L’incontro tra l’opera italiana e il teatro di D’Annunzio fu inevitabile e fallimentare. Se da una parte, infatti, il fascino esercitato dalla poesia del Vate non risparmiava il nuovo mondo musicale italiano, orfano del melodramma e ancora incapace di trovare un linguaggio proprio e una figura catalizzatrice e rappresentativa, dall’altra proprio l’ingombrante statura artistica di D’Annunzio – figura unica di intellettuale europeo e di simbiosi tra poesia e azione – impediva agli esponenti della giovane scuola, di usare quella libertà ed autorevolezza nel piegare la materia letteraria all’ispirazione musicale che, negli anni precedenti, aveva assicurato quel primato del compositore sul librettista, sia nella scelta di linguaggio che nelle esigenze teatrali. Certo i tempi erano mutati e dopo Wagner e la sua rivoluzione anche l’Italia – da sempre in ritardo patologico sui progressi in campo musicale, politico e artistico – non poteva prescindere dalla ricerca di nuovi linguaggi fondati su un diverso rapporto tra musica e testo. Il melodramma era morto, come era morto Verdi, e con loro la vecchia tradizione: con fatica la giovane scuola esplorava nuove vie confrontandosi e scontrandosi con una realtà europea più evoluta e attuale, e che da tempo ormai aveva marginalizzato l’opera italiana. Nella ricerca di queste nuove strade, dunque, non poteva mancare la rincorsa a D’Annunzio, credendo, forse, che il rinnovamento passasse attraverso il rapporto con fonti più elevate e valori poetici superiori: così Zandonai, Franchetti, Malipiero, Mascagni e Pizzetti si scontrarono col teatro d’annunziano (persino Puccini fu tentato, ma fallì ogni approccio per un’evidente idiosincrasia e ineliminabili differenze di vedute estetiche e personali). I risultati, tuttavia, furono deludenti – anche negli esiti più riusciti, come Francesca da Rimini – come se l’ispirazione musicale non potesse scorrere libera, come se il testo non riuscisse a coordinare la propria autonomia con la musica che avrebbe dovuto tradurne i valori. In effetti il teatro d’annunziano restava sostanzialmente autonomo: troppo elevato nei contenuti letterari, poco duttile a piegarsi alla pratica del melodramma, troppo complesso nei contenuti filosofici e nel virtuosismo lessicale (quanto più efficaci erano i modesti libretti dei Piave, Solera, Romani, e persino Illica e Giacosa, privi di velleità letterarie, ma perfetti nell’adattarsi al linguaggio musicale) e soprattutto portatore di una sua intrinseca musicalità in versi che già da soli suonavano in parole e frasi combinati tra loro come le note su un pentagramma. Senza contare la difficoltà, di quei più o meno giovani compositori (di estrazione e cultura modesta), nel rapportarsi ad un mito vivente, venerato e celebrato come era D’Annunzio: difficile per loro chiedere all’immaginifico poeta di piegare la sua vena o modificare i suoi costrutti di fronte alle terrene esigenze del discorso operistico. Non è un caso che l’esito più riuscito e durevole del rapporto tra teatro d’annunziano e musica colta, resti Le Martyre de Saint Sébastien, per cui Debussy – culturalmente ed esteticamente più affine a D’Annunzio di tutta la tradizione operistica italiana – compose le musiche di scena: genere ontologicamente diverso dall’opera e in cui i valori poetici del testo mantengono autonomia e identità, così come l’apparato musicale, guardandosi alla pari e contribuendo ciascuno nel limite del proprio differente linguaggio alla complessa costruzione teatrale.
