Forza del destino è l’unica pietanza del cosiddetto festival Verdi, accompagnata da altre proposte, che configurano un contorno ora surgelato ora avariato, ora liofilizzato rinfrescato, che viene servita nella sala del Regio. Continuando la metafora gastronomica anche la pietanza principale aveva ingredienti, che un cuoco (ma anche una “resdora” locale) avrebbe rimandato al mittente in quanto avariati e capaci di rovinare il piatto principale.
Il pezzo da 90 l’ingrediente migliore è stato, come già accadde per il Boccanegra della passata edizione, il direttore Jader Bignamini. Della serata sono state di livello la sinfonia, il primo atto dove il direttore ha trasformato, attesa la qualità della coppia di innamorati un duetto altisonante ed un tantino pompier in un colloquio d’amore. Assai inferiore l’intero secondo atto pesante sia nel descrivere la taverna ed i personaggi che la popolano e nella ballata di Pereda; non ben gestita la preghiera seguente, che chiude l’atto. Anche la scena –clou- di Leonora penitente al convento con aria e confessione e la seguente scena della vestizione non sono state di livello. Ma Bignamini doveva fare il conto con il materiale vocale di cui disponeva e che, in altri tempi ed in altra fase della carriera, un direttore avrebbe prontamente rispedito al mittente. Poi il direttore ha preso quota: bellissimo il preludio all’aria di don Alvaro, ben accompagnato sia il primo duetto “Solenne in quest’ora” che l’aria di don Carlo, se Luca Salsi non fosse impresentabile, con tempi veloci e pulsanti (altrimenti che sarebbe successo) e poi arrivati al finale dell’atto dalla ronda (elegante e leggera) alla scena di mastro Trabuco notevoli senza problemi nella tenuta dell’orchestra, nella qualità del suono ed anche il rataplan (cantato malissimo) era in orchestra spumeggiante solo che sul palcoscenico nei panni dell’esperta zingarella annaspava Chiara Amarù che non è certo la Pederzini o la Verrett, ma neppure una solida professionista come furono Franca Mattiucci, Maria Luisa Nave e Bruna Baglioni. Anche il quarto atto è stato diretto ed accompagnato ad un livello, che gli altri under quaranta italiani e stranieri non sanno raggiungere. Misurata la scena della minestra, veloce e tagliente l’accompagnamento della sfida, drammatico ed intenso il richiamo del tema del destino che ci porta allo speco di Leonora penitente, un effetto notevole nella grande tradizione, poi mandato a puttane (sic!) non appena la Tola ha aperto la bocca e lo stesso sarebbe stato il terzetto se il basso fosse un basso e il soprano una cantante.
Siccome i cantanti non cantavano talvolta cantavano gli strumenti e una notazione va fatta per il canto dell’arpa in tutti gli episodi, sinfonia, finale in cui è presente in orchestra.
E adesso cominciano le geremiadi. Faccio una premessa, che credo sia un ripetizione, sino agli anni ’70 nei teatri italiani Forza del destino era un titolo usualmente proposto, non mi metto a fare i nomi delle donne Leonora sicure ed inossidabili o dei don Alvaro sempre pronti e professionali. Le Preziosilla le ho nominate e non posso dimenticare quanto solido e sicuro nella resa fosse il padre guardiano di Bonaldo Giajotti. Ripeto non stiamo parlando di quelle produzioni, che ci ricordano che la Forza del destino richiederebbe un cast da Ugonotti, ma di prodotti sicuri e solidi. Dimostreremo essere esistiti e non sognati da quelli della Grisi. Oggi siamo ad un tale stadio di malcanto che allestire Forza è divenuta un’impresa di alta alchimia.
A Parma si andava dalla stentata sufficienza all’impresentabilità.
Impresentabile, improponibile, non professionale la Leonora di Virginia Tola, che non ha nulla neppure un timbro decente, voce dura, una sorta di dura lamina che vibra, senza colori, senza cavata. E per colmo del ridicolo (ridere per non piangere) in uno degli intervalli la sconsiderata commentatrice di tele ducato ha intervistato la cosiddetta maestra della Tola, che sarebbe la Kabaiwanska, la quale ultima ma non certo sola dimostra che i cantanti una volta ritirati a tutto fuorchè l’insegnamento dovrebbero dedicarsi. Devo far presente che le due punte di diamante della ecòle Raina dimostrano gli stessi limiti e difetti. Sarà un caso……
Che poi il pubblico parmigiano applauda è assolutamente irrilevante.
Come è irrilevante o meglio giustificato dal campanilismo proclamare Michele Pertusi ( che ricordiamolo in Scala stentava a farsi sentire nei sillabati centrali di don Pasquale) un cantante verdiano. Di questa categoria vocale manca tutto a Michele Pertusi colore vocale, ampiezza, accento, estensione (il cantante oggi è piuttosto accorciato per esibire quel minimo di centro che Verdi presenta).
