Aspettando Fidelio – Parte III: visioni e interpretazioni tra storia e leggenda

Stieler, Joseph Karl: Beethoven mit der Missa solemnis Ölgemälde, 1819 Fidelio, oder die eheliche Liebe andò in scena nella sua terza ed ultima redazione il 23 maggio del 1814 al Theater am Kärntnertor di Vienna con esito trionfale e da allora è entrato stabilmente nel repertorio dei maggiori teatri del mondo a partire dai paesi di cultura tedesca (la prima italiana risale al 1883). Una familiarità con l’opera che si riflette in una costante presenza nel grande repertorio dall’altra e in una ragguardevole discografia, a partire dagli anni ’40 del secolo. Tuttavia, nonostante la conoscenza del titolo da parte del grande pubblico, nonostante il buon numero di testimonianze discografiche e nonostante i grandi nomi che hanno affrontato il titolo anche in teatro, Fidelio è da sempre oggetto o vittima di due grandi fraintendimenti: uno di natura politica ed ideologica, l’altro di carattere interpretativo. Da sempre, infatti, si è voluto leggere nel Fidelio una sorta di inno alla libertà dell’uomo, un invito rivolto all’Umanità tutta ad affrancarsi da ogni tirannide oscurantista, una più o meno esplicita traduzione musicale degli ideali della Rivoluzione Francese (che allora da poco aveva incendiato l’Europa). Complice di questa lettura è la vulgata che ha fatto di Beethoven l’epigono di un certo atteggiamento ideologico progressista (quando non rivoluzionario), un giacobino/libertario che avversò Napoleone (si pensi alle vicende legate alla Sinfonia Nr. 3) proprio perché ritenuto colpevole del tradimento di quegli stessi ideali: uno strenuo oppositore dell’ancien régime insomma. La realtà storica – al di là di queste suggestioni che si vorrebbero sorpassate – è diversa, anche se è ancora molto difficile superare la portata di tali pregiudizi. Beethoven, al di là delle storielle e dell’aneddotica più spiccia, non fu mai un rivoluzionario, egli, anzi, rimase tutta la vita legato ad un’idealità illuminista e kantiana, fondamentalmente legittimista e quindi conservatrice dell’ordine legale e naturale. E ciò si riscontra in Fidelio proprio nel suo più intimo significato – raggiunto faticosamente con il labor limae delle successive revisioni – ossia quell’anelito alla felicità che è diritto inalienabile non solo dell’Uomo, ma di tutti gli uomini, attraverso la riconquista di una libertà primigenia, grazie all’amore della propria donna e la vittoria della ragione sul disordine morale.  Partiamo dalla fonte letteraria (rapportato agli anni in cui l’opera venne concepita per la prima volta ossia il 1804): un dramma francese di recente successo a tesi marcatamente anti robespierriana, quel Léonore ou l’amour conjugal dell’avvocato Jan-Nicolas Boully (che fu liberale, monarchico, rivoluzionario, legittimista e poi ancora monarchico a seconda della convenienza politica del momento), e che intende celebrare i valori del singolo e dell’amore coniugale (il matrimonio tradizionale, come fulcro e fondamento di ogni società che vuole essere “giusta”) contro i soprusi del nuovo potere (ancorché inteso come emanazione del popolo sovrano). Un testo fortemente legittimista in cui è lo stesso “potere tradizionale” – rappresentato dall’aristocrazia – a riparare i torti e a stabilire l’ordine. Beethoven non interverrà mai sulle tesi del testo, poiché espressioni anche del suo universo ideale, che è quello dell’ordine e della legittimità. Anzi nel corso delle tre revisioni l’apparato ideale prenderà gradualmente il sopravvento (con gli episodi leggeri che verranno via via marginalizzati sino al grandioso finale che è allo stesso tempo celebrazione della felicità della coppia, dell’amore e dell’ordine finalmente ritrovato). In questo senso assume un significato illuminante una frase di Leonore che racchiude la struttura portante dell’etica beethoveniana, nel terzetto dell’Atto I (Nr. 5 della partitura): “Ich hab auf Gott und Recht Vertrauen”, cioè “confido in Dio e nel Diritto”. Moralità e legalità in una tensione soprattutto etica, che si potrebbe dire kantiana.