Il soggetto di Parisina venne proposto da D’Annunzio in occasione di un incontro con Puccini: nel 1906 l’editore Ricordi voleva concretizzare la collaborazione tra il migliore cavallo della sua scuderia e il massimo esponente della cultura italiana ed organizzò un incontro tra i due. Tuttavia i due mondi erano troppo distanti: l’estetica del quotidiano e la modestia piccolo borghese del maestro di Lucca non poteva incontrarsi con “un poema in cui la vita e il sogno s’intrecciassero misteriosamente come nell’anima dell’uomo”, e il progetto non si realizzò. D’Annunzio lamentò con Ricordi lo sbigottimento di Puccini di fronte ad uno sforzo superiore alle sue capacità e constatò un’inconciliabilità di linguaggio. Ma Parisina e il progetto di una grande opera lirica rimase ancora nella mente di D’Annunzio così nel 1911, a Parigi, firmò un contratto con Sonzogno (rivale di Ricordi e portavoce della nuova musica europea), per realizzare il suo poema musicale. All’inizio si pensò d’affidarlo a Debussy, ma durante la stesura ne emerse un’intrinseca “italianità” così che l’editore propose al poeta un compositore italiano. La scelta cadde su Mascagni, musicista già affermato e riuscito a “sopravvivere” allo sfolgorante successo della sua Cavalleria rusticana, senza rimanere ad essa e al suo stile imbrigliato. Allora Mascagni era il compositore dell’Amico Fritz, I Rantzau, Guglielmo Ratcliff (molto ammirata all’epoca), Iris col suo esotismo decadente ed Isabeau. L’attrazione verso D’Annunzio sembrava scontata e il musicista accolse volentieri l’invito e non senza un timore reverenziale, così come il poeta trovò immediata intesa con Mascagni. Il compositore si trasferì vicino a Parigi per poter star vicino a D’Annunzio e sottoporgli i progressi del lavoro. Il Vate ne rimase entusiasta e collaborò volentieri, accettando persino tagli e sfoltimenti al lungo libretto (ma è riduttivo chiamarlo così). Lo sforzo compositivo fu immenso, ma – racconta Mascagni – l’ispirazione fu continua e la vena musicale facile e immediata. L’opera aveva grandi proporzioni: dei 1.400 versi componenti la tragedia, solo 330 vennero sacrificati, così che la durata sfiorasse le 3 ore e mezza. L’opera venne ultimata alla fine del 1912 e il compositore, tornato in Italia, si accinse all’orchestrazione. Il linguaggio è innovativo e la forma liberissima: Mascagni prosegue nello sforzo di intendere l’opera senza numeri chiusi, attraverso lo scorrere continuo della melodia attraverso richiami tematici (di ispirazione wagneriana naturalmente) e generosi squarci lirici nella più tradizionale cantabilità italiana. La strumentazione è particolarmente raffinata ed elaborata attraverso impasti timbrici inusuali, ritmiche irregolari e cromatismi che riportano al clima del decadentismo europeo (a smentire ulteriormente chi liquida Mascagni come un musicista di terz’ordine, magari ricorrendo ai soliti giudizi di Verdi che abitualmente disprezzava tutto ciò che non riusciva a capire dispensando allegramente patenti di incapacità – persino Wagner ne fu vittima – e sparate pseudo filosofiche insensate come l’idiozia del “torniamo all’antico e sarà progresso”).
Parisina, tragedia lirica in quattro atti, andò in scena la sera del 15 dicembre 1913, alla Scala di Milano, con lo stesso Mascagni sul podio e un cast che comprendeva Tina Poli Randaccio, Hipolito Lazaro, Luisa Garibaldi e Carlo Galeffi. Fu un trionfo nonostante l’estenuante lunghezza dello spettacolo (il sipario si alzò alle 20.30 e si chiuse definitivamente all’1.40): presenti in sala Puccini, Giordano, Montemezzi, Alfano, Zandonai, Franchetti oltre al meglio della cultura milanese dell’epoca e un folto gruppo di corrispondenti di giornali italiani e stranieri. L’eccessiva durata dell’opera, tuttavia, fu ritenuta un pericolo per la sua diffusione e fin dalla seconda sera Mascagni riprese lo spartito per drastici ridimensionamenti (autorizzati a malincuore anche da D’Annunzio raggiunto telegraficamente a Parigi): venne eliminato il quarto atto e sensibilmente alleggeriti gli altri tre (furono eliminati dialoghi, elementi corali – tutta la sequenza dei canti sacri nel secondo atto venne fortemente ridotta – e intermezzi sinfonici). In questa nuova veste Parisina arrivò a Livorno nei primi mesi del 1914 per proseguire verso Roma (dove il pubblico rimase più freddo e diffidente). Alla fine dello stesso anno venne portata in tour in Sud America e poi incisa in forma di selezione. Poi la guerra e la chiusura dei grandi teatri compromise forse definitivamente la circolazione dell’opera (che comunque richiedeva un ingente sforzo produttivo e l’impegno di grandi masse artistiche, nonché di un pubblico non più disposto a profondere tanta attenzione in una serata d’opera. Parisina di fatto sparì, salvo una sporadica ricomparsa romana nel ’21 (dopo il grande successo del Piccolo Marat), sino al 1938 quando all’indomani della scomparsa di D’Annunzio l’EIAR la inserì nella sua stagione lirica, invitando il compositore a dirigerne la versione in quattro atti (se pur opportunamente riveduta e corretta per contenerne la durata). Poi di nuovo il nulla sino al 1952 quando Gavazzeni la riprese a Livorno in una sua versione che mirava a ripristinare la struttura originale. Parisina non entrò mai in repertorio, sia per l’oggettiva difficoltà dell’opera sia per la cattiva fama che dal secondo dopoguerra in poi cadde su Mascagni divenuto archetipo di musica volgare e facile oltre che bersaglio polemico di certa critica che non perdonava all’autore l’impianto tradizionale (anche se molto vi sarebbe da dire in merito), il successo popolare e, naturalmente, l’adesione al fascismo. Parisina tuttavia, lentamente riemerse e nel 1976 la RAI di Milano curò un’esecuzione della prima versione integrale a cui seguì nel 1978 una nuova esecuzione in forma scenica a Roma curata da Gavazzeni, grande sostenitore dell’opera, in una versione ridotta e accorciata di circa un’ora pur mantenendo la scansione in quattro atti. Recentemente l’opera è stata eseguita in Francia (più attenti di noi nel recuperare il nostro passato musicale, senza inutili snobismi e paranoie radical chic), ma adottando inspiegabilmente la vecchia versione in tre atti ulteriormente ridotta.
