Trovandomi a New York nel corso del passato mese di ottobre, non ho mancato l’occasione di assistere ad uno spettacolo del Met. Sarà pure provincialismo, ma non posso negare una certa emozione nell’entrare per la prima volta in un teatro che appartiene al mito di ogni appassionato di musica e di opera (anche l’edificio non è più quello dove si sono esibite le più grandi glorie del passato). Emozione che ha di gran lunga prevalso sull’esito della serata. Il programma prevedeva uno degli spettacoli più attesi della stagione: Macbeth di Giuseppe Verdi, diretto da Fabio Luisi con Anna Netrebko e Zeljko Lucic nei ruoli principali, René Pape (Banco) e Joseph Calleja (Macduff). Pur essendo una ripresa – la produzione risale al 2007 – la presenza della Netrebko ha catalizzato l’aspettativa e la curiosità del pubblico, tanto da riempire la sala (che consta di quasi 4.000 posti) e rendere più difficile il reperimento di biglietti. Prima di dar conto dello spettacolo voglio soffermarmi su alcuni aspetti organizzativi che ogni volta mi capita di frequentare teatri stranieri, danno la sensazione di trovarsi in un luogo di alta civiltà e rispetto per il pubblico, soprattutto se paragonati alle assurde paturnie da nobiltà decaduta e schizzinosa che si respira nei teatri del cosiddetto Belpaese: basterebbe la mancata suddivisione classista del pubblico, lasciato libero di circolare nell’intera sala a prescindere dal costo del biglietto acquistato (e quindi non vedersi costretto ad entrare da ingressi laterali, inerpicarsi su scale di servizio, restare rinchiuso in riserve per pubblico di serie B durante l’intervallo) per rendersi conto di trovarsi in un altro mondo. Anche il reperimento del biglietto avviene con semplicità e cortesia senza dover ricorrere all’intercessione di santi in paradiso, agenzie, mezzani di varia natura ed estrazione, capò che gestiscono code e appelli. Colpisce anche la cortesia e la disponibilità del personale al botteghino che – senza per questo applicare gabelle di prevendita – è ben contento di suggerire posti e proporre soluzioni soprattutto a chi non è mai stato al Met. Assaporata l’emozione di ritrovarsi al Lincoln Center, constatata l’alta civiltà della gestione del teatro, ammirati i magnifici cristalli dei lampadari, l’eleganza degli interni, la bellezza delle architetture e i nomi dei grandi che si sono esibiti è già tempo di assistere al Macbeth. La produzione – dicevo – è del 2007: Adrian Noble ambienta la vicenda nel ‘900 (nel periodo del secondo conflitto mondiale), in una suggestiva foresta di alberi spettrali che incorniciano un cielo corrusco e notturno. I tronchi mobili suggeriscono ambienti e stanze più raccolte, in modo da permettere il mantenimento di una scena fissa su cui mutano solo gli elementi portati sul palco (letto, sedie, tavoli, furgoni militari…): non mancano certi effetti suggestivi: la neve che scende durante il coro “Patria oppressa” e il sole che spunta nel cielo livido e invernale, tuttavia il regista non risolve il problema delle streghe. In un’ambientazione volutamente realistica e connotata storicamente in chiave moderna, è molto difficile inserire l’elemento sovrannaturale: Noble trasforma dunque le streghe in signore con borsetta che si muovono a ritmo della musica (suscitando spesso l’ilarità del pubblico, anche laddove, essa appare decisamente fuori luogo). Così pure gli “ambienti interni” derivati dal movimento degli alberi appaiono poco efficaci e assai sgradevoli. Nel complesso, tuttavia, lo spettacolo scorre senza troppi problemi e non provoca il disgusto a cui l’Eurotrash ci ha abituato. Più discutibile l’esecuzione musicale, a cominciare da Luisi che non riesce a cavare molto dall’orchestra (spesso persa per la strada peraltro)…eppure suona in modo ben differente quando è saldamente tenuta dal piglio verdiano di Levine! Luisi pare navighi senza meta, incapace di trovare una chiave di lettura definita e lasciandosi trascinare in una mediocritas non proprio aurea che se non fa danni, neppure regala momenti di autentico interesse. Anche le scelte testuali lasciano qualche dubbio: versione del 1865 ovviamente, ma senza ballabili (peccato, essendo gli unici decenti scritti da Verdi) e con l’arbitrario inserimento dell’aria finale di Macbeth presa dalla versione del 1847. Sul piano vocale lascia perplessa proprio l’interpretazione della Netrebko che resta alla superficie del personaggio di cui non si coglie né l’aspetto demoniaco né quello sensuale (nonostante l’avvenenza e le generose scollature della bella Anna), oltre a mostrare impietosamente quanto il ruolo sia inadatto alla sua vocalità: soprattutto nella coloratura e nelle frequenti discese al registro basso, dove la voce del soprano russo mostra un eccessivo ingolfamento (l’effetto patata in bocca insomma). Si confermano dunque i dubbi – espressi anche dai suoi più accesi estimatori – in merito alla scelta. Migliori gli altri, anche se dal Macbeth di Lucic non ci si possono attendere finezze interpretative, nobiltà d’accento e fraseggio aristocratico. Corretto Pape (con un volume sonoro più ampio rispetto alle sue recenti incursioni scaligere) anche se manca di autorevolezza, così come Calleja che rende onore alla tradizione dei Macduff opachi e noiosi.
Gli ascolti – le Lady Macbeth del Met (e quella mancata per poco):