L’altro fraintendimento attiene invece all’interpretazione strettamente musicale. Anche qui l’equivoco è generato – già l’ho scritto diverse volte – dalla solita vulgata che fa di Beethoven un compositore “romantico”, nel mito del genio solitario e tormentato. Da qui ne è derivato un generale appesantimento della partitura, schiacciata da organici spesso sproporzionati, da una portata sonora sovrabbondante, da una imposta solennità retorica e fuori luogo, dall’esasperazione di tempi straordinariamente ampi, dalla preponderanza dell’elemento sinfonico e così via. L’effetto di questa lettura wagnerianamente orientata è la riduzione di trasparenza, di compostezza formale, di leggerezza, di languore, di ogni rimando a Mozart e a Haydn, compromettendo così il classicismo della partitura, i suoi equilibri e le sue proporzioni, e ignorandone scientemente il carattere di SingspielFidelio andrebbe, invece, inteso nella scia di quelle opéra à sauvetage che conobbero enorme diffusione a cavallo dei due secoli e che furono – insieme alla più composta tragedia di tipo classico – l’espressione più tipica del neoclassicismo musicale, avendo in Cherubini (definito da Beethoven “il più grande di tutti”) l’incontrastato paradigma. Del resto anche l’analisi della partitura rimanda a questa dimensione estetica. Sia per ciò che attiene al trattamento orchestrale sia per ciò che concerne le voci. La vocalità richiesta per Leonora, infatti affonda le radici nel  soprano mozartiano (Pamina, Konstanze, Donna Elvira), così come Florestan, pur contenendo in nuce un nuovo modello di scrittura che porterà al Heldentenor, sempre con Mozart deve fare i conti. Anche Don Pizzarro fu vittima della trasformazione di Fidelio in “dramma musicale” e così si trasformò in un villain torniturante. Marzelline, Jaquino e anche Rocco, invece, appartengono a quei ruoli di mezzo carattere, leggeri quasi comici, tipici del Singspiel, peculiarità queste irrimediabilmente perse (o sdegnosamente rigettate) nella fuorviante lettura wagneriana dell’opera, che nella sua ponderosa seriosità non ammetteva “leggerezze” e divagazioni.

Ora, il combinato disposto dei due suddetti equivoci può portare (e spesso ha portato) a risultati del tutto estranei all’opera così come venne composta da Beethoven. Oltretutto, mentre negli anni’50 e ’60 questa lettura conta sulla giustificazione storica di una tradizione esecutiva ritenuta maggioritaria e l’indubbio fascino di interpretazioni esaltanti, oggi la sua riproposizione – come minaccia l’imminente prima scaligera – appare grottesca. Come del resto, è discutibile una lettura minimalista che si vuole collocare ideologicamente agli antipodi, secondo gli invalsi schemi barocchisti che, se evita l’ipertrofismo tardoromantico che ne ha dilatato i confini, non riesce a “riempire il vuoto” lasciato sul campo. Eppure basterebbe ritornare ad un’estetica classicista appena screziata dalle temperie dello Sturm und Drang e ad uno stile adeguato (che ha i suoi riferimenti in Mozart e, soprattutto, Haydn), per trovare un convincente equilibrio.