Parisina ancora attende una giusta rivalutazione che deve avvenire nel rispetto rigoroso dell’integralità e della struttura originaria, per non tradire il complesso lavoro di poeta e musicista che, seppur imperfetto e sostanzialmente inconciliabile, resta affascinante testimonianza di una grande stagione della cultura nazionale. Parisina potrebbe essere il frutto più maturo dell’esperienza musicale di D’Annunzio e occasione di ragionamento verso un musicista troppo maltrattato da ingiusti pregiudizi e stupide prese di distanza.
Gli ascolti:
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Con cast e direttore adeguati, mi accontenterei anche di un’incisione in tegrale in studio. E’ un ‘opera stupenda…….senza dubbio il capolavoro di Mascagni e uno dei vertici del novecento italiano.
“…l’Italia – da sempre in ritardo patologico sui progressi in campo musicale, politico e artistico…”
Non sono affatto d’accordo su quel che concerne l’aspetto musicale e tantomeno quello artistico. E le ragioni mi sembrano ovvie… Citare nomi, fatti storici e movimenti culturali in tal senso mi pare banale…
Siamo troppo spesso portati ad ingigantire i miti germanici da Schubert a Brahms, per non parlare di Wagner (tralascio Bach, non perché lo consideri il più grande genio musicale dell’occidente, ma perchè la sua storia è un caso a parte). Nessuno mette in discussione la loro grandezza. Ma guai quando la loro grandezza mette in ombra quella degli italiani. Caro Duprez, l’essere compositori teorici ed idealisti, per quanto geniali e grandi (come tutti i tedeschi dal XIX sec.) non è una caratteristica che li pone al di sopra degli altri, così come l’agile pragmatismo e la brillante praticità di un Rossini, di un Paisiello o di un Vivaldi NON li pone in una posizione di inferiorità.
Smettiamola di sputare addosso alla nostra cultura… Sarà un discorso nazionalista, un discorso di vago sapore renziano. Interpretate come volete…. Ma parlare di un eterno ritardo patologico dell’Italia in ambito musicale e storico beh… scusami ma mi pare un po’ troppo.
Purtroppo, aldilà di miti e passioni, l’Italia ottocentesca è sempre rimasta in ultima fila rispetto al progresso artistico, politico e musicale. E’ un dato di fatto, ad esempio, che l’Italia fu l’ultimo paese in cui si sviluppò l’autonomia del direttore d’orchestra, come fu l’ultimo paese in cui si conobbero le sinfonie di Beethoven (taccio di Mahler che dovette attendere gli anni ’70/80 del secolo XX per essere eseguito integralmente nel sedicente massimo teatro italiano). Gli stessi Donizetti, Bellini, Rossini e Verdi dovettero emigrare in Francia per poter liberamente esprimere il loro genio senza le costrizioni di tradizione e censure (idiote nella stessa maniera): proprio a Parigi poterono presentare i lavori più elaborati. Ricordo che ancora nel 1860 in Italia si componevano opere buffe sulla falsariga rossiniana con recitativi al cembalo…mentre nel resto del mondo si ascoltava Tristan und Isolde! Ma ancora sul finire del secolo Verdi non riusciva a emanciparsi completamente dalle strette delle convenzioni melodrammatiche, dalle cabalette e dalle svenevolezze delle primedonne (che pur detestava, basti leggere il carteggio relativo alla genesi di Falstaff)… La giovane scuola cercava nuovi linguaggi, ma l’ambiente conservatore e legato a linguaggi tradizionali cercava il nuovo Verdi, non nuove strade. L’Italia musicale del secondo ‘800 divenne simulacro di conservazione: si viveva sugli allori di un passato splendente. Lo stesso Rossini veniva definito “tedeschino” (con malcelato fastidio e ironia) solo perché cercava un discorso orchestrale un po’ più elaborato del mero accompagnamento a ghirigori canori…e mica scriveva come Haydn o Beethoven! Poi bisogna anche ammetterlo: mentre Mercadante passava per maestro di contrappunto, il resto del mondo conosceva Schubert o Mendelssohn o Schumann… Poi – ripeto – ognuno può preferire Tosti e Pacini a Schubert e Brahms. Ma che la realtà musicale italiana fosse arretrato e in ritardo cronico rispetto alle coeve