Un Natale romano.

Antonio-PappanoLa recensione, inattesa e graditissima, del concerto catalano di madama Netrebko rende di fatto superfluo dettagliare la performance offerta dalla cantante russa in occasione dei due concerti, dall’identico programma, tenuti nei giorni scorsi all’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Questo sia perché pregi e difetti della cantante sono i medesimi già individuati dall’amico Ivanoff, sia perché la presenza del soprano è stata, a dispetto del battage pubblicitario (cui ha prestato mano, more solito, la stampa quotidiana, sempre pronta a strumentalmente confondere propaganda e informazione) e nonostante la vociante reazione di una parte del pubblico, assolutamente marginale e anzi poco e male integrata nel complesso del concerto. Concerto nel cui programma risultava faticoso individuare un fil rouge, che andasse oltre l’omaggio shakespeariano, con una selezione del “Macbeth” verdiano accostata all’”Ouverture Othello” di Dvorak (cui collegata, per esclusiva contiguità autoriale, la Canzone alla luna dall’opera “Rusalka”), e la celebrazione dei centocinquanta anni dalla nascita di Richard Strauss, con il Lied op. 27 n. 2 “Cäcilie” e il poema sinfonico “I tiri burloni di Till Eulenspiegel” a chiudere la serata. “Cäcilie” era peraltro originariamente previsto in programma, poi cassato e surrettiziamente reinserito quale bis, in omaggio a una pratica di oculato risparmio che, nell’ambito della dichiarata celebrazione dell’arte di una quotata diva, è risultata un poco mortificante, in primis per la diva medesima.

Del Macbeth la Netrebko ha cantato la sortita e il sonnambulismo, evitando quella che è la pagina per lei più ostica della versione parigina, ovvero “La luce langue”, decisamente bassa di tessitura nella sua prima sezione (non che dalla corrispondente cabaletta fiorentina, pensata per il virtuosismo esasperato di Marianna Barbieri Nini, il soprano potesse sperare di trarre miglior partito) ed evidenziando, ancora una volta, la propria natura di schietto soprano lirico, di contenuto impatto perché tubato in prima ottava e dai centri artificiosamente gonfi, con conseguente dizione pasticciata, fiati accorciati e problematica risoluzione degli acuti, che restano, ovviamente, quelli di un soprano ben diverso dal lirico spinto nonché dal drammatico di agilità, cui la Netrebko pretenderebbe, visti i ruoli pregressi e quelli annunciati, di assomigliare. Per rendersene conto basta del resto ascoltare il re bemolle sovracuto che chiude il sonnambulismo, per giunta privo della “punta” che la voce del soprano, anche di ascendenza leggera, dovrebbe comunque possedere. In queste condizioni non si può essere un’interprete non già ispirata, ma minimamente corretta, e difatti la diva si limita a compitare maldestramente il testo musicale e poetico, alternando enfasi grottesca (nelle discese al grave) e apatia (ben distante dalla cifra allucinata che dovrebbe possedere la gran scena finale della Lady), più spesso confidando unicamente nelle proprie risorse timbriche. Che purtroppo non sono quelle di una Cerquetti o di una Caballé, e neppure quelle di una Tucci. Il punto più desolante del concerto è, in questo senso, il Lied straussiano, afflitto da una dizione assolutamente incomprensibile e da un accento a dir poco inerte (laddove l’esecuzione dovrebbe invece privilegiare l’abbandono sensuale) e di fatto indistinguibile dalla romanza di Rusalka, in cui la cantante ha esibito piani in difetto di appoggio e quindi malfermi e tendenzialmente fissi.

Tutt’altro linguaggio parlavano il podio, ma soprattutto il coro e l’orchestra, che non hanno offerto una prova perfetta (ben difficile, del resto, che ciò possa avvenire nell’ambito di un’esecuzione dal vivo) ma, se non altro, coerente e realizzata con adeguato professionismo. Pappano coglie nel Macbeth soprattutto un senso di condanna eterna ed inesorabile, che risuona dal preludio con accenti di tragico sgomento: il vitalismo infernale delle streghe (e, per estensione, della Lady) passa in secondo piano di fronte alla fragilità, all’ansia e alle incertezze che caratterizzano la condizione umana. Più dramma borghese, insomma, che tragedia. Logico che una simile lettura trovi nelle pagine più liriche e distese (scena di Ecate nei ballabili, sonnambulismo e soprattutto “Patria oppressa” – brano che Enrico Girardi, nel programma di sala, afferma essere stato composto per l’edizione parigina) i suoi momenti più suggestivi, complice un’ottima prestazione del coro. Elegante, ma priva del necessario nerbo, un poco rigida e accademica, l’esecuzione dei brani di Dvorak, mentre in Strauss predomina, e non a torto, l’edonismo sonoro: al tempo stesso, i diversi episodi del Till Eulenspiegel sono adeguatamente evidenziati e non si ha mai l’impressione, a differenza di quanto notato da certa critica, di assistere a una prima lettura di una pagina così complessa e in ogni senso impegnativa. Così come incomprensibili (per non dire di peggio) risultano taluni rilievi mossi all’esecuzione delle pagine verdiane, o ancora la risibile chiosa circa la supposta incapacità del direttore di “impostare” adeguatamente il soprano. Premesso che una diva, che voglia davvero essere tale, dovrebbe “impostarsi” in autonomia, a maggior ragione se ha, come in questo caso, già affrontato integralmente l’opera in questione, davvero non si vede che cosa avrebbe dovuto fare Pappano (oltre ad optare, per l’appunto, per una lettura più melanconica che drammatica e caratterizzata da tempi tendenzialmente stringati nelle pagine solistiche) per favorire ulteriormente la cantante. Magari consigliarle di cambiare repertorio, per non dire mestiere?