Ma la storia interpretativa di Fidelio non può essere limitata alla ricostruzione dei caratteri originali dell’opera o della sua prassi esecutiva: essa ha conosciuto molti passaggi ed evoluzioni. Le due direttrici lungo le quali si è mossa si riportano sostanzialmente alla dicotomia tra classicismo e romanticismo. E così come non è possibile procedere per cesure nette – poiché la storia ha i suoi tempi e il suo progredire – è pur vero che si deve far molta attenzione ad attribuire patenti di valore a interpretazioni storiche. Ho sempre pensato che il senso ultimo dell’esecuzione musicale risiede nella straordinaria capacità dell’interprete di parlare con frasi scritte da altri per altri tempi, ma rivissute e fatte proprie attraverso le sofferenze e il portato della propria storia personale (che a volte coincide anche con la Storia collettiva): e così se in Walter o in Klemperer si percepisce un rapporto personale con l’opera che è quello della ricerca di una patria comune (per chi dalla sua è stato costretto a fuggire), in Furtwaengler si sente l’amarezza della tragedia della guerra, del nazionalsocialismo, della caduta del proprio mondo e dall’umiliazione subita. E ancora altro si trova nel pessimismo di Fricsay o di Knappertsbusch o nel vitalismo di Bernstein che valorizza l’estraneità alla tradizione europea. Così come sono differenti le interpretazioni di Harnoncourt che cercano di riportare l’opera all’universo haydniano.

Appendice: i direttori di Fidelio.

Com’è naturale, Fidelio attirò i più grandi direttori d’orchestra che si misurarono con questo immenso capolavoro ciascuno portando la propria storia e la propria visione di estetica musicale nell’interpretazione dell’opera. Sarebbe riduttivo, superficiale e sbagliato parlare di una presunta “scuola storica” (facendo un calderone di esperienze spesso opposte) e di una “scuola moderna” (anch’essa screziata da visioni spesso antitetiche), piuttosto si deve considerare ogni lettura come espressione individuale che racchiude certamente il portato dell’epoca storica in cui si è sviluppata, ma, soprattutto, la differente sensibilità e personalità di chi tale interpretazione ha governato. Ecco perché è meglio considerare ogni approccio singolarmente. Suggerisco – su istanza di alcuni commenti – una modesta e incompleta rassegna di quelle che, secondo me, sono le più significative interpretazioni di Fidelio:

Wilhelm Furtwaengler: non si può non partire dal grande direttore tedesco che – come accennato – porta sé stesso e la sua storia in Fidelio. Una storia che si incrocia con la Storia tragica del XX secolo, con la guerra, il nazionalsocialismo, la fine di una certa idea di cultura tedesca, la caduta di un mondo, l’umiliazione, la sconfitta. La Storia irrompe nel Fidelio di Furtwaengler col suo passo tragico, nervoso (in una costante tensione morale a trasfigurare l’opera nella celebrazione di una rinascita etica, di riscatto di una generazione, di nuovo inizio, seppur con lo sguardo rivolto a ciò che irrimediabilmente si è perso). Così come si sente la guerra nella celeberrima Nona del marzo 1942 (e nell’aprile, in occasione del compleanno del Führer del medesimo anno vi saranno Himmler e Goebbels nel pubblico): lacerata, feroce, violenta come uno sguardo di fronte al baratro. Come sempre il la lettura di Furtwaengler è tesa, lucida, tragica, estremamente varia nel lavoro di decostruzione che isola le singole particelle musicali quasi che l’una nascesse dall’altra. Una lettura decisamente anti romantica da cui non si può prescindere né si può liquidare come “tradizionale”.

Otto Klemperer: tanto Furtwaengler si concentra sulla lsingola misura e particella, così Klemperer privilegia una visione più ampia che risalti l’architettura complessiva dell’opera. Una lettura ancora una volta anti romantica, analitica, oggettiva, condotta con rigore scientifico (ho sempre trovato molte affinità tra Klemperer e Boulez). Il dramma è molto meno evidente in una visione più oratoriale che teatrale. Anche qui i temi etici sono evidenziati, ma come in una solenne celebrazione laica.

Bruno Walter: se si cerca un Fidelio romantico o tardo romantico Walter è l’interprete ideale. Un approccio ottocentesco e rassicurante che pur indulgendo nella visione dell’opera come dramma musicale ante litteram, stacca tempi vividi e molto teatrali, arricchiti con una vena di malinconia.

