Il primo, ma forse non il più misterioso dei miracoli, che hanno segnato l’apertura della stagione lirica felsinea era da rinvenire in balconata, ovvero nel loggione, classico termometro dell’attesa, prima, e poi del gradimento nei confronti di uno spettacolo. Alle prime luci dell’alba, la lista per i posti suddetti non arrivava alle dieci unità (ben al di sotto delle venticinque di manzoniana memoria), decisamente pochine per un titolo come il Ballo, per giunta assente dalle scene bolognesi da oltre un decennio. La sera, durante lo spettacolo e al termine dello stesso, un pubblico ben più numeroso, vociante e plaudente popolava la “piccionaia” della sala del Bibbiena. Dobbiamo credere che molti, all’oscuro della programmazione del Comunale, siano capitati domenica pomeriggio in largo Respighi e abbiano “colto la palla al balzo”, ovvero l’opportunità di assistere, a prezzi contenuti, a una rappresentazione per la quale si registrava il canonico tutto esaurito (appena mitigato dall’occasionale disponibilità di biglietti last minute in platea e nei palchi, comunque a prezzi che sembrano irridere l’istituto del last minute e la congiuntura economica). Gli applausi, il vociare di quel pubblico potevano quindi essere, in primo luogo, un omaggio alla Dea Fortuna e una testimonianza della gioia e dell’emozione, che, da vulgata mediatica, necessariamente accompagnano eventi come questa inaugurazione.
Applausi ritmati, da veglione di Capodanno o da concerto pseudorock in parrocchia, quelli che solisti, cori e orchestrali, anch’essi prontamente convocati alla ribalta al termine della recita, si sono generosamente riservati, mentre dal suddetto loggione piovevano volantini in cui si affermava che “nonostante le difficoltà in cui si trova il nostro Teatro, siamo qui per celebrare questa inaugurazione e per dire grazie al nostro Pubblico, alla città e al Comune di Bologna per essere stati così vicini al Comunale. Però, poiché questi sono tempi di auguri, noi lavoratori del Comunale ne vorremmo esprimere uno: che il nostro Teatro venga amministrato oculatamente, con trasparenza e senso di responsabilità, affinchè (sic) possa garantire un’offerta della qualità che Bologna si merita e continuare ad essere un patrimonio collettivo. Lo speriamo davvero perchè (sic) questo Teatro ne ha davvero bisogno, per poter guardare al futuro con la serenità che auguriamo a tutti voi”. Insomma, una grandiosa (auto)celebrazione del teatro bolognese, in cui la recente nomina del direttore musicale ha di fatto sancito una sorta di “pax mariottica”, con i proverbiali scontri fra dirigenza e rappresentanze sindacali a fungere da ormai lontano ricordo. Delle antiche battaglie resta solo quell’accenno a un desiderio di maggiore trasparenza e responsabilità da parte degli amministratori, che però nell’occasione specifica ben poco hanno fatto, per quanto si è visto e, soprattutto, sentito, per conformarsi ai desiderata dei lavoratori.
Pensionato, ça va sans dire, lo spettacolo di Denis Krief (proposto per un totale di otto serate nel 2003), l’allestimento proposto, o meglio riproposto, è stato quello scaligero del 2013, il celebre Ballo in maschera “delle battone” firmato in Scala da Damiano Michieletto. Per l’occasione il regista (o meglio, il suo staff, visto che al momento Michieletto sta preparando una nuova produzione di Viaggio a Reims ad Amsterdam e quindi disdegna il capoluogo emiliano, che -ci auguriamo- lo retribuisca in maniera congrua) ha eliminato o per lo meno ridimensionato e ingentilito alcune gag (su tutte l’esorcismo di Ulrica ai danni di Amelia, che qui non riceve getti di acqua santa tramite aspersorio, stile Piccolo Diavolo, ma una più “tranquilla” imposizione delle mani da parte della “santona”) e soprattutto ha eliminato le suddette battone, che all’inizio del secondo atto si aggiravano nella periferia industriale, sostitutiva del funereo luogo destinato alle esecuzioni capitali. Più esattamente a Bologna (forse anche per ragioni di responsabilità e oculata gestione delle finanze, che è facile immaginare macilente, del teatro) la battona era soltanto una, accompagnata da un protettore (viene da pensare a certi rappresentanti, che patrocinano e tentano di piazzare sul mercato un solo prodotto…), il quale la maltratta (a ricordare, forse, il sempre tristemente attuale tema della violenza di genere) ed è responsabile della rapina ai danni della trepidante Amelia, rapina che avviene, come in Scala, proprio nel momento culminante e vocalmente più complesso dell’aria. Il direttore d’orchestra, intervistato dalla