Nella puntata di oggi mettiamo a confronto due cantanti, sudditi di Sua Maestà Britannica, le cui carriere presentano diversi punti di contatto. Sir Charles Santley (1834-1922), allievo di Garcia figlio e primo interprete londinese dell’Olandese volante nel 1870, fu esecutore di riferimento tanto nel repertorio mozartiano quanto in quello verdiano. Nel 1903, a carriera operistica terminata da oltre un ventennio (l’attività concertistica sarebbe durata ancora fino agli anni Dieci), il cantante incise, oltre a varie canzoni, l’aria che conclude il primo atto delle Nozze di Figaro. Sorprende, in un cantante prossimo ai settant’anni di età e che aveva già superato i quarantacinque di carriera, la freschezza timbrica e la duttilità del mezzo vocale, che la primordiale tecnica di registrazione riesce a captare in maniera sufficientemente chiara. Ascoltando il vegliardo Santley si ode una voce che letteralmente galleggia sul fiato e risuona con eguale posizione e pienezza tanto al centro quanto in alto, come dimostra l’arpeggio di do maggiore, che arriva sino al mi acuto, risolto con sbalorditiva facilità. Fedele alla “scuola antica”, il cantante non si sforza in alcun modo di scurire, rectius bitumare la voce nel registro medio, alla (vana) ricerca di maggiore corposità: ne conseguono una ideale flessibilità (che consente fra l’altro l’inserimento di misurati abbellimenti, come i gruppetti alla ripresa del tema “Non più andrai”) e soprattutto una dizione esemplare, che rende comprensibili tutte le parole (l’accento anglico si manifesta nella chiusura un poco troppo accentuata di talune vocali). Insomma Santley dimostra, al pari di Lucien Fugère o Hippolyte Belhomme o ancora di Pol Plançon, che il basso cantante di formazione ottocentesca è decisamente diverso da quello che ci hanno servito gli ultimi sessant’anni abbondanti di storia del teatro e soprattutto del disco (con sporadiche eccezioni tipo Samuel Ramey). E soprattutto marca una distanza incolmabile con Bryn Terfel, classe 1965 e quindi poco più che trentenne all’epoca dell’esecuzione considerata. Il cantante gallese, al pari di Santley fra i massimi esponenti dello star system della sua epoca, nonché titolato per meriti artistici (“Commander of the Most Excellent Order of the British Empire”), evidenzia fin dall’attacco un ispessimento grottesco e caricaturale del registro medio, che dà luogo ad acuti ora gridacchiati, ora afonoidi perché privi di appoggio. L’accento, che vorrebbe essere malizioso e sornione, risulta, applicato a una simile organizzazione vocale, esclusivamente pesante e volgare, mentre il canto scivola a più riprese (“Narcisetto, Adoncino d’amor”) in direzione del parlato. I risultati di una simile non-tecnica di canto, abbinati a una visione dei personaggi mozartiani filtrata, per essere generosi, dalle operette di Gilbert & Sullivan, li abbiamo sperimentati in anni più recenti in un Don Giovanni ambrosiano, in cui Terfel venne giustamente “pizzicato”, seppur da una parte minoritaria del pubblico. Qualche settimana fa la radio inglese ha trasmesso un egualmente periclitante dottor Dulcamara dal Covent Garden, a conferma del fatto che il c.d. fine dicitore si sposa, oggi come oggi, di norma al pessimo cantante. Ed è un vero peccato che di Santley non ci sia stata conservata almeno una pagina dell’Olandese, ché il confronto wagneriano sarebbe stato forse ancora più interessante ed istruttivo.
4 pensieri su “Ascolti comparati: “Non più andrai”. Charles Santley vs. Bryn Terfel.”
Lascia un commento
Devi essere connesso per pubblicare un commento.
Mi pare un giudizio partigiano. Tra voi molti non danno il giusto peso all’aspettativa estetica che si traduce ineffabilmente in ascoltare bellezze che a volte davvero non ci sono. Pure io preferisco S. a T. Ma non mi sento di sottoscrivere il giudizio di Tamburini. Nel canto di S. ci sono elementi che oggi lo farebbero giudicare scarsamente professionale. E anche il riferimento alla voce artificialmente scurita: a volte il confine (per le orecchie di oggi) è labile tra voce troppo naturale e voce non professionale. Non si può dimenticare questo, se si fa -come voi volete fare- critica militante.
Solfeggia bene S.? Sono così gridacchiati e afonoidi certi suoni di T. Non facciamo l’errore di ascoltare la voce di S. incisa nel 1903 credendo e volendo far credere che sia la sua voce del 1873.
Cosa dovrebbe ricavare uno studente di canto, un ascoltatore o una ascoltatrice alla ricerca di un criterio di giudizio (indispensabile, naturalmente)? Ricordiamoci sempre l’ “ogni ridevole cigolìo di quella gola incensata” (riferito a Mario da Boito). I cigolii vanno presi sul serio, altrimenti scricchiola tutta la teoria generale che si vorrebbe edificare. Buone vacanze (e chi non l’avesse mai fatto, si abboni a The Record Collector, da cui si impara sempre, se si ama la storia delle voci).
Tante parole in libertà, come sempre chez Grondona, svariati interrogativi retorici che poi retorici non sono, visto che chi li pone evita astutamente (?) di scendere nel dettaglio, precisare, circoscrivere ed esemplificare, ché sembra più importante apparire equanime, oserei dire veltroniano: Santley meglio di Terfel, ma Terfel non così censurabile e Santley poco professionale, forse meno di Terfel, che è troppo naturale per non essere non professionale – sempre se nel frattempo non ho perso di vista qualche litote. Che bella la critica militante, quella di Grondona ovviamente. Utile, soprattutto, anche se non è facile dire a che cosa o a chi.
Quoto. Non si capisce proprio nulla.
Mr T fa pure una stecchina cercando di cantare piano. Tutti i moderni li fanno. Forse vengono scambiati per il ‘singhiozzo’ alla Gigli. Hahaha…