Erich Kleiber: una visione che riporta Fidelio al classicismo viennese e a trasparenze preromantiche, ma fortemente orientato eticamente verso una concezione alta di moralità. Del resto Kleiber fu il protagonista del Fidelio mancato del 1939 alla Scala, quando con gesto di integrità e coraggio rinunciò alla direzione dell’opera con queste parole: “La musica è fatta per tutti, come il sole e l’aria. Là dove si nega a degli esseri umani questa fonte di consolazione così necessaria in questi tempi duri e questo soltanto perché essi appartengono a un’altra stirpe o a un’altra religione, io non posso collaborare né come cristiano né come artista. Debbo di conseguenza pregarvi di considerare nullo il mio contratto malgrado il piacere che avrei avuto di dirigere in questo magnifico teatro che rammenta le più nobili tradizioni italiane”.

Ferenc Fricsay: anche la sua interpretazione si riporta al classicismo viennese e i rapporti col mondo mozartiano.

Leonard Bernstein: interpretazione vitalistica, diversa da ogni altra e non legata a tradizioni o condizionamenti. Lenny, come sempre, mette sé stesso nella sua lettura (già ho parlato della sua Leonore No. 3 inserita nel tessuto dell’opera con interventi sul testo).

Nikolaus Harnoncourt: riporta l’opera ai suoi equilibri haydniani e mozartiani, lavorando sugli equilibri dell’organico e privilegiando l’apporto dei legni sugli archi, dando all’opera una maggior trasparenza.

Di Gardiner, Abbado, Solti, Toscanini non aggiungo nulla: interpretazioni in parte deludenti in parte squilibrate.

Restano fuori Bohm, Karajan, Haitink, Maazel…ma lo spazio è limitato e “brevità gran pregio”.

Gli ascolti:

Atto I

Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein – Joseph Laderoute & Eleanor Steber, dir. Arturo Toscanini (1944)

O wär ich schon mit dir vereint – Eleanor Steber, dir. Arturo Toscanini (1944), Sena Jurinac, dir. Herbert von Karajan (1957)

Mir ist so wunderbar – Luise Helletsgruber, Lotte Lehmann, Anton Baumann, Hermann Gallos, dir. Arturo Toscanini (1936), Elisabeth Schwarzkopf, Kirsten Flagstad, Josef Greindl, Anton Dermota, dir. Wilhelm Furtwängler (1950)

Hat man nicht auch Gold beineben – Alexander Kipnis, dir. Bruno Walter (1941)

Gut, Söhnchen, gut – Gottlob Frick, Birgit Nilsson, Ingeborg Wenglor, dir. Erich Kleiber (1956)

Ha, welch ein Augenblick – Friedrich Schorr, dir. Artur Bodanzky (1938), Herbert Janssen, dir. Arturo Toscanini (1944)

Abscheulicher! Wo eilst du hin? – Kirsten Flagstad, dir. Wilhelm Furtwängler (1950), Gertrude Grob-Prandl, dir. Oliviero de Fabritiis (1953), Birgit Nilsson, dir Herbert von Karajan (1960), Sena Jurinac, dir. Otto Klemperer (1961), Christa Ludwig, dir. Herbert von Karajan (1963)

O welche Lust – Metropolitan Opera Chorus, dir. Bruno Walter (1941), Chor der Wiener Staatsoper, dir. Wilhelm Furtwängler (1950), Coro della RAI di Roma, dir. Leonard Bernstein (1970)

Nun sprecht, wie ging’s? – Helen Werth, Gottlob Frick, Josef Metternich, Lisa Otto, Karl Weiser, dir. Ferenc Fricsay (1951), Birgit Nilsson, Gottlob Frick, Paul Schöffler, Ingeborg Wenglor, Gerhard Unger, dir. Erich Kleiber (1956)

Atto II

Gott! Welch’ Dunkel hier! – Jan Peerce, dir. Arturo Toscanini (1944), Julius Patzak, dir. Wilhelm Furtwängler (1948), Peter Anders, dir. Ferenc Fricsay (1951), Helge Rosvaenge, dir. Winfried Zillig (1952), Jon Vickers, dir. Herbert Von Karajan (1960)

