Nel marzo del 1983 il Teatro Regio di Parma propose due recite del Ballo in maschera. Non era lo spettacolo di punta di quella stagione, che nei mesi precedenti aveva proposto, tra l’altro, l’Otello con Vladimir Atlantov e Maria Chiara e un recital wagneriano della seppur declinante Birgit Nilsson, sul podio Peter Maag. L’amatissimo titolo verdiano era spesso stato proposto in Parma con la partecipazione di autentici divi. Impossibile enumerare tutte le edizioni, ma vanno ricordate almeno quella “di guerra” con Gigli, Bechi e la Caniglia (novembre 1941) e quella con la coppia Bergonzi/Stella (e Paolo Silveri) del febbraio 1955. Nel 1983 nessun divo, forse, ma tre autentici habitué dei maggiori palcoscenici mondiali e la bacchetta di Angelo Campori, un’autentica istituzione per la vita musicale della città e non solo.
Il nostro Nourrit, che ringraziamo come sempre, ha recuperato la registrazione dello spettacolo. Reduci dall’abborracciato Ballo bolognese e da quello, più fulgido ahimè solo sulla carta, del Covent Garden, udito alla radio, abbiamo deciso di proporre il nastro parmigiano in luogo del previsto ascolto provinciale del mese di gennaio. Che è, ovviamente, solo rimandato.
Sarebbero ingiustificate, e quindi fuori luogo e ridicole, acritiche celebrazioni, con spreco di altisonanti aggettivi, per una registrazione che risulta tutt’altro che perfetta o insuperata. Del resto non è questo il tema della rubrica, che cerca semmai di proporre, accanto alla testimonianza di un passato spesso dimenticato o colpevolmente rimosso, qualche spunto di riflessione.
Il principale dei quali è dato dalla natura stessa del titolo. Il Ballo è, soprattutto per tenore e soprano, un titolo complesso, oneroso e lungo. Occorre che il cantante dosi le forze per arrivare in una forma accettabile all’ultimo atto, in cui compaiono alcune delle pagine più “toste”. In tempi recenti (e non solo in questo inizio di 2015) abbiamo uditi solisti spegnersi progressivamente nel corso della serata, finendo la benzina vocale ben prima dell’ultima calata del sipario.
In questo Ballo parmigiano le prime parti hanno dei limiti oggettivi: nel caso di Garaventa c’è qualche suono non sempre perfettamente a fuoco e adeguatamente “girato” sui primi acuti, la prima ottava della Stapp (a tratti opaca e velata, non dissimile da quella di una Deutekom) non ha lo splendore assoluto della seconda (quella che, però, consente alla protagonista di troneggiare in molte pagine e in particolare in tutto il terzo atto, dalla scena della congiura alla trenodia conclusiva), mentre Manuguerra dà occasionalmente di naso e non sempre contiene i portamenti (è però in grado di salire ad acuti quasi tenorili e attacca a mezzavoce “Eri tu”, una soluzione che provocherebbe autentiche catastrofi se applicata dalla maggior parte dei baritoni oggi in carriera, che del resto non ci provano neppure, preferendo, in quel punto, ringhiare, benché svociati). Nessuno dei tre, a ogni modo, “si pianta” in corso d’opera, anche per merito del direttore, che li accompagna con tempi sostenuti ma non incalzanti, regolando con precisione anche gli interventi del coro e, ovviamente, dell’orchestra. Nei concertati non si odono fracassi o entrate fuori tempo, tutto funziona come un meccanismo adeguatamente rodato, forse con poche finezze (non andavano di moda, all’epoca, le dichiarazioni sul Trovatore schubertiano o il Ballo schumanniano, di cui le bacchette, acerbe o stagionate, di oggi volentieri largheggiano), ma con una saldezza e un’efficienza complessiva che non è certo il frutto di prove interminabili, di settimane o mesi, bensì del professionismo e della capacità di sfruttare al meglio le forze (non sempre eccelse) a disposizione. Di più: ogni scena ha un colore orchestrale ben definito, l’antro di Ulrica non ha la brillantezza della corte di Riccardo ma neppure il senso di tragedia incombente dell’orrido campo, la scena in cui i congiurati deridono i coniugi, sorpresi in piena notte in una situazione quantomeno bizzarra, è al tempo stesso ironica e carica di tensione, così come l’ingresso di Oscar alla scena della congiura, risolta senza la grevità metronomica che oggi sembra l’unica soluzione possibile.
