Dove eravamo rimasti?
Dopo un “Roberto Devereux” in forma di concerto, nel quale la protagonista, Mariella Devia, aveva scambiato la Regina Elisabetta per una arcigna e rigida professoressa di matematica, priva com’era di slancio, regalità, passione, umanità, ma anche dimidiata nella fluidità delle colorature, estremamente guardinga nell’affrontare certe frasi al centro e sul passaggio, centellinando e soppesando ogni nota ed ogni sforzo, per non parlare del vezzo di affrontare i passi di forza risparmiandosi quinci e quivi con prudenza spinta fino alla stasi, onde arrivare al finale più o meno sana, salva e senza convinzione; dove Celso Albelo, nel ruolo del titolo, per allinearsi all’interpretazione della collega, aveva deciso di trasformarsi nell’allievo spaurito e spaesato in grembiule e fiocco azzurro di tale terribile insegnante, chiamato alla lavagna per trovare la soluzione ad una difficile equazione, risolvendo il tutto con un fraseggio asettico, sostenuto da una vocina educatina, carina, piccina, a volte stonatina che ha fatto il suo compitino giusto per arrivare al 6; una coprotagonista, Chiara Amarù, sprovvista del minimo professionale per sostenere la voce e proiettarla, sgraziata e traballante com’era: è stata molto applaudita e mi auguro che al pubblico venga inflitta per i prossimi trent’anni. Un baritono, Paolo Gavanelli, che ha scambiato Donizetti con il Verdi del “Ballo in maschera”, muggendo e sparando decibel, ma dimostrandosi l’unico in grado di avere una minima idea basica di fraseggio; un direttore, Arrivabeni, che ha offerto la sua prevedibile “normalità” prona e spersonalizzata.
Dopo un “Orfeo ed Euridice” nel quale la protagonista, Anna Bonitatibus, non appoggiava un suono, nemmeno nell’unico registro in suo possesso, quello centrale, che per colore sarebbe anche sopranile, ma monco nell’estensione e dunque privo di sfogo nei registri; l’Euridice di Hélène Guilmette si dimostrava degna sorella di starlette come Annette Dasch, Anna Prohaska, Malena Erdmann, Jane Archibald, stridula, linfatica e con una intonazione che urlava vendetta; l’ Amore, Silvia Frigato, continuava la tradizione del putto petulante e candeggiato come si conviene; la direzione di Federico Maria Sardelli, che avrebbe potuto essere una miniera di fantasiosi incisi dal respiro ricco di stupore, ha preferito la strada della musicalità a tutti i costi, della precisione scientifica della musica, dell’educazione formale più asettica, che tradotto significa: monotonia e coloriti pallidi al posto della malinconia o della delicatezza degli affetti o del timore verso ciò che è divino e sconosciuto; al contrario, lo spettacolo firmato da Denis Krief, fatto di poco e con poco (una strada veduta prospetticamente per mezzo di pannelli rettangolari degradanti e garbate proiezioni) che vuole esaminare il percorso d’amore vissuto nella mente di un artista turbato dal proprio inferno, dai propri dolorosi demoni. Nulla di nuovo, ma fatto con onesto decoro.
Dopo un “L’amore delle tre Melarance”, volutamente evitato, per non soffrire davanti al demoniaco cast proposto, nonostante i proclami e gli spergiuri sui forum e sui social.
Dopo tutto, eccomi per raccontarvi di questo “Campiello”, opera in tre atti che Ermanno Wolf-Ferrari Mario Ghisalberti trassero con fedeltà dall’omonima commedia di Goldoni, andata in scena per la prima volta alla Scala nel 1936 (Favero, Adami-Corradetti, Carosio, Nardi, Nessi, Baccaloni).
Opera sfaccettata, nella quale l’estro di Wolf-Ferrari si scatena con dovizia cromatica inattesa se si pensa all’atmosfera decadente, onirica, sinistra dello “Sly” ad esempio, o alla più immediata e asciutta “Il segreto di Susanna”. Non sarà forse un capolavoro, ma la musica riflette le correnti europee del periodo, certe ballate o raffinatezze tradotte dalla musica tedesca colta e non, certe rielaborazioni del tutto italiane fuori ormai dal verismo e dal post-Puccini.