Wie kalt ist es in diesem unterirdischen Gewölbe!…Nur hurtig fort – Birgit Nilsson & Franz Crass, dir. Leonard Bernstein (1970)

Euch werde Lohn in besser’n Welten – Julius Patzak, Josef Greindl, Kirsten Flagstad, dir. Wilhelm Furtwängler (1950), Ludovic Spiess, Franz Crass, Birgit Nilsson, dir. Leonard Bernstein (1970)

Er sterbe! – Ferdinand Frantz, Julius Patzak, Erna Schlüter, Herbert Halsen, dir. Wilhelm Furtwängler (1948), Paul Schöffler, Julius Patzak, Kirsten Flagstad, Josef Greindl, dir. Wilhelm Furtwängler (1950), Otto Edelmann, Wolfgang Windgassen, Martha Mödl, Gottlob Frick, dir Wilhelm Furtwängler (1953)

O namenlose Freude – Julius Patzak & Kirsten Flagstad, dir. Wilhelm Furtwängler (1950), Jon Vickers & Birgit Nilsson, dir. Herbert von Karajan (1960)

Heil sei dem Tag, Heil sei der Stunde – Herbert Janssen, Alexander Kipnis, Julius Huehn, Marita Farell, Kirsten Flagstad, René Maison, Karl Laufkötter, dir. Bruno Walter (1941), Hans Braun, Josef Greindl, Paul Schôffler, Elisabeth Schwarzkopf, Kirsten Flagstad, Julius Patzak, Anton Dermota, dir. Wilhelm Furtwängler (1950), Hans Braun, Gottlob Frick, Paul Schöffler, Ingeborg Wengler, Birgit Nilsson, Hans Hopf, Gerhard Unger, dir. Erich Kleiber (1956)

 

23 pensieri su “Aspettando Fidelio – Parte III: visioni e interpretazioni tra storia e leggenda

  1. Mi sarebbe piaciuto che Duprez approfondisse di più la storia interpretativa-direttoriale delle varie edizioni disponibili. Spero lo farà nei prossimi articoli. Da parte mia, pur limitandomi alle sole incisioni “ufficiali” , continuo a preferire l’edizione siglata dall’amato Fernec Fricsay.

    • Non ci voleva certo Giovanni Gavazzeni per scoprire tale arcano, già stava scritto da un pezzo sul sito del teatro. E poi, se i critici musicali fossero più attenti, saprebbero che Barenboim ha sempre optato per la Leonore No. 2 (e solitamente invertiva aria di Marzelline e duetto con Jaquino per rispettare – più o meno – gli scrupoli beethoveniani e l’equilibrio tonale). La scelta a me pare molto discutibile perché Beethoven – come ho scritto precedentemente – ha lavorato non poco sulla sinfonia e l’ha modificata ogni volta che ha revisionato l’opera, segno che al brano dava molta importanza. E pur essendo le tre Leonore pezzi splendidi evidentemente Beethoven non li riteneva adatti alla nuova versione di Fidelio: in effetti l’overture della redazione 1814 non “racconta più l’opera”, ma è un brano a sé stante (nella tradizione di Gluck o Mozart). Quando Barenboim dice che ha scelto la Leonore No. 2 perché svolge la funzione di tutte le overture operistiche – ossia anticipare la trama e/o i temi dell’opera – dice una grave inesatezza: alcune overture in effetti hanno questa funzione (e addirittura sono dei centoni di temi e brani, come nel melodramma), ma altre sono assolutamente autonome come quelle di Gluck, di Mozart e anche di Rossini.