Fra gli impresentabili sia Roberto de Candia fra’ Melitone della peggior tradizione dei Melitone parlanti, vocianti, sgraziati e beceri. Il sito del teatro ad opera del sig Alessandro Bianchini offre ai pellegrini telematici un saggio sul primo esecutore di Melitone, facendo di Verdi l’inventore del baritono brillante. Chiariamoci se qualcuno ha inventato o meglio codificato tale categoria questi è Rossini con Figaro e Dandini e quanto al primo Melitone Achille de Bassini, che Verdi circuisce e blandisce offrendogli la parte era un grandissimo baritono verdiano (primo Miller e primo doge Foscari) giunto a fine carriera, che aveva conservato l’estensione e perso attesa l’età e la carriera l’ampleur e la grandiosità necessarie per le parti serie. Accadde anche a Giuseppe Kashmann e successivamente a Sesto Bruscantini, grande Melitone, infatti, ed a Giuseppe Taddei.
E se i teatri d’opera venissero gestiti con cervello Melitone oggi canterebbe Leo Nucci.
L’altro baritono, ossia Luca Salsi che dovrebbe eseguire la parte grandiosa, dare nobile voce e nobile canto ai sentimenti del nobile offeso canta con voce gonfia, sorda al centro, fissa e afona sugli acuti. Basta sentire la fatica e la qualità del suono per salire ai fa della ballata (tutti preceduti da generosi e compiaciuti rallentando) o i suoni, che poco hanno del canto professionale della stretta dell’aria. In questo caso il pubblico degli amici e concittadini lo ha “condito” con quattro clap clap. La vera amicizia avrebbe imposto sonori fischi, dolorosi, ma dovuti.
Sarebbe il caso di domandarsi con questi elementi se convenga eseguire i tre duetti del terzo atto che in tale modi diviene per tenore e baritono davvero massacrante. Nel deserto parmigiano appena appena sufficiente Roberto Aronica nel ruolo di don Alvaro. Ogni tanto, fortuna del dilettante, imbrocca gli acuti e regge (finale dell’opera, duetto del convento) la tessitura scomoda con una certa facilità per contro il primo atto, la chiusa dell’aria ed il secondo duetto del terzo atto lo hanno visto in difficoltà.
La solita morale il direttore è bravo, ma la Forza si fa per i cantanti. Elementare Watson!
7 pensieri su “Fratello streaming. La Forza del destino da Parma. Un direttore non basta!”
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Se oggi l’aria di Leonora fosse eseguita da una cantante con la saldezza di emissione (il colore e a parte) della Guerrini, e i suoi acuti fossero precisi come si ascolta dalla sopraddetta esecuzione potremo ancora sperare che l’opera si riscatterà.
Ahimè invece e tutto un discutere se…(..) al posto di tizio ci mettesserp caio, se il baritono fosse…sempronio etc. Se io debbo assistere a dei tentativi di opera, allora io dico: in attesa di ….Resto a casa e mandateci altri a teatro.
Che ultimamente non vai a teatro s’era capito già da un po’. Ce ne faremo una ragione.
Non sono d’accordo riguardo a Bignamini. Ha diretto diverse parti in maniera bandistica e con scarsa attenzione al palcoscenico. Vi erano diversi momenti in cui coro, cantanti e orchestra andavano ognuno per proprio conto. La concertazione era davvero pressappochistica. Il cast non all’altezza e anche il mitico coro del Regio decisamente in ribasso. In definitiva il mio giudizio sulla recita, per dirla con la compianta Sandra Mondaini: che barba, che barba, che barba che noia…
mi è stato riferito che il pubblico locale abbia mostrato qualche perplessità nei confronti di Bignamini, che -immagino- tu hai sentito dal vivo in questa forza.
Né per streaming né dal vivo ho riscontrato quanto tu dici. Oltre tutto per dolorosa esperienza posso dire che sono ben altri i direttori italiani (con cognomi che terminano in accrescitivo e non in diminutivo) esperti del ognuno per proprio conto. Se potessi essere più preciso sui momenti ora bandistici ora “ognun per sé” te ne sarei davvero grato.
Poi quanto alla “barba” l’opera di fa con i cantanti ed infatti il meglio è arrivato dopo che la protagonista è rientrata in camerino ad attendere la propria santa morte, ovvero tutto il terzo atto e la prima sezione del quarto.
Sicuramente il livello di Bignamini non è quello del tanto decantato direttore che termina in “oni” ed inizia con “Battis”; siamo d’accordo. Altro livello, altro spessore nella lettura, altro gesto, insomma altra razza. Tuttavia il giovane cremasco ti assicuro che nella sinfonia iniziale e, in genere, in tutto il primo atto, ha deluso le mie aspettative. L’avevo ascoltato in passato riportandone un’ottima impressione ma, sinceramente, mi sarei aspettato di più. Ero in un ottimo punto della sala e credo di avere ancora le orecchie buone. D’accordo sul fatto che l’opera si faccia con i cantanti e d’accordo pure sul fatto che con più prove e con un cast migliore Bignamini avrebbe potuto valorizzare in maniera ben diversa la sua direzione. Il talento non gli manca. Diamogli tempo e vediamo cosa saprà fare il 2 novembre con la Verdi nella Messa di Requiem.
Mi sembra pretestuoso fare le pulci a Bignamini in un teatro e in una città che ha decretato strapaesani trionfi a vere e proprie sciagure del podio. Bignamini non è certo un esordiente da far valutare ai sedicenti esperti del loggione parmigiano… Il fatto che diriga con ottimo profitto Mahler o Mendelssohn evidentemente non interessa ai parmigiani…che probabilmente neppure sanno chi sono (o dei quali cercheranno fumosi collegamenti a Verdi o al prosciutto crudo)
Ah ah… che bella battuta!