Sembra che Wolf-Ferrari voglia introdurci in una composizione atemporale, sospesa, che potrebbe benissimo vivere all’epoca dei Fioravanti e Cimarosa, ma convive perfettamente incastonata nella ricchissima prima metà del ‘900.
Leo Muscato, coadiuvato dalle meravigliose scene disegnate da Tiziano Santi, così precise e slanciate oltre che una festa di colori, ai costumi puntualissimi di Silvia Aymoino ed alle luci autentiche di Alessandro Verrazzi, si identifica con Goldoni, che appare in scena senza mai essere invadente, e ci conduce ad osservare con gli occhi pettegoli del poeta, come si svolge la vita normale, di gente comune, in questo “campiello” veneziano. Uno sguardo universale che non conosce ostacoli temporali: ogni atto, cioè, rispecchiandosi in tre differenti epoche (una per atto: settecento, anni ’50 del ‘900, 2014), scenograficamente distinte da significativi e accattivanti particolari, raccontandoci la storia assolutamente moderna di una umanità che non ha mutato nei secoli i modi di affrontare la vita, il gioco dei sentimenti, le differenze di classe e di desiderio, nonostante le conquiste tecnologiche, morali, di gusto, stile, e finanche urbanistiche.
Non diventa solo una questione di cambiarsi d’abito, ma proprio di un modo diverso di recitare la stessa opera in tre contesti differenti e questa scelta registica funziona con logica serrata e per l’intelligenza del messaggio. Ovvio e autoironico il “selfie” finale con il quale Gasparina conclude l’opera e che racchiude in un’unica immagine sorridente, tutti i personaggi dai quali lei e noi ci congediamo.
Si dimostra complice della fantasia di Muscato, la bacchetta di Francesco Ciluffo che firma una direzione nella quale emerge l’aspetto più umano e riflessivo della partitura, dalla quale chiarissimi emergono i riferimenti, o meglio, omaggi accorati di Ermanno Wolf-Ferrari all’ultimo Verdi ed al Mozart maturo, filtrati da un’ottica e da un gusto tipicamente novecenteschi; ogni personaggio così riceve dall’orchestra una connotazione del tutto personale e differenziatrice; i due, magnifici, interludi ricordano per certi versi la solarità mascagnana più soffice e intima, mentre il resto respira di quella varietà senza mai sacrificare il lato farsesco, ma mai parodistico, contrastato da quello più cinico e pratico dei duetti tra il Cavaliere e Fabrizio. L’orchestra si lascia guidare diligentemente e restituisce un suono avvolgente, agevolata dall’acustica del nuovo teatro, disturbata ogni tanto dai fatali corni: ormai mi sono rassegnata, ottoni e corni a Firenze non riusciranno mai a non imitare suoni onomatopeici o animaleschi.
La riuscita della recita si deve anche ad un cast che, malgrado alcune eccezioni e l’esiguità dei volumi, manteneva un costante equilibrio e dimostrava una spumeggiante coesione, ed un raro affiatamento, oltre alla voglia di cantare al meglio delle possibilità.
Bene assortita e ben scelta la coppia protagonista: Alessandra Marianelli, che avevo lasciato come spiritata, spigolosa, vetrosissima, impacciata Micaela in una tragicomica “Carmen” allo Sferisterio di Macerata, nei panni di Gasparina è perfettamente a suo agio, perché la sua voce piccola, ma sonora, in un ruolo da mezzo carattere, di delicata comicità, da cantare con precisione, ma con disinvolta malizia, si sposa con le esigenze del personaggio e della partitura senza creare disagi o fratture nella linea di canto, che viene sostenuta senza sforzo, dimostrando una grande affinità stilistica con questo genere, che il soprano dovrebbe esplorare ed approfondire abbandonando ruoli gravosi che nuociono alla luminosità del timbro rendendolo seghettato e fuori controllo, al contrario valorizzato da tessiture e ruoli di tal genere. Ottima la dizione nella difficoltà, superata, di pronunciare la “S” come “Z” in dialetto veneziano restituendo tutto lo spirito goldoniano del carattere e concedendosi un saluto finale a Venezia venato da struggente, verace malinconia.