esperienze europee mi sembra oggettivo: tutto è in ritardo, dal classicismo al romanticismo, sino all’espressionismo e alla nuova musica…in una tendenza imitatrice dell’ultimo arrivato. Non solo la musica ha sofferto tale arretratezza: prendiamo la letteratura. L’ultimo autore che lascia un segno d’importanza europea (e influenza un certo sentire comune) è Manzoni, poi si assiste al trionfo del provincialismo dalla retorica di un Carducci (che ancora a fine ‘800 celebra re e regine con metriche d’accademia) al paternalismo piccolo borghese di Pascoli sino al localismo di Verga… Solo con D’Annunzio la cultura italiana si sprovincializza e torna ad esistere nella cultura europea. Poi se vogliamo giocare al nazionalismo o al protezionismo o ai miti strapaesani, beh..possiamo immaginare o fingere un’illusoria età dell’oro: ancora negli anni ’50 qualcuno considerava il Don Giovanni una curiosità di certo inferiore alle farse napoletane di Paisiello o ci si lambiccava il cervello nel frugare archivi per “scoprire” da quali ignoti compositori italiani avesse copiato Beethoven (e ci fu chi, nel belpaese, giurava che Clementi fosse certamente superiore al genio
di Bonn). E nelle scuole superiori a Goethe, Shakespeare o Dostoevskij si dedica meno spazio di Boito o Primo Levi!!! Che poi non si possano confondere linguagggi diversi è ovvio. Tanto più, dunque, si dovrebbe rivalutare la stagione della giovane scuole come sforzo collettivo nel superare il ritardo culturale e l’isolamento provinciale in cui l’Italia del melodramma si era condannata.
Concordo, la frase mi era sembrato includesse anche epoche come il 500, il 600 e il 700 in cui l’Italia era davvero la regina d’Europa. Per quel che riguarda la letteratura, sei stato in effetti fin troppo clemente, caro Duprez!
Detto ciò, io non sarei però cosi critico verso delle evoluzioni musicali talvolta troppo diverse da essere confrontate. Mi pare inutile confrontare Mercadante a Schubert, Rossini a Wagner, in quanto esito di profondissime diversità culturali, storiche e sociali che da un lato certo hanno portato la Germania ad essere la patria della direzione orchestrale in senso moderno ma hanno anche portato la stessa Germania ad essere in un certo senso, la patria della decadenza del Canto. Non me ne vogliano i wagneriani qui presenti…
Certamente: non si possono confrontare storie diverse e linguaggi sviluppati da culture differenti. Parlo solo di un ritardo rispetto alle contemporanee istanze europee, nel senso che – soprattutto in campo musicale – l’Italia dell’800 ha sempre guardato indietro cercando nella tradizione conforto e sostegno e diffidando dall’abbandono o dal superamento di certe convenzioni.
Mannaggia, avrò scritto in maniera un po’ veemente, ma addirittura censurare chi ha solo scritto, argomentando, un parere, forse è un tantino eccessivo.
Non ho letto il tuo commento (e non ne trovo traccia nel sito) riscrivilo pure.
Dicevo che ho letto con sorpresa quest’analisi sulla cultura italiana del XIX secolo che mi sembra abbastanza ingenerosa e sommaria. Parlare di Donizetti, Bellini, Rossini e Verdi come dei “cervelli in fuga” in cerca di un luogo dove potersi esprimere non lo ritengo affatto corretto. Tutte le loro crezioni, comprese le peculiarità più geniali e innovative sono irrimediabilmente legate all’ambiente e alla cultura italiana. Tra l’altro basti pensare a Verdi, che, seppure ebbe strette le convenzioni del melodramma italiano , di sicuro non si può affermare che gli orpelli e i balletti imposti dall’avanzatissima cultura parigina gli abbiano dato modo di comporre secondo la sua ispirazione più autentica. C’è inoltre da dire che la censura ad alcune opere dei suddetti era sentenziata spesso e volentieri (se non sempre) da chi regnava anche in paesi che secondo la tua teoria erano più avanzati. (tipo i Borbone o gli Asburgo). Se davvero, poi, fu malcelato il fastidio con cui Rossini veniva apostrofato “tedeschino”, altrettanto malcelato fu anche l’entusiasmo con cui veniva, spesso e volentieri, accolto in teatro.