 

I commenti musicali sono, in questa giornata, anche un modo per augurare ai nostri lettori serene festività natalizie.

 

 

Verdi – Macbeth

Atto IV

Patria oppressa – Orchestra e Coro dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, dir. Antonio Pappano (2014)

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19 pensieri su “Un Natale romano.

    • Approfittandone per rivolgere a tutti quanti gli auguri, volevo ringraziare Rigoletto perché mi ha spinto ad ascoltare molte cose di Emma Renzi sul tubo e mi ha davvero stupito. Recentemente l’avevo ascoltata per la prima volta nella Parisina di Mascagni, opera bellissima, e avevo trovato una cantante buona nei fondamentali, ma piuttosto in difficoltà nella fine dell’opera, cosa che avevo imputato alla lunghezza e alla pesantezza del ruolo protagonista, che pare davvero massacrante (ed è pure tagliato, anche se non moltissimo a quanto avevo capito da post precedenti). Ascoltata in ruoli più tradizionali però fa davvero una grande figura ed è un peccato che sia stata dimenticata: la voce è un poco aspra, ma è avanti (infatti si sente che passava senza problemi dai vari ascolti live) e buona sia sotto sia sopra (più sotto che sopra), oltre che abbastanza flessibile e caratterizzata da una pronuncia davvero ottima. La scena del primo atto dalla Turandot, la scena di Abigaille, la cavatina della Lady e persino Come Scoglio di Fiordiligi sono delle buonissime esecuzioni, con qualche difetto, ma di qualità, specie se pensiamo a oggi e anche a chi ha inciso tanto e troppo, meritandoselo di meno!

      Una domanda, ma proprio non so cogliere il riferimento: cos’è l’opera maledetta diretta da Savini?

  1. lunedi 22
    Pappano mi ha convinto e l’orchesta anche;
    esecuzione molto nidita e pulita , si sentiva la mano
    sicura di un direttore che sa trasmettere un senso
    compiuto , un ‘idea !

    La Nebtrenko non mi ha entusiasmato ma forse non era
    in serata, mi aspettavo qualcosa di più..
    bella voce , bella donna e brava attrice ,,

  2. Qualche nota su Pappano e sull’orchestra. Pappano È un direttore che amo molto, l’ho scritto altrove e lo ribadisco, L’orchestra di S. Cecilia è forse l’unica orchestra italiana che sappia veramente suonare (il mio cuore milanese sanguina, ma è così). Però… però… lunedì 22 dicembre qualcosa non andava, almeno nella seconda parte. Sì perchè il Macbeth è stato eccellente (nonostante le critiche di Isotta) e avrebbe meritato una cantante, non la sirena di Ionisation di Varèse (la sirena bassa, naturalmente).
    Ma l’Ouverture Othello di Dvorak non è decollata; certo è un’impresa difficile con una musica che sembra non andare da nessuna parte, ma da Pappano mi aspettavo un colpo d’ala che non è arrivato. La canzone alla luna della Rusalka, e la Caecilie di Strauss, pezzi di abbagliante bellezza, non sono giudicabili per il disastro vocale della Netrebko, che ha trasformato Rusalka in Jezibaba (la strega) e Caecilie in un battelliere del Volga con troppa vodka in corpo.
    Veniamo al Till Eulespiegel. Ecco, qui Pappano mi ha lasciato veramente perplesso. Mi aspettavo moltissimo dopo la prova maiuscola della Alpensinfonie con cui ha inaugurato la stagione e invece… è mancata la narrazione, l’orgia di colori, lo spirito di Till. ed è mancata anche la dimensione tragica del personaggio che così bene Pappano aveva sottolineato qualche mese fa, dirigendo un Prigioniero di Dallapiccola di incredibile bellezza. Anche l’orchestra non è stata pari alla sua fama, non tanto per qualche ordinaria imprecisione (scusate ma in questo caso sono della scuola del chissenefrega, se no ascolto i dischi) ma perchè sembrava compitare il brano senza quell’anima che normalmente possiede.
    Una serata no può capitare a tutti, anche al più grande narratore di storie (Pappano in Strauss, anche qui alla faccia di Isotta) e a una delle migliori orchestre europee e, per me, mondiali.

