Il concerto romano di Diana Damrau presso l’Auditorium di Santa Cecilia con un programma interamente dedicato a Meyerbeer si presentava di assoluto interesse e, quindi, degno di una piccola trasferta. Affidandosi alla bacchetta di Antonio Pappano ed alla sua fantastica orchestra, la signora Damrau aveva in progetto di segnare una nuova importante tappa della sua brillante ed oculatissima carriera, proponendo alcune delle arie “must” del genio franco tedesco, arie notissime perché capisaldi dei repertori dei grandi soprani di agilità fino alla prima metà del novecento. Una volta scomparso dalle scene, il fasto di Meyerbeer si è rinverdito nel secolo scorso in rare occasioni ad opera di alcuni fuoriclasse, nel caso della corda sopranile con Joan Sutherland, Beverly Sills, June Anderson, etc.. che ci hanno lasciato, al pari delle loro auguste colleghe dell’era precedente, testimonianze audio di altissimo livello esecutivo. In questi ultimi anni abbiamo assistito anche qui in Italia ad alcune riprese di opere di Meyerbeer, riproposte più in forza di un interesse musicale e filologico che non, come è sempre accaduto in passato, per la presenza di cantanti straordinari, in grado di assolvere i compiti ardui, al limite delle possibilità umane, che il compositore prescriveva per le voci. Esigenze fatte di tonnellaggi vocali idonei a confrontarsi ora con i suoi robusti orchestrali, ora di ampie estensioni sul pentagramma ora di assiduità al canto acrobatico di ogni genere e sempre necessari di personalità espressiva, capacità di fraseggiare, resistenza fisica. Un musicista proibitivo, insomma, riservato solo ai fenomeni. La storia esecutiva delle opere di questo musicista, cronologie discografiche oltre che teatrali alla mano, coincide di fatto con la storia dei nomi più importanti del canto lirico degli ultimi due secoli. Cantare Meyerbeer oggi non mi pare qualifichi più gli esecutori come grandi cantanti. Tutti cantano tutto e si sono definitivamente abbattute le gerarchie di valore che per secoli hanno sostenuto la qualità del canto lirico: si arrivava a cantare certo repertorio perché si era vocalmente ed interpretativamente adeguati ad esso.
La signora Damrau, lo abbiamo detto in più di una occasione, è bravissima proprio nella gestione della propria carriera e del proprio look di diva, secondo uno stile di organizzata intelligenza, che ben la distingue dalle colleghe sul piano della sobrietà, della misura esatta di sé, delle scelte mai troppo azzardate, un mix mai altisonante, mai cafone o esagerato, mai troppo di qualcosa, ma altamente funzionante, quasi fosse una perfetta berlina tedesca.
Era naturale, quasi inevitabile, che approdasse a questo concerto da grande “chanteause a roulades”, perché dopo Mozart e certo repertorio francese, Meyerbeer rappresentava una tappa quasi obbligata in una carriera come la sua. E puntuali i nodi sono venuti al pettine, perché Meyerbeer, al pari di Rossini, non consente al cantante di barare. Al di là del successo caloroso ottenuto dalla signora Damrau e nonostante l’annuncio garbato trasmessoci dal maestro Pappano di una “lieve indisposizione” della signora, il programma ha messo impietosamente alle corde il soprano tedesco, il cui canto, oggi come oggi, non è nemmeno più quello delle Regine della Notte che l’hanno portata al successo.
Trovarsi al centro di una grande carriera, un po’ per caso ( la dipartita di cantanti come la Dessay) e un po’ per merito, non basta per inerpicarsi nei terreni più impervi della vocalità femminile che la Damrau si è qui trovata a gestire con una voce che oggi stenta ad essere estesa, il mezzo mai a fuoco, soprattutto nelle agilità, sconosciute quelle di forza imprescindibili per lo slancio di “D’una madre disperata” di Palmide, e, soprattutto, l’assenza di legato in zona centrale, carenza fatale per eseguire ” Robert, toi que j’adore“o per dar voce al languore di “ Oh beau pays de la Tourenne“. Mai perfettamente sicura in acuto anche ad inizio carriera ( la sua Regina della Notte non è mai stata impeccabile ed ha sempre stentato a tenere il passo di quel monumento di potenza e sicurezza che spesso emula, Frau Gruberova) ha comunque trovato le sue prove migliori in Mozart, per passare, dopo poche prove in Lucia, Sonnambula e Puritani, che dovrebbero essere il tuo terreno di elezione, ad una via apparentemente più comoda fatta di ruoli come Manon di Massenet, più recentemente Traviata. Opportunamente lontana dagli oneri virtuosistici che Rossini le avrebbe imposto ( il Barbiere è parso una esperienza fugace ) ha fornito nelle eroine belliniane o in Lucia delle buone prove, mai di valore assoluto, per mancanza di pathos e di quella cifra malinconica che sono essenziali per dar forza al canto romantico in alternativa alla via strumentale e acrobatica. Insomma, la signora Damrau ha ordinatamente camminato su una via che non è stata mai né quella del vocalista astratto né quella del cantante espressivo.