Non mi reputo affatto un nazionalista, ma evitare di citare il già ricordato Leopardi, piuttosto che un Foscolo per sostenere la provincialiazzazione della cultura italiana è quasi imperdonabile, dato che, pur non potendo parlare di “età dell’oro” non si giustifica nemmeno un assunto così semplicista ( e, ultimamente fin troppo abusato) di un’Italia patologicamente arretrata.
qui mi differenzio molto da duprez. non ritengo affatto che l’italia fosse arretrata era semplicemente l’italia ed era differente da altri paesi per quello che era il suo vissuto precedente e le condizioni del momento. In base a quale principio Wagner sarebbe superiore a verdi non lo ho mai capito per il semplice motivo che si occupano di due generi davvero opposti, diverso il fondamento culturale, diverso lo scopo che si ponevano ( a parte quello comune di essere i primi della classe e di fare un sacco di soldi, ben più onestamente guadagnati da verdi che non da wagner). Quindi non ha senso parlare di arretratezza. Con riferimento al piccolo hortus dell’opera che questa sia la via corretta me lo insegna proprio il direttore che portò per primo in italia il ciclo completo delle sinfonie di Beethoven ossia luigi mancinelli se da un lato infatti portò (finalmente si può dire!) a conoscenza degli italiani qualche cosa che non poteva non essere divulgato dall’altro diresse con lo spirito di un Giuseppe festa o di un luigi Arditi le opere italiane come documentano i cilindri mapleson. Tutto qui perdonate se sono semplicista e di facile contentatura, ma non vedo arte sublime, manifestazione del divino nel rosen e guitteria in francesca da rimini.
Mon è questo il punto, né ho mai inteso paragonare Wagner a Verdi e attribuire superiorità dell’uno rispetto all’altro. Dato che ogni cosa va storicizzata e va rapportata ad un complesso di circostanze che abbracciano realtà esterne (illusoria è ogni autarchia di genere, di cultura e di presunta purezza), allora non si può non vedere che l’Italia si è accodata a istanze di rinnovamento già altrove sviluppate: non è un affronto dire che fino alla giovane scuola l’Italia musicale non è riuscita ad emanciparsi dal modello rossiniano nell’opera buffa (ancora negli anni ’60 dell’800 si componevano opere con recitativi al cembalo!) e da Verdi nel melodramma (non è un caso che si cercasse un “nuovo Verdi”, non un nuovo tipo di opera). E questo è solo un esempio: ovviamente questo sguardo al passato non fu una scelta “di retroguardia” (come direbbe un noto solone che si occupa di critica musicale), ma del portato naturale di sviluppi culturali e politici differenti e quindi l?italia non ha mai sviluppato un interesse sinfonico decente perchè aveva nell’industria e nell’artigianato del melodramma un suo settore prevalente. La Francia o l’Austria davano invece maggiori possibilità espressive al compositore (non lo dico certo io, ma – tra gli altri – il Budden e con lui molti studiosi dell’opera italiana), e non è solo un problema di censura (che in Italia però raggiungeva vertici impensabili), ma di possibilità ad esempio di poter contare su orchestre migliori che consentissero scritture più elaborate. Poi non si può certo imputare a Rossini di non saper usare la forma sonata… Però neppure si cada nell’eccesso contrario, ossia mettere sullo stesso piano Arditti e Schubert, Strauss e Ponchielli…perché diversità ce ne sono eccome…e non perché gli uni tedeschi e gli altri italiani, ma per oggettiva importanza e valore. Del resto credo che nessuno qui si scandalizzerebbe se scrivessi che Rossini fu certamente compositore più importante di Ferdinand Ries, così come non dovrebbe suscitar scandalo leggere che Strauss è certo più importante di Zandonai.
Non capisco poi per quale ragione i soldi guadagnati da Verdi sarebbero più onesti di quelli guadagnati da Wagner, atteso che nessuno dei due ha mai rubato (quanto all’avidità credo che entrambi giocassero alla pari solo che uno amava il lusso e l’altro si fingeva un umile contadino)
Scusate se il mio commento arriva fuori tempo massimo, in ogni caso ho letto solo ora delle affermazioni troppo improprie per passare sotto silenzio. Caro Duprez, tacciare Carducci di retorica è critica che risale agli anni ’60 e direi che è ormai un po’ superata: c’è retorica, ma c’è anche tanto altro.
Comunque, passi la retorica per Carducci, ma parlare di paternalismo piccolo borghese per Pascoli e localismo per Verga, no. Sono giudizi senza senso, semplicemente. Verga parla della Sicilia, certo, ma così come Dostoevskij o Tolstoj parlano della Russia: non c’è nulla di provinciale, dacché i contenuti sono straordinari, le descrizioni potentissime, lo stile forte, efficace, perfetto direi. Considerazioni dello stesso tipo potrei fare per Pascoli.