Buona prova anche quella di Clemente Antonio Daliotti, Cavaliere Astolfi, dal quale si vorrebbe maggiore fluidità nell’emissione, che resta granulosa anche nel legato, soprattutto nei continui recitativi e nelle richieste di addolcire; ma la voce è sostenuta discretamente, lo stile, la dizione e la pronuncia napoletana sono onorati con gusto ed il fraseggio restituiscono al personaggio tutta la fatuità giovanile di chi “povero” ricco sperpera il patrimonio a caccia di dote e gonnelle come se fosse un gioco senza conseguenze o responsabilità.
Scatenatissimi, volutamente sopra le righe, naif e estrema parodia di certe damazze televisive, o di Milf assatanate, i due tenori Luca Canonici e Cristiano Olivieri nei panni di due “mammine care en-travesti” rispettivamente Donna Pasqua e Donna Cate: la voce di entrambi, soprattutto di Canonici, dopo anni di carriera, è più affine ad un parlato-intonato di un certo spessore; un parlato però, che deve far emergere la comicità, l’esasperazione dei caratteri, l’empatia con il pubblico, direttamente dall’accentazione della parola e dell’inflessione dialettale, cosa riesce ad entrambi con grande padronanza.
Restano voci senili, dall’estensione limitata e dall’emissione aperta e ballante, ma che i tenori riescono ad organizzare ed orientare, come possono, riuscendo nell’impresa di non apparire di grana grossa o volgari.
Buon riscontro anche per l’Orsola interpretata da Patrizia Orciani, spalla comica e versione “femminile” della madri sopracitate, che sfrutta il registro centrale chiaro e governato con decoro, per creare un personaggio petulante senza dilagare o eccedere, nonostante i furibondi concertati e scene d’insieme che deve fronteggiare, ma anche per il basso Luca dall’Amico, che interpreta il nobile napoletano Fabrizio dei Ritorti con voce educata e con un accento giustamente distante e gelido che deve necessariamente far emergere la frattura di classe tra l’intellettuale aristocratico e burbero, con la semplicità ruspante del popolo veneziano.
Peccato che le cose belle finiscano qui, perché la Lucieta di Diana Mian è il festival della voce intubata e indietro oltre che disturbante nel suo perenne atteggiarsi da vaiassa al lavaggio dei panni; la Gnese di Barbara Bargnesi tortura impietosamente l’udito utilizzando la sua voce esattamente come un’arma bianca, con tutto il repertorio di suoni aguzzi, fissi come fischietti, una intonazione fondata su schegge acuminate e impazzite, pianissimi immateriali perché poggiati male o privi di appoggio e consistenza, accostati ad un fraseggio completamente erratico che non permette al suo personaggio di emergere con le dovute ambiguità adolescenziali; inconsistenti, slavati, gorgoglianti, troppo nasali o troppo gonfi, l’Anzoleto ed il Zorzeto di Filippo Morace e Alessandro Scotto di Luzio.
Tendenzialmente calante o crescente il coro, stavolta un po’ svogliato e stipato nel golfo mistico.
Teatro pieno e festante per tre quarti alla prima, più vuoto nelle altre recite. Un peccato, stavolta, per il pubblico fiorentino, perdersi questa delizia; ma comprendo perfettamente le ragioni di tale snobismo basato sulla fiducia tradita più volte da maestranze, lavoro raffazzonato e sindacati.
Che queste recita siano d’esempio positivo per il prosieguo della stagione, ma come mi dicevano in biglietteria:”Posti ce ne sono quanti ne vuole, e biglietti ne abbiamo ancora a bizzeffe.”, segno che sono finiti i tempi delle file chilometriche, delle attese stagionali, dell’affezione verso una ex istituzione culturale ricca e vivace, vittima di se stessa e della politica.
P.S. Capisco il non voler interrompere il flusso delle “emozioni” operistiche con una o due pause, l’opera risolvendosi in un paio d’ore, capisco la volontà di non disturbare i vicini di posto, ma impedire al pubblico delle gallerie tramite maschere fin troppo solerti, di uscire nel foyer durante quei 5-10 minuti di pausa tra un cambio scena e l’altro onde espletare i richiami della natura, mi sembra un atteggiamento prepotente da parte del teatro.
M’è spiaciuto davvero perdere IL CAMPIELLO a Firenze, ma spero di rincorrerlo nella mia amata Trieste, dove verrà riproposto.
Con una punta di narcisistico orgoglio, vedo che circola la mia ripresa video dell’edizione triestina: meno male che all’epoca potevo e volevo impiccionare anche con la videocamera.
Bei tempi quelli della gioventù…