  3. Dimenticavo… Cito Il Prigioniero di Dallapiccola perchè è tratto sempre dalle storie di Till Eulenspiegel, anche se da un’altra fonte che ne fa un eroe fiammingo. So che i Grisini lo sanno ma a tutti gli altri volevo risparmiare una fatica… Auguri di buone feste!

    • Marco caro,
      la voglia di bacchettare non ti passa neanche sotto natale. E. K. – con cui mi scuso per l’esegesi non richiesta – non dice che il pezzo è brutto, ma che SEMBRA non andare da nessuna parte.
      Sono certa che quell’ouverture siamo in parecchi ad amarla.

      Auguriamoci tutti un (nonostante le premonizioni) BUON ANNO.

      • A me non sembra che Marco Ninci volesse bacchettare, semplicemente dire “non va da nessuna parte” non è un giudizio lusinghiero. Ognuno ha i suoi gusti e l’overture di Dvorak può piacere o meno, ma Marco può essere liberissimo di dire che a lui piave (anche a me peraltro). Questo, Lily, è solo voler far polemica inutile e sterile. Nessuno qui ha mai giudicato i tuoi gusti o ha definito la tua libertà di esprimerli come “bacchettata” o provocazione. Pertanto basta assurdità!

  4. Che il mio commento sia considerato ispirato alla voglia di bacchettare mi sembra stupefacente. Questo è un assurdo pregiudizio. “Sembra non andare da nessuna parte” non mi sembra un giudizio molto positivo sulla qualità della musica; se poi lo è, non è molto chiaro. Comunque siete tutti convinti che io voglia solo bacchettare; questa è un’assurdità ridicola. Ciao a tutti

  5. Un paio di chiarimenti: Othello di Dvorak non é brutto (personalmente detesto l’estetica crociana con le sue poesie e non poesie ecc. ecc.), ha peró grandi problemi narrativi. Ha bisogno di chi sa raccontare una storia per decollare, esattamente come fa Kertesz, ma anche, in modo diverso, Kubelik. Era esattamente questo che mi aspettavo da Pappano, che oggi è forse il miglior “narratore” dal podio. Essere narratore non significa necessariamente essere un direttore superlativo ma saper prendere per mano l’ascoltatore e condurlo nella storia, facendo esprimere alla musica quello che ha dentro. Talvolta quel “dentro” é molto difficile da portare alla luce – l’Othello di Dvorak ne é un esempio tipico – oppure é soffocato da una struttura gigante che rischia di schiacciarlo – i Troiani di Berlioz – o ancora é un filo conduttore labile in un’opera piena di dubbi come il Don Carlo di Verdi.
    Bene, da Pappano, che a mio parere é oggi, insieme con Levine, l’unico che sappia cogliere il senso della narrazione de i Troiani e del Don Carlo (non parlo di aspetti stilistici e vocali ma solo narrativi), mi aspettavo proprio questo, ma Othello gli ha teso una trappola!
    Un’ultima postilla: se un pezzo di musica a programma “non arriva”, forse qualche problemino c’è l’ha, anche se da un punto di vista estetico ha una “grande bellezza”.

  6. Concerto visto in televisione qualche sera fa. Dopo la cabaletta di Lady ho chiuso. Ma questo sarebbe un grande soprano? Ormai non ha più nemmeno il fisico (sempre che questo possa salvare qualcuno all’opera, cosa che ovviamente non condivido), perchè non mi sembrava più così sexy….almeno così vestita e pettinata.
    E dire che il presentatore ha pure detto essere tornate le grandi voci, essere bello persino vederla cantare, aprire la bocca… Ma l’ha vista al monitor?? (e non cito qui l’irripetibile battuta riferita nella Virtù dell’Elefante sulla Suterland :-)) . Ma se ghermisce tutto come se volesse sembrare una belva feroce.
    E tutto questo passi se ci fosse il canto….ma chi solo abbia sentito una volta in disco, non dico la Callas, ma la Gencer o la Scotto (che meglio avrebbe fatto a non cantare la Lady) non può pensare di esser di fronte ad una grandissima!! E la dizione? Dopo tutto quel repertorio italiano non sembra certo migliorata. E gli acuti ghermiti?
    E l’intonazione? Una volta si studiava e ristudiava fino ad avere un’intonazione perfetta…ora ognuno fa a modo suo?
    Mi sembra che ormai siamo in molti a pensarla così. E non c’è bisogno di essere degli eruditi collezionisti di dischi e incunaboli vari, semplicemente avere un po’ di orecchio.
    E per finire, scusate lo sfogo, è vero che le grandi star costruite dall’industria discografica o dal management ci sono sempre state, ma almeno avevano un professionismo iniziale in un certo repertorio, poi magari venivano traviate (tipico caso per me la Studer). Ho acquistato dei dischi della McNair degli anni ’90: niente di trascendentale, sicuramente sopravalutata dalla major, anche per il fisico e il fascino, ma in confronto a ciò che si sente oggi come Susanne dello star system o cantatrici di melodie francesi – siamo su un altro pianeta!

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