Non pretendo che tu cambi opinione, ma ti dico – senza presunzione, credimi – che il tuo giudizio è sbagliato.
illustre d’Erminia padre
d’accordissimo, ma per dire che Carducci non è stantio andrebbe letto con occhi diversi da quelli correnti che ne fanno il mazziniano maremmano convertito a casa savoia (che lo era anche, ma non solo) e poi anche nelle pagine più criticate è l’immagine fedele della cultura italiana post unitaria. Non piace, pazienza, ma testimonia. E come tale va letto
E io senza presunzione potrei dirti che è il tuo giudizio ad essere sbagliato…ma tant’è. Quanto a Carducci, Pascoli o Verga il mio non è certo un giudizio di valore (anche se personalmente trovo il primo quasi sempre insopportabile come poeta), ma di capacità di parlare oltre i confini patrii. Parlo di un localismo consapevole, un restare ai margini del resto della letteratura europea. E non per demerito o incapacità (sarebbe idiota dirlo). A D’Annunzio si deve la rottura dell’isolamento – seppur splendido per certi versi – della letteratura nazionale verso prospettive europee ricollocando l’Italia nelle correnti artistiche internazionale e superando il manzonismo e l’antimanzonismo. Poi che piaccia Carducci o meno, francamente non è un problema. Non parlo neppure di valore di testimonianza che prescinde, quello, da ragionamenti di cultura letteraria in genere (valore di testimonianza d’un epoca o di un ambiente pur ristretto è anche la Scapigliatura – anche se i risultati furono pochi e poco influenti…e lo sarà, per assurdo, anche porcate come “Cinquanta sfumature di grigio”, purtroppo). Dire che Carducci è l’immagine della cultura post unitaria (non di tutta, ma di una parte) è scontato, ma non è questo il punto: Leopardi, Beccaria, Vico parlavano anche fuori dall’Italia, francamente Carducci e Pascoli no, o comunque in modo assai minore…
Caro Duprez, credo tu sappia meglio di me che le parole sono importanti. Tu attribuisci al primo Verdi l’aggettivo “rozzo” e davanti alle obiezioni precisi che per te dare del “rozzo” non è denigrante: non è così, perché “rozzo” porta con sé un evidente giudizio negativo; un musicista “rozzo” non è un grande artista, ma un cialtrone che non sa scrivere correttamente. Se ad essere “non rifinito” – come interpreti tu la parola “rozzo” – fosse stato un musicista tedesco, avresti comunque usato lo stesso termine, o piuttosto avresti detto “di grande semplicità”? Stesso discorso vale per il “provinciale” Verga: l’aggettivo che usi non significa affatto “poco conosciuto oltre i confini nazionali”, ma esprime decisamente l’idea che l’autore non abbia prodotto nulla di rilevante se non per quei quattro bifolchi che leggendolo riconoscono descritta la loro terra.
Che all’estero leggessero o meno Verga, ciò non significa che Verga non avesse (ed abbia) da dire; tanto per fare un esempio, il celebre scrittore inglese (non italiano, né tanto meno siciliano) D.H. Lawrence si esprime in questi termini:
“Verga è uno dei massimi maestri dei racconto. Nel volume Novelle rusticane e in quello intitolato Cavalleria rusticana ci sono alcune delle novelle migliori che siano mai state scritte. Alcune sono brevi e pungenti come quelle di Cechov. A me sembrano anche migliori.”
Circa Carducci, lungi dal considerare premi ed onoreficenze indice di qualità, tutttavia aver vinto il Nobel – ed in anni in cui era certamente meno inflazionato di adesso – mi sembra già un efficace prova di interesse internazionale.
Non ti tedierò anche con la difesa Pascoli – non foss’altro perché difendere uno dei sommi poeti di tutti i tempi mi riempie di tristezza -, mi limito a constatare che la nostra crisi ha radice profonde.
Certo, le parole sono importanti…e per questo ribadisco che non è una bestemmia dire che il primo Verdi era “rozzo”, semplicemente perché lo era: senza giudizi di valore assoluto. E lo era perché il tipo di formazione ricevuta era stata lacunosa (non lo dico solo io, ma anche il Budden – che di Verdi è il massimo studioso – e pure il Rovani che di Verdi diceva che “si sente sempre la vanga”). E proprio perché le parole sono importanti si deve differenziare “rozzo” da “semplice”: sono cose differenti. Ma in nessun caso si esprime un giudizio morale (migliore e peggiore).
Continuo: che Verga abbia moltissimo da dire è un’ovvietà. Certamente è un grandissimo scrittore, ma ciò non toglie che si sia autoisolato in un particolare localismo. Con questo non esprimo un valore sullo scrittore, ma sul grado di reale influenza in ambito letterario. Su Carducci e Pascoli ognuno avrà pure le sue idee.