      • Io giudicai in un precedente post il Fidelio come una delle piu’belle opere,indipendentemente dal significato che ad essa si voglia,anche per interpretazione teleologica,attribuirle,sia esso reazionario o rivoluzionario.In esso,ascoltandolo ( possiedo x ora solo la versione di Bernstien ) colgo l haydn degli oratori,l’ultimo mozart ( soprattutto nei personaggi “minori“ ),cosi come riecheggiano i corali bachiani nella loro luminosita’spirituale( mi riferisco ai cori dei prigionieri),ma anche la grandezza delle sinfonie ( ovviamente soprattutto nelle ouvertures ) ma anche l’alternanza di luci ed ombre che contrassegnano gli ultimi quartetti…

      • Un paio di ore fa e’ andata in onda su RAI 5 un’intervista di Michele Dall’Ongaro a Baremboim su Fidelio: conferma della Leonora 2 al posto della consueta ouverture. A proposito dell’ouverture come brano privo di riferimenti ai temi musicali dell’opera Baremboim in quest’intervista ha fatto riferimento ad alcune ouverture mozartiane definendole sostanzialmente come intercambiabili proprio perche’ prive di riferimenti ai temi musicali dell’opera.
        Poi ho temuto, ma evidentemente ho capito male, che sparisse l’aria di Marzelline perche’ lui parla di un duetto (Marzelline-Jaquino) che diventa quartetto ma magari questo vuol dire che l’aria di Marzelline precedera’ il duetto.
        In effetti, mi sembra che, a parte la sostituzione dell’ouverture, nell’intervista si parlasse di “altre novita’”.
        Nel corso dell’intervista, alcuni momenti delle prove del 28 novembre ma solo estremamente fuggevoli inquadrature della scenografia: per quel che puo’ valere, forse la parte visiva sara’ interessante, speriamo !!

        • A me pare che l’ouverture del ratto dal serraglio non sia affatto interscambiabile contenendo il tema della prima aria;cosi come per il don giovanni,a fortiori se si accetta la tesi della sua scrittura ad opera ultimata,nella scena del commendatore;egualmente e’a dirsi per il cosi fan tutte,in cui si anticipa il motto del filosofo don alfonso,e nel flauto magico,con l’anticipazione della marcia dei sacerdoti.

          • Sì, ma non sono un centone di temi dell’opera né una narrazione anticipata della storia: le overture mozartiane che hai citato contengono sì uno spunto tematico (nell’introduzione o nella coda) ma non sono costruite con i temi che si ascolteranno successivamente (come invece sarà per le classiche overture del melodramma – Donizetti, Bellini, Verdi – o nei preludi dei drammi musicali wagneriani). Questo per dire che non è corretto dire – come fa Barenboim – che l’overture deve anticipare la storia o i temi dell’opera. Che scelga la Leonore No. 2 per gusti personale è un conto (e a questo punto mi chiedo perché non la Leonore No. 3), ma che ci imbastisca sopra ragioni di opportunità musicale mi sembra troppo.

          • Ma, in effetti, ne ha citate solo un paio, non era un’affermazione generalizzata riferita a tutte le ouverture di Mozart: mi sembra che una delle 2 fosse Le nozze di Figaro, ma non sono sicuro.

      • Coraggiosa perche’in epoca moderna penso sia stata sottovalutata e poi poco conosciuta dalle grandi masse ma anche dagli amanti di beethoven x via della ritrita incapacita’del maestro di trattare le voci etc. certo e’di meno appeal rispetto a traviata o trovatore e richiederebbe un uditorio preparato per riuscire a percepire la meravigliosita’che in beethoven a volte sembra nascondersi ( io me ne sono innamorato dopo diversi ascolti )

        • Sottovalutato non direi: in area germanica e negli USA è eseguita con grande frequenza e interpretata dai più grandi cantanti e direttori d’orchestra. Quanto alla scempiaggine della presunta incapacità di Beethoven di trattare le voci credo sia assai poco diffusa e comunque relativa ad un ristretto numero di appassionati. Non credo, poi, sia necessaria una specifica preparazione (mica è Donnerstag aus Licht!)…e quanto all’appeal penso sia solo questione di gusti.

  2. Anche secondo me la parte visiva e’ la cosa
    piu’ interessante purtroppo. Il resto, mi auguro
    vada meglio alla prima. Vedremo, ma c’e’ poco
    da sperare. In ogni caso, almeno in questa
    occasione, si ascolta un basso dignitoso.