radio nel corso del primo intervallo, ha dichiarato di apprezzare le regie “belle”, non tradizionali né moderne a ogni costo, che non mettono in imbarazzo e in difficoltà i cantanti. Dobbiamo ritenere che si trattasse di una, neppure velata, critica rivolta ai responsabili della componente visiva. Immutata, rispetto alla Scala, la cifra complessiva dell’allestimento, perennemente incerto fra maldestro realismo (l’abitazione di Renato che non è in realtà neppure il suo ufficio, bensì quello del suo principale, Amelia ridotta a nascondersi non già con il velo, ma con l’impermeabile dismesso dalla succitata battona) e banalizzante astrazione (la scena conclusiva, in cui battute come “Invan ti celi Amelia”, con i personaggi in piena luce e per giunta senza maschere o costumi di sorta, risultano semplicemente ridicole). A ciò si aggiunga che, per esigenze sceniche, il primo intervallo è stato collocato dopo il primo quadro del primo atto (venti minuti scarsi di musica), mentre il secondo quadro e l’intero secondo atto sono stati eseguiti di seguito, con una rapida pausa per il cambio scena. Puntuali, e oserei dire attesi e auspicati, i fischi che hanno segnato la comparsa alla ribalta dei collaboratori del regista. Come in Scala, servivano a distrarre l’attenzione dalla qualità della proposta musicale, non meno mediocre e per certi versi ancora più imbarazzante.
Michele Mariotti dirige con apprezzabile misura i preludi al primo e al secondo atto, benché l’uno risulti un poco rigido nell’enunciazione del tema d’amore e l’altro non renda adeguatamente il clima fosco e notturno (l’ambientazione da banlieue fa il resto). Pessima, per contro, la scena nell’antro di Ulrica, in cui difetta totalmente l’elemento satanico, il terzetto “passa via” senza scosse, le scene di colore come quella di Silvano e il successivo ingresso dei congiurati sono fiacche e pesanti al pari dell’inno finale e della chiusa del primo quadro del primo atto, in cui peraltro solisti, coro e orchestra tendono ad andare ognuno per i fatti propri. La scelta dei tempi (stringati e, in questo senso, attenti alle risorse vocali disponibili) appare più felice che in altre occasioni, con l’eccezione del duetto d’amore, la cui sezione centrale è staccata a un tempo che avrebbero potuto reggere con facilità un Gigli e una Caniglia al massimo della forma. Pesante e fiacco, ancora una volta, il terzetto “Odi tu” (funestato dai berci dei cantanti, e non diamo la colpa a Verdi dei suoni acuti ribattuti), decisamente meglio il finale d’atto, complice la natura semiseria della pagina, l’apporto decisamente valido dei comprimari (Fabrizio Beggi come Samuel e Simon Lim nei panni di Tom) e la presenza, in scena (nella penombra degli spalti che sostituiscono le eminenze prescritte dal libretto), del maestro del coro a fornire gli attacchi del caso. Grottescamente bandistica la scena della congiura, mentre alla festa mancava del tutto l’elemento spettrale, con una mazurka meccanica, che in nessun modo consente di intuire il dramma in corso e la tragedia che incombe sugli ignari amanti. Scene come l’antro di Ulrica, la congiura e la lugubre festa hanno un elevato tasso descrittivo, che i direttori del passato figli del Romanticismo coglievano a meraviglia e che i grandi delle ultime generazioni non sanno cogliere, figurarsi i loro cloni o pseudo tali.
Di cinque prime parti il solo Gregory Kunde, che supera, giova ricordarlo, i sessant’anni di età e i trenta di carriera, ha una voce dotata di un poco di volume e di quella “punta” che può fare la differenza, in un teatro acusticamente favorevole come quello di Bologna. Detta altrimenti: si direbbe che gli altri quattro cantino con la proverbiale patata in bocca e un cuscino sulla faccia, tanto il suono risulta ora soffocato, ora sibilato, ora ingorgato, sempre e comunque difficile, se non impossibile, da decifrare con chiarezza. Il volume, però, non basta, e neppure il mestiere, quando la voce sia divenuta così dura e legnosa da non consentire più un legato degno di questo nome nei momenti maggiormente lirici e distesi (su tutti il duetto d’amore) e da incrinarsi al minimo accenno di smorzatura (“Ma se m’è forza perderti”, disastroso anche sotto il profilo della tenuta dell’intonazione). Un poco più facile nel canto di slancio (“Sì rivederti Amelia”), questo Riccardo dimostra inesorabilmente la distanza, che separa un buon cantante adatto a Rossini, Bellini e Donizetti, per giunta inevitabilmente usurato dagli anni e da scelte di repertorio non sempre felici, da uno dei più grandiosi ruoli verdiani.