Quanto agli altri esecutori, ci rammentano che siamo in provincia e per giunta in anni in cui il livello medio, per queste parti, era già in abbondante declino, per non dire di peggio. Invitiamo tuttavia a confrontare Giovanna Santelli (Oscar) e Stella Silva (Ulrica) con quello che blasonati teatri propongono oggi nei medesimi ruoli, prima di deridere le agilità sgallinate della prima e il “buco” al centro della voce (di schietto soprano lirico) della seconda.
Verdi
Un ballo in maschera
Ottavio Garaventa – Riccardo
Matteo Manuguerra – Renato
Olivia Stapp – Amelia
Stella Silva – Ulrica
Giovanna Santelli – Oscar
Carlo Torregiani – Silvano
Carlo De Bortoli – Samuel
Bernardino Di Bagno – Tom
Carlo Menippo – Un giudice
Giandomenico Bisi – Un servo d’Amelia
Direttore – Angelo Campori
Parma, marzo 1983
Negli anni ’80 avevo sentito Garaventa a Vercelli come Riccardo e, se ben ricordo, la prova era stata assolutamente positiva.
Sempre a Vercelli, prima del Ballo (credo fossimo fra il 1984 ed ul 1986) aveva cantato Il trovatore con Stella Silva come Azucena. Anche in questo caso il ricordo è di una esecuzione, se non memorabile, sicuramente migliore di certe robe che ci propinano oggi. Garaventa era sicuro nella parte di Manrico ed aveva anche – se la memoria non mi inganna – bissato la pira.
Quanto a De Bortoli, qui Samuel, sempre a Vercelli aveva cantato un Fiesco di tutto rispetto.
Non so, invece, se qualcuno ha sentito lo Chénier da Napoli ieri sera. Io ho sentito, per puro caso, solo la seconda metà del primo atto e mi è bastato ed avanzato! Da salvare solo la direzione di Santi che, ai tempi, aveva a disposizione ben altri cantanti ed ora si deve arrangiare con quel che passa il convento, che passa ben meno di quel che fra’ Melitone passa ai poveri nel 4° atto della Forza…. Tenore discutibile, soprano inascoltabile, baritono su cui non mi pronuncio, ma che, per le poche frasi finali, mi pareva allo stesso livello.
Non so, poi, se qualche Grisino è stato a sentire il dittico Goyescas – Suor Angelica a Torino. In caso affermativo sarei curioso di confrontare le mie impressioni.
In sintesi:
Goyescas: soprano decisamente molto, ma proprio molto meglio da vedere che da sentire; almeno, quando il regista, nell’ultima scena, la “vestiva” (sic!) come la “Maja desnuda” c’era un motivo concreto di distrazione dal canto…. almeno per il pubblico maschile; tenore che pareva avere dei buoni mezzi naturali ma su cui non mi pronuncio non conoscendo bene l’opera.
Suor Angelica: soprano meno in forma di alcuni anni or sono, forse per aver affrontato parti troppo pesanti per lei; in ogni caso, da senitre, meglio della collega dell’opera precedente; mezzo soprano, decisamente la migliore del cast.
Buona direzione, buona l’orchestra ed il coro. Messa in scena brutta: in Goyescas ci sono alcune giuste citazioni da Goya, ma il dispositivo scenico è sempre sostanzialmente lo stesso e non rende la diversità fra i quadri, producendo sostanzialmente noia in un’opera già un po’ noiosetta. Suor Angelica: ambientata in un manicomio, tutto sbagliato, ridicolo, con rumori non previsti da Puccini che disturbavano la musica; azioni senza senso e contrastanti fra loro. Come mai Angelica si avvelena prendendo dei medicinali da un armadietto, se, prima, ha dato per la suora punta dalle vespe non del cortisone dallo stesso armadio, ma delle pianticelle strappate da un giardinetto sfigatello sul proscenio? Poca coerenza. I registi dovrebbero, almeno, imparare, preso un certo partito, a non contraddirsi.
Contrariamente a Duprez, la mia assenza dai teatri è dettata da due fattori: Allestimenti per cerebrolesi, e cantanti da oratorio.
Leggendo i vari commenti vedo che ciò che io reputo INSOPPORTABILE (le varie regie e sceneggiature) con la loro ipocrisia, cioè la cosiddetta interpretazione attualizzata, con il tempo
è infinitamente peggiorata ed io non intendendo farmi far fesso da registuncoli (quelli sì da manicomio e non Suor Angelica) non ci vado più e ne son felice. Sui cast poi non faccio commenti per non esser insultato. prosit.
Stella Silva, che ascolto per la prima volta in questa occasione, non mi pare per nulla un soprano lirico: al di là dei problemi di emissione, mi pare invero un’autentica e bella voce di mezzo, non molto grande né molto voluminosa né pienissima; ma certamente di mezzo.