  3. Ho visto l’Anteprima di questo Fidelio di giovedì sera e, francamente, mi sono annoiato non poco. Vocalmente non sono mancate lacune (Vogt imbarazzante – a meno che il problema non fosse il mio palco particolarmente “sordo”) mentre lo spettacolo mi è parso il solito mappazzone post-industriale, riciclabile per il 75% delle opere in repertorio: suggestivo a tratti il finale ma molti particolari in tutta l’opera lasciati cadere… Bah,comunque il solito trionfo con tanto di standing ovation così tutti siamo contenti…andar

  4. Complimenti vivissimi e sincera ammirazione per i post sul Fidelio, e in particolare per quest’ultimo. Rilevo con piacere che lei riassume riorganizza e chiarisce le osservazioni, molto più diffuse e talvolta astruse, fatte in proposito da Piero Buscaroli, nel suo monumentale libro su Beethoven, e da Paolo Isotta sul Corriere ( magari questa compagnia non le aggrada, ma è pur sempre una compagnia di prestigio). Centratissime anche le sintetiche osservazioni sui diversi direttori. Tuttavia per quanto riguarda Bernstein ritengo che la sua direzione, coordinata con le demenziali dichiarazioni para-politiche con cui volle illustrarla, sia alla radice di tutte le manipolazioni musical-politiche di cui l’opera ha sofferto. ( Ricordo un Fidelio in cui a liberare Florestano intervenivano i caschi blu dell’ ONU !).
    Ancora coplmenti e grazie.

    • Beh Buscaroli ha scritto il peggior libro su Beethoven mai pubblicato (falso, rabbioso, non documentato) e Isotta è..Isotta e tanto basta: una compagnia davvero sgradevole..
      Quanto a Bernstein penso sia il massimo interprete di Fidelio aldilà di filologia tradizione o politica

      • Su Bernstein – uno di quegli “idola theatri” che continuano a sembrarmi molta apparenza, molta lustra e poca sostanza -le lascio volentieri la sua convinzione, che peraltro conoscevo già dal suo post del 2011 sul Fidelio diretto da Abbado ; io conservo il mio parere, che può essere viziato da diversi preconcetti, ma che si fonda soprattutto sulle mie orecchie : saranno anche orecchie d’asino, ma sono le uniche che ho. Del resto, ripeterò anch’io, come un illustre personaggio, : “Chi sono io per giudicare”? Tuttavia a me pare che Baremboim sia, per molti aspetti, il degno epigono di Bernstein.
        Su Isotta e su Buscaroli, che immaginavo non fossero nelle sue grazie, vale lo stesso discorso, anche se penso che nel loro caso un briciolo di obiettività sia doveroso; ma tant’è… Ammetterà però che si deve a Buscaroli la più completa, documentata, penetrante ( e magari anche ringhiosa e rissosa) ricostruzione dei retroscena storici, ideologici e teatrali del Fidelio e del suo contorno: ricostruzione fatta in tempi e condizioni non proprio favorevoli.
        Cordialmente.

        • Liberissimo di apprezzare o meno Bernstein. Ognuno ha i suoi gusti.
          Su Buscaroli però il discorso è diverso: il suo libro trasuda rabbia polemica gratuita e scarso approfondimento. È poco documentato e molto ideologico. Lui stesso dichiara di non basarsi sulle fonti degli ultimi 100 anni perche a suo dire malate di comunismo e omosessualità. Il suo Beethoven è un torvo reazionario integralista cattolico. Speculare al giacobino di altra parrocchia ideologica. Ti pare serio un lavoro con tali presupposti? A me pare un testo vergognoso. Peccato perche il suo Bach era ottimo.
          Su Isotta, mi spiace, ma non transigo: disonora se stesso e la sua professione. Merita solo insulti e disprezzo

  5. Aggiungo un’esperienza interessante: l’edizione di Fidelio (dischi Walhall) data alla Radio dell’Assia nel 1957.
    La direzione di Otto Matzerath è parecchio pesante e tendente al wagnerismo, ma in questa registrazione si può ascoltare il Florestan di Ernst Kozub, che alla prova delle orecchie è uno dei migliori!

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