Finalmente è arrivata anche “Parisina”! Ottima cosa. Solo ad ascoltarne il folgorante incipit viene a cadere la “leggenda nera” del Mascagni musicista facilone di second’ordine rimasto per tutta la vita poco più del maestro della banda di Cerignola. Altro che musicista facilone! Anche se non sono livornese mi viene voglia di gridare un bel “Viva Mascagni”.
Ed anche in relazione a Parisina si può giudicare l’importanza nella cultura musicale italiana del dopoguerra di un musicista come Gianandrea Gavazzeni, spesso ricordato solo come un “tagliator cortese” di spartiti, ma a cui dobbiamo riscoperte di opere che rischiavano di essere solo dei nomi, oltre che riproposizioni di titoli teoricamente importantissimi ma che non venivano in pratica mai eseguiti. Non solo i leggendari “Ugonotti” scaligeri, ma le varie edizioni di “Fedora”, la prima italiana del “Convitato di pietra” di Dargomisky, le esecuzioni di Cherubini, Mussorskji, Donizetti, Haendel (!), oltre che di Mascagni e le prime di tante opere di Pizzetti.
Complimenti per l’articolo estremamente interessante Finalmente siamo giunti a Parisina, che attendevo con impazienza! Ho intenzione di ascoltare l’opera entro la prossima settimana; l’ho già scaricata tempo fa, ma ho atteso per leggere prima il testo del Vate.
Non concordo sul giudizio negativo sulla musica italiana dell’800-900 che non trovo sia corretto giudicare come arretrata, bensì, semplicemente, aveva stilemi e caratteristiche proprie non qualitativamente inferiori solo perché nostrana. Ciò indipendentemente dal fatto che è in quell’epoca forse che inizia a imporsi un’ideologia che ci vuole per forza inferiori, arretrati e “antichi” rispetto agli altri paesi. Forse l’aver sacrificato le caratteristiche proprie della nostra tradizione (non peggiore di altre) per imitare o seguire le orme di autori epigoni di tradizioni molto differenti dalla nostra non ha fatto che peggiorare la situazione, già di per sè aggravata dai pesanti giudizi di superiorità da parte di tedeschi, francesi,… Forse mi sbaglio, ma questo in sintesi il mio pensiero.
Mi trovo perfettamente concorde, invece, sulla sublime altezza della poetica d’annunziana, probabilmente il più grande autore di teatro che l’Italia abbia mai avuto insieme all’Alfieri, e uno dei più grandi in assoluto in fatto di tragedie. Proprio in questo periodo sto leggendo con avidità, ammirazione e, in ultimo, soddisfazione, la produzione teatrale di D’Annunzio nella curatissima edizione in due tomi dei Meridiani. Non mi vergogno di ammettere che non conoscevo questi testi se non per i titoli (almeno i più celebri) spesso nominati al liceo, e trovo sia molto triste che ad essi non venga dedicato più spazio data la loro importanza in senso assoluto, oltre che all’interno della parabola artistica di D’Annunzio medesimo. Purtroppo un autore così importante, così a passo con la sua epoca, così influente, così internazionale (forse l’unico letterato italiano davvero internazionale dopo il ‘700) è spesso trattato come non meriterebbe (parlo almeno per quanto sento dalle esprienze dei coetanei, che lo conoscono male e che mi raccontano di come l’hanno studiato al liceo). D’Annunzio, insomma,non gode di ottima fama, a differenza di altri autori, che forse andrebbero ridimensionati.
Un ultimo pensiero va a Mascagni, spesso criticatissimo e mal conosciuto, che andrebbe giudicato con maggiore serietà e competenza dagli esperti. Io col tempo ho intenzione di ascoltare le sue opere principali dopo la folgorazione di Iris, opera che ho scoperto grazie al Corriere e mi ha fatto nascere una grande curiosità per questo repertorio oggi così vilipeso.
Una domanda: l’edizione Rai del 74 di cui sono postati gli ascolti in che cosa è tagliata?
Putroppo l´edizione RAI Milano 1976 ha circa una ventina di minuti di tagli. Tra l´altro la metà del duetto Stella dall´Assasino-Ugo d´Este dell´atto primo, una sezione del Voto di Parisina al secondo, (ci si puo trovare su YT una bellissima lettura completa di questa pagina, Denia Mazzola interprete), la metà della Battaglia, il postludio dell´atto secondo, la metà del canto dell´Usignolo, ( atto Terzo), una sezione completa dal duetto Parisina Malatesta-Ugo d´esta (atto quarto) e l´ultima parte della scena di Stella dall´Assasino.