Ora, il suo ripiegare su Violette e affini, pur in prove che le hanno dato successo ed affetto di pubblico come la sventurata produzione scaligera, mi pare abbia prodotto difficoltà vocali che prima erano in secondo piano, ma che già a Milano abbiamo udito con chiarezza. Forzare al centro uno strumento nato o per stare in alto o per essere al più quello di una seconda donna o di una primadonna buffa, le ha causato quello che lunedì sera abbiamo udito al Parco della Musica di Roma, ossia la scarsa sonorità al centro, molte note “soffiate”, qualche primo acuto sonoro perché forzato, acuti estremi o sfilacciati e sottili o gridati o presi “da sotto”, frasi virtuosistiche variamente abborracciate, a cominciare dallo scarso volume a malapena udibili. Il tutto condito da un continuo gesticolare da cantante jazz ( more Dessay o Di Donato nei video in sala di incisione ), un continuo uso di sospirini e sospiretti, mossette e caccole da cantante che recita a beneficio dei fans (e le è in gran parte riuscito dato il riscontro del pubblico), un andare e venire quinta – palco camminando a piccoli passi meccanici da primadonna buffa mentre non stava cantando alcunché di buffo, un continuo ammiccare e fare faccine e smorfiette a chi stava seduto nelle prima file, insomma un gran lavoro per risultar simpatica e divertente, mentre il canto procedeva tra vere difficoltà.
Meyerbeer, diavolo e profeta, come titolava un libro di qualche anno fa, ha inchiodato Diana ai suoi limiti vocali e, fatemelo dire, anche ai suoi limiti di interprete, o forse di cantante nata lontano dall’humus del belcantismo italiano, impregnata di gusto tedesco recente: il caso più eclatante è stato il fallimento della cifra esecutiva di slancio e di forza dell’aria iniziale del concerto, quella di Palmide del Crociato in Egitto, tipica dello stile agitato italiano che resero famose la Correa o la Manfredini Guarmani.
“Robert toi que j’aime” sarebbe preferibile se eseguito da una voce lirica, ma anche una voce leggera lo può ben gestire, a patto però che l’uso del fiato sia quello di cantanti come la Sills, che tutto lega e che sempre passa dal centro ai primi acuti con leggerezza e facilità, rendendo le messe di voce un emozionante piacere per l’orecchio e non un amaro passaggio di fatica e di sforzo. Nell’aria di Dinorah avrebbe dovuto essere perfettamente a suo agio e volare sul pentagramma, mentre, al contrario, è stata estremamente in difficoltà negli acuti ed affettata come interprete. Il ricorso ad “effettini” per supplire alla mancanza di facilità nell’esecuzione mi è parsa stucchevole e il pensiero è andato al suo modello stilistico che in Scala, un paio d’anni fa, a fine concerto centrò all’età di 66 anni un’esecuzione ancora mirabile, con la voce amplissima, sempre a fu oco, sonora e leggera. Di “O beu pays de la Tourenne“ vi ho in parte detto per quanto concerne la prima sezione; della cabaletta non posso dir meglio, corredata anche da suoni sgallinacciati, che dalla Damrau non avevo mai sentito.
Il meglio del soprano tedesco è forse venuto dal couplè di Urbain, “Noble segneurs salut”, il brano meglio eseguito sul piano vocale, cui ha però attribuito una singolare valenza buffa, dimentica che la cifra della scena è quella galante e da clima cortese tipica del gran operà.
Insomma, un concerto deludente, trascinato in realtà da quella perfetta macchina orchestrale che è la compagine di Santa Cecilia, lo strumento scintillante messo a punto dalla maestria di Antonio Pappano, che suona con omogeneità assoluta, ogni sezione di altissimo livello, compatta, dotata di una suo “sound” riconoscibilissimo, leggera e potente al tempo stesso. La prova maiuscola fornita in alcuni momenti eclatanti, dai crescendo degli archi della Semiramide alla maestosità dei fiati nell’ouverture della Dinorah etc, tanto per esemplificare, ha avuto il suo suggello nell’esecuzione dell’ouverture del Benvenuto Cellini di Berlioz, compositore che evidentemente esalta e si addice al maestro Pappano. Il valore assoluto del concerto si è concentrato interamente nella loro prova, festeggiata ampiamente dal pubblico romano.