In un mondo ideale, ossia amministrato con la trasparenza e il senso di responsabilità auspicato dai sindacati, Maria José Siri canterebbe non già Amelia, ma il paggio Oscar. Niente di più lontano dalla tormentata (anche e soprattutto vocalmente) supposta adultera di questa vocina, che maldestramente si barcamena tra le onerose richieste della partitura, aprendo i suoni al centro (che rimane privo di appoggio e quindi spampanato) e salendo ad acuti fissi, vetrosi, spesso stonati, invariabilmente urlati. Un disastro l’orrido campo, un poco meno catastrofica la seconda aria, in cui se non altro la cantante si è sforzata di essere composta e misurata.
Nessuna misura, anzi un costante vociare (senza peraltro che sortissero suoni di chissà quale generosa natura) per il Renato di Luca Salsi, tonitruante e becero come nella recente Forza parmigiana, messo alla frusta dalla tessitura elevatissima del personaggio, soprattutto nella seconda aria, in cui alla sezione “O dolcezze perdute” si è smarrita ripetutamente anche l’intonazione, mentre abbondavano i suoni nasali e una respirazione diciamo aleatoria. Ancora peggio, però, la scena della congiura, in cui la frase “un ne tragga l’innocente tua mano” vorrebbe essere sarcastica e, complice il suono fra parlato e gridacchiato, risulta solo grottesca.
Per le altre due signore del cast siamo al mistero profondo, anzi al quarto segreto di Fatima. Beatriz Diaz è al livello delle signore Ofelia Sala e Maria José Moreno, un fenomeno (diciamo così) da zarzuela imprestato al repertorio italiano, incapace di emettere acuti che non siano gridi impuberi, di eseguire le figure ornamentali prescritte (un esempio per tutti, i trilli e gli staccati alla scena della congiura) e di svettare su orchestra e coro all’antro di Ulrica, in cui Oscar dovrebbe, in assenza della primadonna, “tirare” il concertato. Anche peggio Elena Manistina, che “svacca” in basso (con poca voce, anche lei) e in alto emette suoni fissi e fischianti, esibendo nel contempo il proverbiale “buco” al centro della voce. Peraltro la signora Manistina è l’unica ad aver raccolto, dopo l’imbarazzante sortita, qualche ironico commento dal loggione, evidentemente non del tutto festeggiante.
Ma quale miracolo! alla primarie del PD di Genova si votava come nella Cina di Mao….prosit
Concordo con l’analisi; le voci proposte non avevano lo spessore richiesto per competere con le pagine verdiane. Riccardo era fin troppo fiacco nel registro comico, Renato semplicemente stonato; Amelia difettava negli acuti, Oscar non aveva l’agilità necessaria né la voce squillante, da ottavino che Verdi richiede; Ulrica non è semplicemente pervenuta.
La concertazione di Mariotti mi è invece sembrata decisamente sinfonica nella sua impostazione; con troppa foga, è vero, fanfaristica nei tempi di marcia, tutto sommato buona nei preludi e forse un po’ troppo legata e impacciata nello sviluppo dell’opera.
Sulla regia non mi esprimo, devo dire però che rispetto ad altre orrende “reinterpretazioni” di opere questa messinscena non è stata almeno troppo disturbante; certo, l'”antro dell’oracolo” non aveva nulla di lugubre, il ballo senza maschere non aveva assolutamente senso, il SUV in scena e il Riccardo versione “pugno di pollice” erano scelte pacchiane. Non capisco poi la moda di utilizzare i box arredati: non esiste il palcoscenico? con il problema in più che i soffitti di questi ambienti modern-style impediscono la vista dell’opera per chi sta in alto (come me domenica sera).