Grazie delle informazione. Noto che Parisina ha molti estimatori. Davvero sarebbe ora di una seria riproposta. Confesso che due sono le opere che vorrei venissero davvero “riscoperte”: una è Parisina (in versione integrale) e l’atra “I Goti” di Gobatti.
Non conoscevo Gobatti.
Grazie della “soffiata”.
E’ un autore che mi incuriosisce moltissimo (visti i clamori che aveva suscitato la sua opera). Spero che prima o poi qualcuno inciderà o metterà in scena “I Goti”
Ah, l’Iris è la mia opera preferita.
Ti consiglio di ascoltare Isabeau, Parisina, Guglielmo di Ratcliff, Il piccolo Marat e Zanetto.
Scusa, Ninia, cosa intendi per “internazionale”? D’Annunzio è stato l’unico letterato italiano dopo il ‘700 ad avere risonanza internazionale? Mi sembra un po’ forte. Giacomo Leopardi non soltanto era il poeta e il prosatore che era, un genio assoluto paragonabile solo a Goethe o a Hölderlin, ma era anche in anticipo sui propri tempi, vicino a Schopenhauer e da lui appezzato in tempi di idealismo imperversante. Era anche molto conosciuto in Europa, tanto che gli fu offerta una cattedra di filologia a Bonn. Questo per la verità. Ciao
Marco Ninci
Caro Marco, intendevo nel senso di rinomato, conosciuto (spesso dunque ciò implica influente e apprezzato) all’estero. Questo non per sminuire minimamente Leopardi, che aveva certamente conoscenti e ammiratori stranieri, ma che, forse, per la prematura dipartita non ebbe modo di imporsi sulla ribalta europea come avevano fatto un Marino, un Metastasio, un Goldoni o un D’Annunzio solo per citarne due o tre.
Beh insomma, Leopardi fu una figura di primaria influenza nella cultura europea (per tutto l’800 e non solo), basta pensare a quanto scrive Nietzsche e a come ricorra nel pensiero del filosofo tedesco.
A mio parere l’opera è tra le maggiori del ‘900, italiano e no. Tra tutti i titoli della “musica proibita” quello più significativo, il più grande. Difficilissima di esecuzione e poco agevole di ascolto. Opera colta, splendida, diffcile, di respiro europeo, per niente nazional-popolare. Cesare Orselli ebbe un’intuizione acutissima: la prima e la più bella opera della Generazione dell’Ottanta ( mica male per l’inventore del Verismo ). Naturalmente il centenario della prima di Parisina è stato in patria bellamente ignorato e solo i francesi l’hanno qualche anno fa resuscitata ( sebbene in versione decurtata ). A volte il sospetto che siamo un popolo di pirla prende sconsolatamente il sopravvento.
che siamo un popolo di pirla ,è più di un sospetto,basta a vedere come siamo ridotti da che ci comanda ..
La Mia Parisina registrata dalla Rai nel 1976 diretta da Pierluigi Urbini a Milano ha come interpreti Emma Renzi, Mirella Parutto,Mirna Pecile,
Benito di Bella, Ferruccio Mazzoli,e Mirella Fiorentini….tra l’altro dirige il coro il famoso Mino Bordignon. gli atti sono : I° 51,15 -II° 63,20 -III° 54,10 – IV° 24,30. E’ Completa ?
Non possiedo la partitura integrale, ma dovrebbe essere completa
Lo spartito che si trova su IMSLP è già tagliato alla fonte?
http://imslp.org/wiki/Parisina_%28Mascagni,_Pietro%29
Delle 3 registrazioni in circolazione quella Rai è senz’altro la più completa. Ci sono tagli interni un po’ in tutti gli atti, non devastanti ma che meriterebbero di essere riaperti.
Grazie, in effetti da quanto riferisce Mascagni (ossia che l’opera durasse 3 ore e 40) e la durata dell’edizione RAI (3 ore e 10) ci sono una trentina di minuti mancanti e anche se si considera il passo lento del compositore credo che almeno una ventina di minuti di tagli sia presente. Sarebbe ora che l’opera venisse riscoperta con serietà e completezza (ma siamo davvero un popolo di pirla e lasciamo che siano francesi o tedeschi a riscoprire il nostro patrimonio musicale). Credo che se tra le tante e inutili riscoperte di operine dimenticabilissime del ‘700 o dell’800 (pur spacciate per capolavori, ma spesso musicalmente insulse) forse una Parisina meriterebbe attenzione, ma bisognerebbe cominciare a ritenere Mascagni un compositore e non un imbecille (come lo giudicava Verdi) o un “porco fascista”.
Non nascondo che una esecuzione completa di Parisina, fatta come Dio comanda è uno dei miei sogni proibiti.
Sarebbe anche un mio sogno!