capuleti e Montecchi dispongono, sotto il profilo della tradizione musicale di un esempio di come gli spartiti venissero rimaneggiati e riscritti alla bisogna, grazie alle varianti di pugno di Rossini della cabaletta di Romeo “la tremenda ultrice spada” il passo dal più elevato tasso rossiniano dell’opera, trattandosi del tempo veloce della cabaletta del contralto en travesti” Non sono affatto d’accordo: le variazioni suddette sono, piuttosto, un esempio di forzatura che non tiene conto delle specifiche di una scrittura che mal sopporta gli interventi rossiniani. Nel caso specifico non credo si possa parlare di testimonianza di come gli spartiti fossero “trattati” nell’epoca d’oro del melodramma, ma di come due mondi si stessero scontrando: il vecchio (Rossini) che non capiva il nuovo. Le variazioni – se pur gradevoli – sono ingombranti e snaturano l’essenziale e asciutta scrittura belliniana che non si fonda sulla pirotecnica del canto, ma su altri affetti. E ciò deriva dal portato del trapasso generazionale, tra classicismo e romanticismo. Del resto Rossini non ha mai compreso l’universo romantico e ne ha sempre rifiutato le peculiarità;
2) l’operazione di Zedda, quindi, che si inserisce in una cornice di forse ingenuo entusiasmo nell’ubriacatura della Rossini renaissance non coglie nel segno: applica gli stilemi rossiniani ad una scrittura che rossiniana non è, non può e non vuole essere, caricando la struttura musicale ideata da Bellini di colori inappropriati, sino a renderla irriconoscibile. Il punto di partenza di Zedda – quello ben evidenziato da Domenico per cui “ogni volta che si ripete un tema musicale deve essere, se non vi abbia provveduto l’autore, riproposto variato, ossia ornato, ossia abbellito” e “che in presenza di un punto coronato, sempre che l’autore lo abbia fatto su sua mano, si deve intervenire con l’inserimento di una cadenza e da ultimo che note di una certa durata (come gli attacchi del primo tempo dei duetti) debbano essere diminuite” – è assolutamente discutibile perché quello che può valere per Rossini non vale per Bellini. E quindi non è scontato che la riproposizione di un tema debba per forza comportare lo stravolgimento dello stesso sino a renderlo irriconoscibile o che ogni punto coronato debba essere occasione per allungare il brodo in interminabili saliscendi di scale;
3) l’edizione proposta – famosa, cantata e diretta in modo inappuntabile e di per sé estremamente gradevole, se si sta al suo gioco – lascia la sensazione di un eccesso di spezie tale da rendere indistinguibile il sapore genuino. La scrittura belliniana è tradita e gli equilibri raffinatissimi tra orchestra e voce vengono irrimediabilmente compromessi. Francamente trovo poco utile trasformare Bellini in un cripto Rossini poiché nelle differenze risiede la peculiarità di ciascuno e la scrittura belliniana non ha bisogno di rinforzi o stravolgimenti, ma solo di interpreti che credano ad essa (evidentemente nessuno vi credeva). Resta un’operazione interessante, forse pure divertente, ma poco rimane della delicata opera di Bellini che – ripeto – si fonda su atmosfere rarefatte in cui la melodia si spande libera senza inciampi di ornamentazione, in cui il canto non è più quello rossiniano, ma tende all’asciuttezza del finale in cui la musica passa attraverso le rigidità formali senza lasciarsi costringere da convenzioni (finale a lungo incompreso e sostituito col mediocre Vaccaj che, per assurdo, appare molto più adatto – nel suo rossinismo di seconda mano – all’operazione imbastita da Zedda).
Tutto interessante e ben argomentato (non fosse che per quell’accenno agli “inciampi di ornamentazione”, che indica una concezione quanto meno singolare del melodramma protottocentesco, Bellini compreso, in cui l’ornamentazione è sostegno, giammai inciampo, dell’invenzione melodica). Sarebbe però interessante che Duprez indicasse un’edizione del titolo, in cui si inverino i principi da lui esposti, e che ovviamente sia paragonabile, per splendore vocale e finezza espressiva, a quanto proposto dalle signore Cuberli e Dupuy, uniche epogone documentate dai nastri delle nostre inarrivabili germane Marchisio.
Inciampi in senso letterale, non per esprimere giudizi di valore (la coloratura è entusiasmante quando ci sta), ma per indicare che la linea belliniana inciampa e scorre male nell’eccesso ornamentale. L’edizione è ovviamente cantata in modo splendido, e sinceramente non trovo paragoni…però Zedda eccede e pur se realizzati in modo impeccabile i suoi interventi trasfoormano, secondo me, Bellini in qualcos’altro. Certo era l’epoca delka riscoperta del rossinismo più spettacolare e con quei cantanti il direttore filologo ha peccato di entusiasmo
Dio mio, parlare di ubriacatura della Rossini Reinassance, e eccesso ornamentale in Bellini, e come dire che il pane bianco è troppo buono, e occorre mangiare quello “nero” come si usava negli anni 1943-1945.
E’ pur vero che il troppo storpia, ma non si capisce dove ci si deve andare a parare, forse nella esibizione dell’opera con cantanti solo belli esteticamente parlando , alla kau-kau???
Che meraviglia!, Cuberli stupenda, ma la Dupuy è da pelle d’oca da inizio alla fine!!! Non trovo eccessivi gli interventi di Zedda mi sembrano musicali e coerenti con la linea di Bellini. Certo l’arte della variazione è un sottile gioco di equilibrio. Basti pensare a che nterventi Rossini stesso è sottoposto a Pesaro negli ultimi anni dove è sistematicamente trasformato in una specie di UrOffenbach; a confronto gli interventi di Zedda sono capolavori di castigatezza e rispetto dell’autore prima ancora che del testo.
Il duetto del primo atto è cantato in maniera superba!
E’ una interessante curiosità questo Bellini-variato-rossini e, anche se trattasi di una discussione piuttosto leziosa, devo dire che mi aiuta ad apprezzare ancora di più la scrittura originale di Bellini, che nella sua essenzialità racchiude già una quantità di informazioni enorme.
Grazie di aver tirato fuori questi ascolti!
Appena finito di riascoltare questo gioiello. Io trovo che sia la migliore esecuzione di quest’opera in assoluto considerati tutti gli elementi. Raffanti che bravo era! Peccato che sia durato poco… Cuberli e Dupuy sono nel loro elemento come non mai, oserei dire che sono perfette sotto ogni punto di vista e in gran forma vocale. Poi si possono trovare altre grandi interpreti dei vari ruoli (Horne, Scotto, Gruberova, Sills, Pavarotti,…), ma questa esecuzione nel complesso è davvero sublime. Trovo bellissime le variazioni che rendono più bella l’opera se, come in questo caso, sono eseguite magnificamente.
Pensare che c’è chi non può tollerare la Dupuy a prescindere (la Cuberli non attira tutto quest’astio), eppure quante pagini memorabili ha lasciato… poi vanno a elogiare delle ciofeche assurde… forse è vero che ognuno ha quel che si merita!