Poi ho notato un particolare, chiedo a chi è più esperto di me di confermarmelo: sbaglio o, in ossequio al politically correct, “l’immondo sangue dei negri” di Ulrica si è magicamente tramutato in “un’indovina” o qualcosa del genere? E poi, la battuta “In Inghilterra” di Amelia si è trasformata in “un’altra terra.” Diverse edizioni filologiche dei libretti o modificazioni decise a tavolino?
Ripeto quanto scrissi commentando la prima della regia di Michieletto alla Scala: questa produzione, dai video e dalle foto che ho visto, non era altro che un rimasticamento di cose già fatte da altri.
Il Riccardo uomo politico con Oscar che diventa la sua segretaria? Staatsoper di Berlino, maggio 2009, regia di Jossi Wieler e Sergio Morabito.
Le prostitute e il cavalcavia? Parsifal alla Staatsoper Stuttgart, aprile 2010, regia di Calixto Bieito.
Le sagome nella scena finale? Almeno cinque o sei allestimenti di Nikolaus Lehnhoff.
Ma pensare con la propria testa mai eh?
Ma che vuol dire scusa? Nessuno ha l’esclusiva di puttane e segretarie…non è che Michieletto ha copiato. Sarebbe come dire che chiunque usa una scalinata copia Pizzi. L’allestimento è semplicemente stupido, senza bisogno di trovare antecedenti
Duprez . scusa ma che razza di regista è se usa gli avanzi degli altri…. ..doppiamente stupido,insomma almeno se si fa qualcosa di stupido….. almeno che usi la propria testa …
c’è un almeno di più 😀
Ma secondo te se un regista usa una sedia in scena allora “copia” un altro spettacolo della provincia lituana che nel 1968 ha messo in scena una sedia??? Siamo seri suvvia… Secondo questi ragionamenti chiunque adotta una soluzione che assomiglia ad altra vista chissà dove allora copia? Quindi copiava Visconti o Strehler o chiunque? La polemica diverte, ma alla lunga diventa stucchevole. Michieletto lo si giudica per quel che fa (ed è già sufficiente) non per presunte ispirazioni…poi ispirazioni di che? Di spettacoli che senz’altro non conosce? Non sto certo difendendo questo Ballo in maschera (che ho visto a Milano), solo trovo un giochino inutile rintracciare presunti plagi.
visto che questo regista va per la maggiora sia più originale…
Magari avesse messo una sedia qua o là…
(poi, non dimenticare il ‘Ballo’ rovinato al Met!)
Non si capisce l’irritazione di Duprez se si critica gli allestimenti, si deve accettare passivamente ogni porcheria messa in scena?
Non Parliamo poi della qualità del canto e/o direzione d’orchestra.
Mi sa caro Pasquale che così rischi una Fatwa.
Ma che cacchio dici? Sei in grado di capire quel che scrivo? Ho aspramente criticato questo allestimento ora e alla Scala. Nessuna fatwa…puoi continuare a scrivere quel che vuoi
Per me queste regie tradiscono un fondamentale principio:la coerenza.Secondo voi se Amleto in luogo del mortale teschio avesse in mano un bidet,potrebbe ritenersi coerente e credibile?secondo me no.perche’allora sorbirci queste cagate pazzesche( citando paolo villaggio e il suo immortale personaggio)?tra poco sostituiranno anche la musica oltre che buttare soldi sulla regia.un don giovanni con testi di fedez e musiche di laura pausini.se uno vuole l’azione nn puo’andarsi a vedere l ennesimo mission impossible?che senso ha un’opera barocca trasposta ai tempi di grease?puo’mai pensarsi che la trama di tristan und isolde sia avvincente come matrix?o che l’opera per sua natura statica possa competere cn il 3d?bah
Concordo appieno con la definizione fantozzesca di siffatte messe in scena. A Torino ho avuto la sventura di vedere (nel poco tempo che stavo con gli occhi aperti, perchè tal “regia” oltre che strmba era pure noiosa e propriziante il sonno) la Butterfly secondo Michieletto e l’unico giudizio obiettivo non poteva che essere: “è una cagata pazzesca!”. Non ho né visto né sentito l’esecuzione bolognese, ma alla radio ne ho sentito dei lacerti: da quel pochissimo che ho udito, mi pare che Salsi cerchi di fare la voce troppo grossa in “Eri tu” e tenti spudoratamente di imitare Cappuccilli senza averne né la voce, né la tecnica. E lo sappiamo: pericoloso cercare di fare il Cappuccilli senza essere Cappuccilli…. quanti baritoni ci hanno rimesso le penne?